Ex novo - Sibilla e Caterina
Inviato: mercoledì 3 maggio 2017, 19:49
Prima che Sibilla mi dicesse: “Papà, volevo parlarti prima del processo... ”, c’era un mondo.
Non era perfetto, ma era ordinato. Quello che è venuto dopo non era più il mondo che conoscevo, ma un ammasso informe di pezzi scollegati.
Abbiamo appoggiato due cappuccini e un cornetto sul tavolino di plastica del bar. Mentre lei parlava li abbiamo lasciati raffreddare, di tanto in tanto fissavo il cornetto, che ora mi sembrava una frivolezza oltraggiosa. Lei raccontava per eufemismi, in tono controllato – per non ferire me, mi resi conto dopo.
“... non sarà facile, non è impossibile che perdiamo. C’è il problema del consenso. Io a un certo punto ho perso ogni speranza e ho smesso di resistere. Mi sono detta che quella cosa mi stava succedendo, non potevo uscirne, non potevo aggirarla. Dovevo per forza passarci attraverso, e potevo sopravvivere solo rifugiandomi da qualche parte dentro di me. Scusa, non riesco a spiegarmi bene.”
In realtà, a questo punto non riusciva nemmeno a parlare. Si era lasciata sfuggire un singhiozzo, io non l’avevo vista piangere da quando aveva tredici anni e provavo vergogna. Avrei voluto coprirmi il viso con le mani ma non l’ho fatto, non volevo che pensasse che mi vergognavo di lei. Invece, le ho stretto le mani sul ripiano del tavolino; le ha sottratte subito, e si è asciugata le guance con le dita.
Quando siamo usciti dal bar, e lei si è allontanata lentamente per tornare in ufficio, la strada non era più la strada che conoscevo. C’era un sole violento, una luce folle che riduceva persone e cose a minacciose sagome scure. Mi avviai verso casa in questo nuovo mondo incomprensibile.
Anch’io ho avuto ventitré anni, una volta. Avevo una splendida giacca di cuoio, studiavo Giurisprudenza e giravo su un orrendo incrocio tra moto e scooter, la cui manutenzione mi rubava metà del fine settimana. Come Sibilla, ero innamorato, e come Sibilla avevo dei corteggiatori, o meglio delle corteggiatrici, il che faceva la differenza. Erano gli anni Ottanta, però non eravamo mica a New York: se gli interessavi te lo facevano capire in modo sottilissimo. Poi c'erano quelle esplicite da far pena, ma per lo più si trattava di secchione pallide; non di ragazze che valgono qualcosa, come la mia Sibilla e sua madre, Caterina.
Sua madre, da giovane.
Aveva labbra solide e morbide e lucenti come caramelle gommose, un sorriso da modella dei settimanali. Era l’unica a cui corressi dietro ma si limitava a sorridermi, enigmatica come una sfinge. “Timida” pensavo quando credevo che le cose sarebbero andate in porto, “smorfiosa” quando la vedevo rivolgere quel sorriso ad un altro. Alla fine riuscii a convincerla ad uscire con me. Era un venerdì sera, la portai in un posto che faceva hamburger e panini. Non ricordo molto di quell'appuntamento, tranne che il discorso non filava, spezzato da terrificanti buchi di silenzio. Il martedì seguente camminavo dietro di lei in corridoio, all’Università. Non mi aveva visto: parlava con una sua amica bassa, che conoscevo di vista. “Ci sono uscita” diceva “ma lui non mi piace, l’ho fatto praticamente solo per cortesia, sembrava tenerci così tanto.”
Quella sera mia madre mi chiese se doveva chiamare la guardia medica.
Lasciai passare qualche giorno, ripresi coraggio e le telefonai – non avrei mai potuto parlarle di persona – per chiederle un secondo appuntamento. Accettò; in seguito mi convinsi che l’aveva fatto con entusiasmo, e che quel martedì stesse parlando di qualcun altro. Per impressionarla, la portai in un ristorante toscano di una certa classe, ma non sembrava particolarmente impressionata. Ma sebbene facesse la ritrosa come mai mi era capitato riuscii a strapparle un bacio, e la promessa di un terzo appuntamento. Mentre tornavo a casa mi scoprii a cantare. Io non canto mai.
Alla fine del terzo appuntamento, con la scusa di darle degli appunti, la portai a casa mia; i miei erano ad un ritiro aziendale. Ci sedemmo sul divano e la baciai. Lei rideva: “Basta così, devo andare, sono stanca.” Non la lasciai andare, non potevo lasciarla andare. Glielo spiegavo continuando a baciarla e a toccarla, le dicevo che l’amavo, che sapevo che non era una ragazza facile, non aveva bisogno di dimostrarlo. A un certo punto dovetti bloccarle i polsi, per timore che si facesse male in tutto quel suo agitarsi. E anche se non era una facile, le dissi, non poteva spezzarmi il cuore. Se se ne fosse andata mi avrebbe spezzato il cuore, non poteva farmi questo, no, dai, resta. E intanto la spogliavo. Lei poco a poco smise di resistere.
La mia prima volta. Ero dentro di lei, lì sul divano, tutto era caldo e confuso e la guardavo in faccia. I suoi occhi sembravano fissi su un punto che si trovava al contempo a centinaia di chilometri da lei e centinaia di chilometri dentro di lei, nel suo centro. Per anni mi sono interrogato su questo suo sguardo. Alla fine avevo concluso, commosso, che stava contemplando se stessa diventare donna, da bambina che era.
Dopo, si era alzata per andare a prendere un bicchier d’acqua, ma si era accasciata ai piedi del divano e aveva pianto un pianto lunghissimo, sommesso, nudo. L’avevo stretta per tutto il tempo, amando ogni centimetro di lei.
Avevo continuato ad uscirci, e a farci l’amore quando e dove potevo. Lei ora teneva sempre gli occhi chiusi.
I lunghi tira e molla che ci portarono al matrimonio mi erano sembrati giusti e necessari: una ragazza così non ti si accoda zitta e silenziosa, devi convincerla, conquistarla, domarla. Tre anni dopo il matrimonio riuscii a metterla incinta e nacque Sibilla, di cui sono stato a volte geloso per l’amore religioso ed esclusivo che sua madre le riservava, invece di darlo solo a me.
Mentre i nostri cappuccini si raffreddavano, dopo essersi asciugata le lacrime con le dita, Sibilla aveva continuato: “Ecco. Volevo dimenticarmi tutto, fare come se non fosse mai successo. Ma stavo così male. Non mi sentivo più me stessa. Grazie a dio che ho parlato con la mamma. Ho cercato di convincermi che lo amavo pur di non ammettere che quella cosa era successa davvero. Per fortuna ne ho parlato con la mamma, grazie a dio.”
Davanti al portone, invece di cercare le chiavi, mi copro il viso con le mani, e le faccio strisciare fino all’attaccatura dei capelli. La persona che ricambia il mio sguardo dallo specchio dell’ascensore non è più quella di un’ora e mezza fa, la sua faccia è crollata insieme al mondo.
Caterina è seduta al tavolo accanto al balcone. La luce del sole è in tutta la stanza, e scorgo solo la sua snella silhouette davanti al pigro ondeggiare delle tende bianche. “Te l’ha detto” mormora. Mi avvicino per vederla in viso. L’espressione dei suoi occhi è la stessa della nostra prima volta.
Non era perfetto, ma era ordinato. Quello che è venuto dopo non era più il mondo che conoscevo, ma un ammasso informe di pezzi scollegati.
Abbiamo appoggiato due cappuccini e un cornetto sul tavolino di plastica del bar. Mentre lei parlava li abbiamo lasciati raffreddare, di tanto in tanto fissavo il cornetto, che ora mi sembrava una frivolezza oltraggiosa. Lei raccontava per eufemismi, in tono controllato – per non ferire me, mi resi conto dopo.
“... non sarà facile, non è impossibile che perdiamo. C’è il problema del consenso. Io a un certo punto ho perso ogni speranza e ho smesso di resistere. Mi sono detta che quella cosa mi stava succedendo, non potevo uscirne, non potevo aggirarla. Dovevo per forza passarci attraverso, e potevo sopravvivere solo rifugiandomi da qualche parte dentro di me. Scusa, non riesco a spiegarmi bene.”
In realtà, a questo punto non riusciva nemmeno a parlare. Si era lasciata sfuggire un singhiozzo, io non l’avevo vista piangere da quando aveva tredici anni e provavo vergogna. Avrei voluto coprirmi il viso con le mani ma non l’ho fatto, non volevo che pensasse che mi vergognavo di lei. Invece, le ho stretto le mani sul ripiano del tavolino; le ha sottratte subito, e si è asciugata le guance con le dita.
Quando siamo usciti dal bar, e lei si è allontanata lentamente per tornare in ufficio, la strada non era più la strada che conoscevo. C’era un sole violento, una luce folle che riduceva persone e cose a minacciose sagome scure. Mi avviai verso casa in questo nuovo mondo incomprensibile.
Anch’io ho avuto ventitré anni, una volta. Avevo una splendida giacca di cuoio, studiavo Giurisprudenza e giravo su un orrendo incrocio tra moto e scooter, la cui manutenzione mi rubava metà del fine settimana. Come Sibilla, ero innamorato, e come Sibilla avevo dei corteggiatori, o meglio delle corteggiatrici, il che faceva la differenza. Erano gli anni Ottanta, però non eravamo mica a New York: se gli interessavi te lo facevano capire in modo sottilissimo. Poi c'erano quelle esplicite da far pena, ma per lo più si trattava di secchione pallide; non di ragazze che valgono qualcosa, come la mia Sibilla e sua madre, Caterina.
Sua madre, da giovane.
Aveva labbra solide e morbide e lucenti come caramelle gommose, un sorriso da modella dei settimanali. Era l’unica a cui corressi dietro ma si limitava a sorridermi, enigmatica come una sfinge. “Timida” pensavo quando credevo che le cose sarebbero andate in porto, “smorfiosa” quando la vedevo rivolgere quel sorriso ad un altro. Alla fine riuscii a convincerla ad uscire con me. Era un venerdì sera, la portai in un posto che faceva hamburger e panini. Non ricordo molto di quell'appuntamento, tranne che il discorso non filava, spezzato da terrificanti buchi di silenzio. Il martedì seguente camminavo dietro di lei in corridoio, all’Università. Non mi aveva visto: parlava con una sua amica bassa, che conoscevo di vista. “Ci sono uscita” diceva “ma lui non mi piace, l’ho fatto praticamente solo per cortesia, sembrava tenerci così tanto.”
Quella sera mia madre mi chiese se doveva chiamare la guardia medica.
Lasciai passare qualche giorno, ripresi coraggio e le telefonai – non avrei mai potuto parlarle di persona – per chiederle un secondo appuntamento. Accettò; in seguito mi convinsi che l’aveva fatto con entusiasmo, e che quel martedì stesse parlando di qualcun altro. Per impressionarla, la portai in un ristorante toscano di una certa classe, ma non sembrava particolarmente impressionata. Ma sebbene facesse la ritrosa come mai mi era capitato riuscii a strapparle un bacio, e la promessa di un terzo appuntamento. Mentre tornavo a casa mi scoprii a cantare. Io non canto mai.
Alla fine del terzo appuntamento, con la scusa di darle degli appunti, la portai a casa mia; i miei erano ad un ritiro aziendale. Ci sedemmo sul divano e la baciai. Lei rideva: “Basta così, devo andare, sono stanca.” Non la lasciai andare, non potevo lasciarla andare. Glielo spiegavo continuando a baciarla e a toccarla, le dicevo che l’amavo, che sapevo che non era una ragazza facile, non aveva bisogno di dimostrarlo. A un certo punto dovetti bloccarle i polsi, per timore che si facesse male in tutto quel suo agitarsi. E anche se non era una facile, le dissi, non poteva spezzarmi il cuore. Se se ne fosse andata mi avrebbe spezzato il cuore, non poteva farmi questo, no, dai, resta. E intanto la spogliavo. Lei poco a poco smise di resistere.
La mia prima volta. Ero dentro di lei, lì sul divano, tutto era caldo e confuso e la guardavo in faccia. I suoi occhi sembravano fissi su un punto che si trovava al contempo a centinaia di chilometri da lei e centinaia di chilometri dentro di lei, nel suo centro. Per anni mi sono interrogato su questo suo sguardo. Alla fine avevo concluso, commosso, che stava contemplando se stessa diventare donna, da bambina che era.
Dopo, si era alzata per andare a prendere un bicchier d’acqua, ma si era accasciata ai piedi del divano e aveva pianto un pianto lunghissimo, sommesso, nudo. L’avevo stretta per tutto il tempo, amando ogni centimetro di lei.
Avevo continuato ad uscirci, e a farci l’amore quando e dove potevo. Lei ora teneva sempre gli occhi chiusi.
I lunghi tira e molla che ci portarono al matrimonio mi erano sembrati giusti e necessari: una ragazza così non ti si accoda zitta e silenziosa, devi convincerla, conquistarla, domarla. Tre anni dopo il matrimonio riuscii a metterla incinta e nacque Sibilla, di cui sono stato a volte geloso per l’amore religioso ed esclusivo che sua madre le riservava, invece di darlo solo a me.
Mentre i nostri cappuccini si raffreddavano, dopo essersi asciugata le lacrime con le dita, Sibilla aveva continuato: “Ecco. Volevo dimenticarmi tutto, fare come se non fosse mai successo. Ma stavo così male. Non mi sentivo più me stessa. Grazie a dio che ho parlato con la mamma. Ho cercato di convincermi che lo amavo pur di non ammettere che quella cosa era successa davvero. Per fortuna ne ho parlato con la mamma, grazie a dio.”
Davanti al portone, invece di cercare le chiavi, mi copro il viso con le mani, e le faccio strisciare fino all’attaccatura dei capelli. La persona che ricambia il mio sguardo dallo specchio dell’ascensore non è più quella di un’ora e mezza fa, la sua faccia è crollata insieme al mondo.
Caterina è seduta al tavolo accanto al balcone. La luce del sole è in tutta la stanza, e scorgo solo la sua snella silhouette davanti al pigro ondeggiare delle tende bianche. “Te l’ha detto” mormora. Mi avvicino per vederla in viso. L’espressione dei suoi occhi è la stessa della nostra prima volta.