Leo (rivisto)
Inviato: mercoledì 17 maggio 2017, 13:58
È un’arena che puzza di sudore, noccioline e gomma. È un’arena dove il sangue esplode insieme ai denti, dove il lattice incontra la carne in uno scricchiolio sinistro di ossa spezzate (anche se il sangue è sempre troppo poco, e le ossa sempre troppo intere). È un’arena che ospita l’ultimo rituale, l’ultima strascicata magia: il sacrificio domenicale che una modernità sciatta offre inconsapevolmente al proprio misero Dio della Guerra.
Grasso e pelato, il Dio affonda mani tozze in una ciotola piena di pop-corn, e quando non sogna i tempi dell’acciaio si gode quel che può: il sapore del mais intriso di sangue, il rumore dei corpi che cadono, e soprattutto il gancio destro di Leo.
Leo non indietreggia mai di fronte ai colpi. Leo non teme il gioco di gambe di Sugar Ray né la violenza del destro di Rocky Marciano. Leo affronta ogni incontro con la stolida incoscienza di chi ha gli Dei dalla sua, e dice che solo i vigliacchi usano il paradenti. Leo incassa, risponde, incassa e alla fine vince. Vince sempre, e non schiva mai.
Tutti amano Leo. Quando esce dal ring, Leo sorride sempre – prende tutti i colpi, ma i suoi denti (a differenza del sangue) non schizzano mai. Leo è spietato, bellissimo, affamato. Con quel sorriso Leo accoglie tutto: il diretto dell’avversario, le urla del pubblico, e poi i tremiti pieni di desiderio raccolti negli angoli bui dove consuma l’ambrosia che lo fa re ed eterno vincitore.
Leo non cattura semplicemente i cuori della gente: li divora.
E quando passeggia la notte a braccetto con Marylin, sognando il giorno e l’afa sudata del ring, pensa che sia bastato poco – così poco – per sconfiggere paura e mediocrità. E ogni notte passeggia a braccetto con una Marylin diversa, e ogni mattina una Marylin diversa si confronta con l’immagine di quell’uomo addormentato dai capelli biondi e gli occhi grigi. Ogni mattina una Marylin diversa ripensa al momento in cui la schiena le si è inarcata sotto la spinta dei suoi fianchi, al respiro roco, al ritmo animale. Ogni mattina una Marylin diversa si innamora di un sogno addormentato, e tutte – nessuna esclusa – ricordano la spinta dei fianchi e il ritmo animale, ma anche quegli occhi spenti che insieme al piacere regalano una traccia viscida di paura.
Lo guardano dormire, e con la stessa rapidità con cui si sono innamorate, si rassegnano: quest’uomo, si dicono, non potrebbe mai amare. Sommario e istintivo, come ogni intuito; ma non per questo meno vero.
---
Il Dio affonda mani tozze in una ciotola di polistirolo, mentre la folla urla il proprio desiderio – troppo sporco per essere mediato dalle parole, dai gesti, persino dal pensiero. Il suo spazio è quello dell’inconscio, dove si nutre di colpi di campana e corpi sudati. Il sangue schizza, la folla urla, il Dio mastica e Leo vince.
Gancio, montante, due passi avanti e poi sotto, alle costole. Il colpo di Leo è Mjöllnir, o lo strale di Zeus: colpisce la cassa toracica, squassa le costole fluttuanti, spappola la milza, ferma il cuore. Leo guarda dritto in faccia l’avversario, e chi gli è sopravvissuto dice che in quegli occhi non c’è niente. Sono vuoti, dicono, come quel petto largo su cui i colpi arrivano sempre, sempre, sempre, e sempre senza esito. Battono sulla carne come un martello sulla campana, echeggiano di spazi enormi e disabitati.
Quando prende un pugno, o quando si sveglia in un letto vuoto, Leo non sente niente. E pensa che sia bastato poco, così poco, davvero poco. E quando lo pensa, il suo cuore – altrove – palpita di nostalgia.
E così capita che il Dio, in prima fila ad ammirare il suo campione, affondi mani tozze nella ciotola di pop-corn e sfiori la carne morbida di un ventricolo, o l’aorta o la vena cava superiore. E capita che proprio in quel momento, mentre lo sfiora, il cuore spurghi piccole gocce di sangue, come ketchup. È un tocco di sapore, e il Dio lo apprezza: quei batuffoli bianchi, da soli, hanno il sapore del polistirolo.
Il Dio è sempre in prima fila. Il Dio guarda sempre e solo Leo, con un sorriso sporco di sangue e mais che Leo conosce bene.
---
Ogni mattina Leo si sveglia in un letto vuoto, e quando si lava la faccia e guarda nello specchio pensa che degli specchi potrebbe anche fare a meno. Si interroga, Leo, su quel che vede nello specchio; su quell’uomo che passeggia con Marylin, serve la Guerra e vince sul ring. Ma quando rivolge lo sguardo verso l’interno, non vede niente. Spazi enormi e disabitati.
Così si sciacqua la faccia, e si asciuga le ascelle, e compie ogni gesto sotto la spinta meccanica di un desiderio: lasciare che le ore trascorrano, attendere il ring. E a volte ricorda quando le ore non erano acqua che gli scorreva addosso, e il desiderio non era l’ombra di un burattinaio dal sorriso di sangue. Ricorda un Leo diverso, amico del dolore. Del fallimento. Un Leo che ogni mattina guardava nello specchio, e sapeva ciò che vedeva.
Ma è un ricordo di plastica. Bidimensionale, come un sogno o un cartone animato. La consapevolezza vaga di un sentimento lacerante – disprezzo, magari disgusto, per l’immagine riflessa. Forse persino paura.
Quando incassa un jab, muove due passi a destra e poi risponde, Leo sa cosa c'è appena oltre i margini della sua visione, dentro a una ciotola di cartone in braccio a un uomo grasso che non è un uomo. Leo sa di essere sul palco, vuoto, e di essere anche (piccolo e rosso) dentro a una ciotola piena di pop-corn. Sa che in quella ciotola si trova l’immagine riflessa nello specchio, la conoscenza profonda – e terribile – di sé.
D’altronde ce l’ha messa lui. E sa che basterebbe poco per riaverla – voltarsi, solo voltarsi e allungare una mano, ché la ciotola è così vicina e quell’uomo così grasso. Ma è una consapevolezza bidimensionale, di plastica, finta. Altrui. Si associa al desiderio di un uomo che non esiste più, chiuso in un cuore che spurga sangue come ketchup.
È un paradosso da cui non si può scappare, che funge da condanna e salvezza insieme. Ché se la consapevolezza è di plastica e il desiderio non esiste, tutto quel che resta è Leo.
Leo che non si volta, né allunga mai la mano. Leo che sta fermo, incassa il colpo, e risponde. E che alla fine vince.
Vince sempre.
Grasso e pelato, il Dio affonda mani tozze in una ciotola piena di pop-corn, e quando non sogna i tempi dell’acciaio si gode quel che può: il sapore del mais intriso di sangue, il rumore dei corpi che cadono, e soprattutto il gancio destro di Leo.
Leo non indietreggia mai di fronte ai colpi. Leo non teme il gioco di gambe di Sugar Ray né la violenza del destro di Rocky Marciano. Leo affronta ogni incontro con la stolida incoscienza di chi ha gli Dei dalla sua, e dice che solo i vigliacchi usano il paradenti. Leo incassa, risponde, incassa e alla fine vince. Vince sempre, e non schiva mai.
Tutti amano Leo. Quando esce dal ring, Leo sorride sempre – prende tutti i colpi, ma i suoi denti (a differenza del sangue) non schizzano mai. Leo è spietato, bellissimo, affamato. Con quel sorriso Leo accoglie tutto: il diretto dell’avversario, le urla del pubblico, e poi i tremiti pieni di desiderio raccolti negli angoli bui dove consuma l’ambrosia che lo fa re ed eterno vincitore.
Leo non cattura semplicemente i cuori della gente: li divora.
E quando passeggia la notte a braccetto con Marylin, sognando il giorno e l’afa sudata del ring, pensa che sia bastato poco – così poco – per sconfiggere paura e mediocrità. E ogni notte passeggia a braccetto con una Marylin diversa, e ogni mattina una Marylin diversa si confronta con l’immagine di quell’uomo addormentato dai capelli biondi e gli occhi grigi. Ogni mattina una Marylin diversa ripensa al momento in cui la schiena le si è inarcata sotto la spinta dei suoi fianchi, al respiro roco, al ritmo animale. Ogni mattina una Marylin diversa si innamora di un sogno addormentato, e tutte – nessuna esclusa – ricordano la spinta dei fianchi e il ritmo animale, ma anche quegli occhi spenti che insieme al piacere regalano una traccia viscida di paura.
Lo guardano dormire, e con la stessa rapidità con cui si sono innamorate, si rassegnano: quest’uomo, si dicono, non potrebbe mai amare. Sommario e istintivo, come ogni intuito; ma non per questo meno vero.
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Il Dio affonda mani tozze in una ciotola di polistirolo, mentre la folla urla il proprio desiderio – troppo sporco per essere mediato dalle parole, dai gesti, persino dal pensiero. Il suo spazio è quello dell’inconscio, dove si nutre di colpi di campana e corpi sudati. Il sangue schizza, la folla urla, il Dio mastica e Leo vince.
Gancio, montante, due passi avanti e poi sotto, alle costole. Il colpo di Leo è Mjöllnir, o lo strale di Zeus: colpisce la cassa toracica, squassa le costole fluttuanti, spappola la milza, ferma il cuore. Leo guarda dritto in faccia l’avversario, e chi gli è sopravvissuto dice che in quegli occhi non c’è niente. Sono vuoti, dicono, come quel petto largo su cui i colpi arrivano sempre, sempre, sempre, e sempre senza esito. Battono sulla carne come un martello sulla campana, echeggiano di spazi enormi e disabitati.
Quando prende un pugno, o quando si sveglia in un letto vuoto, Leo non sente niente. E pensa che sia bastato poco, così poco, davvero poco. E quando lo pensa, il suo cuore – altrove – palpita di nostalgia.
E così capita che il Dio, in prima fila ad ammirare il suo campione, affondi mani tozze nella ciotola di pop-corn e sfiori la carne morbida di un ventricolo, o l’aorta o la vena cava superiore. E capita che proprio in quel momento, mentre lo sfiora, il cuore spurghi piccole gocce di sangue, come ketchup. È un tocco di sapore, e il Dio lo apprezza: quei batuffoli bianchi, da soli, hanno il sapore del polistirolo.
Il Dio è sempre in prima fila. Il Dio guarda sempre e solo Leo, con un sorriso sporco di sangue e mais che Leo conosce bene.
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Ogni mattina Leo si sveglia in un letto vuoto, e quando si lava la faccia e guarda nello specchio pensa che degli specchi potrebbe anche fare a meno. Si interroga, Leo, su quel che vede nello specchio; su quell’uomo che passeggia con Marylin, serve la Guerra e vince sul ring. Ma quando rivolge lo sguardo verso l’interno, non vede niente. Spazi enormi e disabitati.
Così si sciacqua la faccia, e si asciuga le ascelle, e compie ogni gesto sotto la spinta meccanica di un desiderio: lasciare che le ore trascorrano, attendere il ring. E a volte ricorda quando le ore non erano acqua che gli scorreva addosso, e il desiderio non era l’ombra di un burattinaio dal sorriso di sangue. Ricorda un Leo diverso, amico del dolore. Del fallimento. Un Leo che ogni mattina guardava nello specchio, e sapeva ciò che vedeva.
Ma è un ricordo di plastica. Bidimensionale, come un sogno o un cartone animato. La consapevolezza vaga di un sentimento lacerante – disprezzo, magari disgusto, per l’immagine riflessa. Forse persino paura.
Quando incassa un jab, muove due passi a destra e poi risponde, Leo sa cosa c'è appena oltre i margini della sua visione, dentro a una ciotola di cartone in braccio a un uomo grasso che non è un uomo. Leo sa di essere sul palco, vuoto, e di essere anche (piccolo e rosso) dentro a una ciotola piena di pop-corn. Sa che in quella ciotola si trova l’immagine riflessa nello specchio, la conoscenza profonda – e terribile – di sé.
D’altronde ce l’ha messa lui. E sa che basterebbe poco per riaverla – voltarsi, solo voltarsi e allungare una mano, ché la ciotola è così vicina e quell’uomo così grasso. Ma è una consapevolezza bidimensionale, di plastica, finta. Altrui. Si associa al desiderio di un uomo che non esiste più, chiuso in un cuore che spurga sangue come ketchup.
È un paradosso da cui non si può scappare, che funge da condanna e salvezza insieme. Ché se la consapevolezza è di plastica e il desiderio non esiste, tutto quel che resta è Leo.
Leo che non si volta, né allunga mai la mano. Leo che sta fermo, incassa il colpo, e risponde. E che alla fine vince.
Vince sempre.