Il mulinello nella corrente
Inviato: giovedì 10 agosto 2017, 18:50
Una giornata a correre. Ora sono le 18 e 34, la sveglia è suonata alle 6 e 50 e non ho ancora finito. Costantemente rincorso dalla fretta, un tetris umano continuato, almeno non devo parcheggiare la macchina. Click sul telecomando e la serranda si apre, garage, quasi casa.
Esco dall’auto, chiudo la portiera, metto le chiavi nella tasca della giacca; prevedo il loro cozzare contro quelle di casa, ma niente, non succede. Pongo altra mano in altra tasca, e di nuovo niente. Tasca destra pantalone, nada, tasca sinistra pantalone... nulla.
Passo alla fase dei movimenti nervosi e un po' convulsi, setaccio la borsa del lavoro ma delle chiavi neanche traccia! Riapro macchina, perlustro l’abitacolo con frenesia, niente di niente, merdaaaaaaaa.
In garage c’è uno sgabello, lo uso quando scendo a fare piccoli lavori e per imbottigliare quando arrivano le damigiane di dolcetto e barbera che ogni anno diligentemente con gli amici Jimmi e Koba andiamo a recuperare nelle langhe.
Mi siedo, sospiro. Decreto le chiavi di casa disperse, chissà dove?
Guardo intorno.
Il mio garage, beh mio, lo affitto. Il mio garage è una sorta di elaborato misto di funzionalità e ricordi.
C’è la cassetta degli attrezzi, le catene invernali per l’auto, la dispensa dei cibi che si conservano a lungo e dei quali non è male avere una certa scorta.
Ma oltre la voce: meticolosa organizzazione della casa; vi è quella parte che funge da scrigno dei ricordi, un’intera parete di scaffali che si potrebbe appellare: la miniera dei tempi che furono, tesori senza ori e qualche dolore di tenue colore.
Faccio una torsione celebrale per evitare i cul de sac della mia mente, mi alzo dallo sgabello e inizio tramite la coordinazione di vista e tatto a tastare con gli occhi e ad osservare con le mani; comincio a sentire le esperienze che attraverso il contatto con questi oggetti: rivivono.
Accarezzo il pallone da basket e sento il rumore della sfera sul cerchio di ferro del canestro, e i lunghi attimi di dubbio atroce prima che attraversasse la retina per decretare la vittoria dei Castor, la nostra squadra, nel campionato regionale 2005/06!
Riprendo tra le mani il telescopio regalatomi per natale quando ero in prima media, e mi coglie il ricordo dell’emozione di quella notte stellata in cui per la prima volta lo misi a fuoco. Ciò avvenne mentre con Cate, mia sorella, cercavamo di individuare la costellazione di Orione, i primi tempi lo chiamavamo “il magico telescopio interstellare”. Era un po' come essere più vicini alle stelle e così essere partecipi anche solo un poco dell’immenso firmamento, con lo sguardo di piccoli aspiranti astronauti.
Poi passo le punte dei polpastrelli sui pennelli ancora dolci che usavo per dipingere in acrilico, ma insieme ai getti di colore ed alle forme profuse, ricompare dentro tutta l’irrequietezza che mi faceva dire: “con la pittura ho trovato un modo per esorcizzare la mia follia, la schizzo e la contorno su tela”. Durante un viaggio tutto d'un tratto mi scoprii a dipingere immagini di rara bellezza, della gioia emerse all’improvviso e poi, in una strana sera di altrui furia umana innescata da mie parole, scomparve di nuovo.
Tolgo uno scatolone dallo scaffale e ne estraggo alcuni quaderni di appunti, cerco quello del corso di Etnologia dell’Oceania, sfoglio le pagine scritte fitte fitte. Proprio seguendo questo corso ebbe origine l’idea della mia ricerca di tesi sulla risignificazione dell’uso del tatuaggio tradizionale da parte dei giovani di origine Maori in Nuova Zelanda.
Tesi sperimentale, condotta in loco con ricerca sul campo: ricordo gli incontri, la natura totale di quei luoghi e poi la faticosa scrittura, fino al giorno della discussione. Un successo, forse effimero, sorrisi ed un gran sospiro finale.
Ma ecco che la mano destra continua il suo viaggio tra gli scaffali della miniera e incontra loro!
Maestose e compatte al tempo stesso, si ergono in verticale, determinate e disposte a tutto anche mentre sono appoggiate in un anfratto di seminterrato. Sono due, sono le canne da pesca regalatemi da Nonno Ettore.
Il dito indice della mano destra si muove delicato sul contorno della prima, partendo dall’alto, dagli occhielli che compongono un disegno di cerchi, dal più piccolo al più grande uno in sequenza ravvicinata all’altro nella canna ritratta.
Ritratta ma pronta al dispiegamento telescopico per entrare in azione qualora ce ne fosse necessità.
Il dito scende con una carezza evocativa e rispettosa e arriva al mulinello, ancora innestato sull’asta. Il polpastrello zigzaga tra le parti di questo piccolo, perfetto ingranaggio.
È scorrendo sul semicerchio di acciaio, chiamato guidafilo, che dall’indice parte come una scossa elettrica rivelatoria che si innesta nella mente.
Scaturisce così il pensiero che ogni ricordo, per lontano che sia, si svolge “adesso”, nel momento in cui la mente lo richiama. Più si ricorda una cosa, più la mente riesce a rifinire l’esperienza originaria, perché ogni ricordo ricrea l’esperienza, non è una riproduzione.
“La pesca è un’arte”, parole di Nonno Ettore, la pesca come modo di confrontarsi con il mondo.
“Lo ha spiegato bene l’Ernesto”, così diceva di Hemingway, “l’ha insegnato a tutto il mondo, in un libricino come «Il vecchio e il mare» ha trovato il modo di dire cose che altri si sognano di scrivere in una vita”.
Perchè il pesce lo devi sentire, Nonno mai sarebbe andato in pescheria, al mercato del pesce o peggio che mai ad un supermercato, il pesce che si mangia va tratto, va conquistato.
Unica eccezione per la pasta tonno e piselli che si preparava quando Nonna era impegnata in qualche settimana di accudimento di noi nipotini presso le nostre case ad aiutare solidalmente con la concreta presenza le nostre madri, necessario momento di sollievo e comprensione intragenere di mamme intergenerazionali.
Tornando al Nonno: pescare, il suo modo di confrontarsi con la natura e con sè stesso. Questo modo di intendere la pesca a me, suo nipote, lo aveva trasmesso in pieno.
Quando si andava a pescare insieme era una gioia ma anche un bell’impegno, sveglia presto la mattina e pranzo al sacco, per me ogni volta un’avventura.
Salendo al fiume sui sentieri Nonno mi diceva il nome degli alberi, ne sapeva un sacco, e mi raccontava storie di montagna, di contrabbandieri e di partigiani, “le storie dei partigiani sono le più importanti ma sempre si incontrano con le altre” e anche di queste, come per i nomi degli alberi, ne sapeva un sacco.
Io ascoltavo e imparavo, e nel montare le canne insieme avveniva la trasmissione di tanta cura, dedizione e attenzione.
Io in particolare sono sempre rimasto estasiato dal mulinello, dal suo movimento, quel salire e rotare, circolarmente perfetto e poi senza interruzione alcuna ritornare e riprendere il medesimo movimento, lo stesso ma diverso, ricorsivo gesto di fisica meccanica.
“Il momento più importante della pesca è quando il gallegiante va giù, il pesce ha abboccato alla lenza e comincia la lotta, la canna si inarca e l’animale tira, e il pescatore è predatore”.
È lì, il mulinello che così tanti giri identici ha compiuto a vuoto, ora è a pieno titolo impegnato in un’impresa unica, ne ha già viste tante, né vedrà altre, ma questa sarà comunque a modo suo unica.
È a questo che pensavo quando portavo Nonno a pescare le ultime volte, lui che era così meticoloso ora aveva incontrato la svilente condizione della degenerazione neurologica.
I primi sintomi erano cominciati quando iniziò a mettere oggetti di suo uso in luoghi strampalati, la tenaglia da lavoro in dispensa, il cibo per gatti nell’armadio dei vestiti, la tanica di miscela per il decespugliatore in cantina a fianco alle bottiglie di vino.
Poi iniziò perdere il senso dell’orientamento, per alcuni periodi di tempo era come se entrasse in una parentesi d’ignoto, non era semplice da controllare questa cosa.
Perché finché la questione era rinvenire i suoi oggetti in luoghi anomali, era una stranezza ma tutto lì, ma poi quando Nonno cominciò a trovarsi in qualche parte di Torino senza sapere più dove fosse e senza ricordarsi indirizzo di casa né tantomeno approssimativamente la zona dove fosse collocata, diventò un gran casino.
È si perché poi mica lo capivi nei primi tempi che poteva arrivare quello stato di alterazione lì, che Nonno passava così repentinamente dalla lucidità al caos. E la prima volta che successe fu lo spavento maggiore, proprio perché inatteso, le volte successive quando Nonno non rincasava sull’orario previsto, Nonna dopo mezzora lanciava l’allarme e tutti eravamo mobilitati in pattugliamenti per cercarlo. Io partivo a razzo con il mio scooter.
E quando lo trovavamo, a volte dopo ore di ricerche, lui poi quando si riorientava minimizzava tutto. Anche perché quando era lucido, lo era proprio in pieno.
Con noi nipoti che siamo tanti, nove, sui i nomi ha sempre fatto un po' di confusione, è anche comprensibile, e comunque diceva “che cambia, vi voglio un gran bene a tutti, voialtri Gianburrasca”.
Ma poi accadde che un giorno quando mia Mamma passò a portargli il risultato di una visita medica, quando Nonno andò alla porta per aprirle, ecco, lui non la riconobbe.
Per mia Mamma fu un colpo al cuore, inizialmente non capiva cosa stesse succedendo, finché non succede non lo si può capire. Un genitore che non riconosce un figlio è straniante, una negazione di senso. L’Alzheimer è una bestia difficile da affrontare.
Così cominciò a non riconoscere le persone, a volte si, a volte no, gli amici del circolo, il panettiere, e anche noi di famiglia.
In quel periodo ancora andavamo a pesca, non spesso ma una volta al mese, più o meno, succedeva, i ruoli si erano un po' ribaltati perché ora ero io a portare il Nonno a pescare e non viceversa.
Fisicamente era ancora in gamba, anche perché dopo una gioventù contadina aveva intrapreso la migrazione verso al città per entrare nelle officine meccaniche. Risultato: il suo fisico era rimasto scolpito e segnato da una vita a lavorare con la forza delle braccia e dall’appassionata pratica ciclistica.
Ogni volta che s’andava c’era da litigare perché provava sempre a dire che doveva guidare lui, ma poi di fronte all’aut-aut “o così o niente pesca”, accettava bofonchiando. L’incazzo durava qualche minuto ma poi Nonno si rianimava appieno appena iniziavamo a parlare di pesca, degli esemplari da prendere, delle lenza da usare, dei piombini da mettere, di quale filo montare e tutto il resto.
I mulinelli erano sempre lì con noi a disegnare il loro movimento perfetto.
Ecco, Nonno aveva cominciato ad avere le amnesie rispetto al riconoscerci, i familiari e anche con me accadeva. Al punto che Mamma mi chiese se me la sentivo ancora di andare a pesca con lui.
Certo qualche dubbio mi era venuto, ma poi pensavo che me la sentivo, eccome.
La pesca era stato un suo dono e io glielo avrei donato a mia volta.
Ogni sessione di pesca da sempre era stata unica, e sempre una sfida, avrebbe continuato ad essere così.
É perché in quel fare pratico, in azione, il corpo aveva il suo bagaglio di memoria, di movimenti, che interagiscono con la mente, ma non dipendono da essa. È un sapere diffuso.
E anche perché nei momenti di pesca, esperienza viva, continuava quella sfida, del confronto con il pesce e con sé stesso. E in quei momenti era libero, libero davvero.
E perfetto a modo suo, come il movimento del mulinello.
E così era e così è, e mentre eravamo in sessione intensa di pesca, accadde, il galleggiante scese sottacqua, la canna si curvò con movimento brusco, un bel pesce aveva abboccato.
Nonno teneva salda la canna tra le mani ma faceva fatica perché il tiraggio era forte, io ad un metro e mezzo di distanza lo osservavo.
In quell’improbabile momento, Nonno si girò verso di me e proruppe con sguardo guardingo: “e tu chi sei?”, capivo che quello era un lampo in mezzo ad un flusso, una discrasia in un momento topico, era il movimento del mulinello che si inceppa, privo di senso sarebbe stato cercare di collocarmi all’interno dell’albero famigliare, in quanto figlio di sua figlia.
In quel momento ero altro, in quel momento stavamo vivendo entrambi per quel momento, senza nient’altro, niente altro che potesse frapporsi, che potesse immischiarsi…
Nonno mantenendo salda la tensione della canna incurvata che serrrava il filo teso, ripetè con le sopracciglia aggrottate “e tu, giovane, chi sei?”, gli risposi con la freschezza di chi dona un regalo e non ha bisogno di ringraziamenti: “sono il tuo compagno di pesca”, sul suo volto si scolpì un dolce sorriso e perentorio mi disse: “allora muoviti a darmi una mano con questo pesciazzo che tira come un toro!”.
Esco dall’auto, chiudo la portiera, metto le chiavi nella tasca della giacca; prevedo il loro cozzare contro quelle di casa, ma niente, non succede. Pongo altra mano in altra tasca, e di nuovo niente. Tasca destra pantalone, nada, tasca sinistra pantalone... nulla.
Passo alla fase dei movimenti nervosi e un po' convulsi, setaccio la borsa del lavoro ma delle chiavi neanche traccia! Riapro macchina, perlustro l’abitacolo con frenesia, niente di niente, merdaaaaaaaa.
In garage c’è uno sgabello, lo uso quando scendo a fare piccoli lavori e per imbottigliare quando arrivano le damigiane di dolcetto e barbera che ogni anno diligentemente con gli amici Jimmi e Koba andiamo a recuperare nelle langhe.
Mi siedo, sospiro. Decreto le chiavi di casa disperse, chissà dove?
Guardo intorno.
Il mio garage, beh mio, lo affitto. Il mio garage è una sorta di elaborato misto di funzionalità e ricordi.
C’è la cassetta degli attrezzi, le catene invernali per l’auto, la dispensa dei cibi che si conservano a lungo e dei quali non è male avere una certa scorta.
Ma oltre la voce: meticolosa organizzazione della casa; vi è quella parte che funge da scrigno dei ricordi, un’intera parete di scaffali che si potrebbe appellare: la miniera dei tempi che furono, tesori senza ori e qualche dolore di tenue colore.
Faccio una torsione celebrale per evitare i cul de sac della mia mente, mi alzo dallo sgabello e inizio tramite la coordinazione di vista e tatto a tastare con gli occhi e ad osservare con le mani; comincio a sentire le esperienze che attraverso il contatto con questi oggetti: rivivono.
Accarezzo il pallone da basket e sento il rumore della sfera sul cerchio di ferro del canestro, e i lunghi attimi di dubbio atroce prima che attraversasse la retina per decretare la vittoria dei Castor, la nostra squadra, nel campionato regionale 2005/06!
Riprendo tra le mani il telescopio regalatomi per natale quando ero in prima media, e mi coglie il ricordo dell’emozione di quella notte stellata in cui per la prima volta lo misi a fuoco. Ciò avvenne mentre con Cate, mia sorella, cercavamo di individuare la costellazione di Orione, i primi tempi lo chiamavamo “il magico telescopio interstellare”. Era un po' come essere più vicini alle stelle e così essere partecipi anche solo un poco dell’immenso firmamento, con lo sguardo di piccoli aspiranti astronauti.
Poi passo le punte dei polpastrelli sui pennelli ancora dolci che usavo per dipingere in acrilico, ma insieme ai getti di colore ed alle forme profuse, ricompare dentro tutta l’irrequietezza che mi faceva dire: “con la pittura ho trovato un modo per esorcizzare la mia follia, la schizzo e la contorno su tela”. Durante un viaggio tutto d'un tratto mi scoprii a dipingere immagini di rara bellezza, della gioia emerse all’improvviso e poi, in una strana sera di altrui furia umana innescata da mie parole, scomparve di nuovo.
Tolgo uno scatolone dallo scaffale e ne estraggo alcuni quaderni di appunti, cerco quello del corso di Etnologia dell’Oceania, sfoglio le pagine scritte fitte fitte. Proprio seguendo questo corso ebbe origine l’idea della mia ricerca di tesi sulla risignificazione dell’uso del tatuaggio tradizionale da parte dei giovani di origine Maori in Nuova Zelanda.
Tesi sperimentale, condotta in loco con ricerca sul campo: ricordo gli incontri, la natura totale di quei luoghi e poi la faticosa scrittura, fino al giorno della discussione. Un successo, forse effimero, sorrisi ed un gran sospiro finale.
Ma ecco che la mano destra continua il suo viaggio tra gli scaffali della miniera e incontra loro!
Maestose e compatte al tempo stesso, si ergono in verticale, determinate e disposte a tutto anche mentre sono appoggiate in un anfratto di seminterrato. Sono due, sono le canne da pesca regalatemi da Nonno Ettore.
Il dito indice della mano destra si muove delicato sul contorno della prima, partendo dall’alto, dagli occhielli che compongono un disegno di cerchi, dal più piccolo al più grande uno in sequenza ravvicinata all’altro nella canna ritratta.
Ritratta ma pronta al dispiegamento telescopico per entrare in azione qualora ce ne fosse necessità.
Il dito scende con una carezza evocativa e rispettosa e arriva al mulinello, ancora innestato sull’asta. Il polpastrello zigzaga tra le parti di questo piccolo, perfetto ingranaggio.
È scorrendo sul semicerchio di acciaio, chiamato guidafilo, che dall’indice parte come una scossa elettrica rivelatoria che si innesta nella mente.
Scaturisce così il pensiero che ogni ricordo, per lontano che sia, si svolge “adesso”, nel momento in cui la mente lo richiama. Più si ricorda una cosa, più la mente riesce a rifinire l’esperienza originaria, perché ogni ricordo ricrea l’esperienza, non è una riproduzione.
“La pesca è un’arte”, parole di Nonno Ettore, la pesca come modo di confrontarsi con il mondo.
“Lo ha spiegato bene l’Ernesto”, così diceva di Hemingway, “l’ha insegnato a tutto il mondo, in un libricino come «Il vecchio e il mare» ha trovato il modo di dire cose che altri si sognano di scrivere in una vita”.
Perchè il pesce lo devi sentire, Nonno mai sarebbe andato in pescheria, al mercato del pesce o peggio che mai ad un supermercato, il pesce che si mangia va tratto, va conquistato.
Unica eccezione per la pasta tonno e piselli che si preparava quando Nonna era impegnata in qualche settimana di accudimento di noi nipotini presso le nostre case ad aiutare solidalmente con la concreta presenza le nostre madri, necessario momento di sollievo e comprensione intragenere di mamme intergenerazionali.
Tornando al Nonno: pescare, il suo modo di confrontarsi con la natura e con sè stesso. Questo modo di intendere la pesca a me, suo nipote, lo aveva trasmesso in pieno.
Quando si andava a pescare insieme era una gioia ma anche un bell’impegno, sveglia presto la mattina e pranzo al sacco, per me ogni volta un’avventura.
Salendo al fiume sui sentieri Nonno mi diceva il nome degli alberi, ne sapeva un sacco, e mi raccontava storie di montagna, di contrabbandieri e di partigiani, “le storie dei partigiani sono le più importanti ma sempre si incontrano con le altre” e anche di queste, come per i nomi degli alberi, ne sapeva un sacco.
Io ascoltavo e imparavo, e nel montare le canne insieme avveniva la trasmissione di tanta cura, dedizione e attenzione.
Io in particolare sono sempre rimasto estasiato dal mulinello, dal suo movimento, quel salire e rotare, circolarmente perfetto e poi senza interruzione alcuna ritornare e riprendere il medesimo movimento, lo stesso ma diverso, ricorsivo gesto di fisica meccanica.
“Il momento più importante della pesca è quando il gallegiante va giù, il pesce ha abboccato alla lenza e comincia la lotta, la canna si inarca e l’animale tira, e il pescatore è predatore”.
È lì, il mulinello che così tanti giri identici ha compiuto a vuoto, ora è a pieno titolo impegnato in un’impresa unica, ne ha già viste tante, né vedrà altre, ma questa sarà comunque a modo suo unica.
È a questo che pensavo quando portavo Nonno a pescare le ultime volte, lui che era così meticoloso ora aveva incontrato la svilente condizione della degenerazione neurologica.
I primi sintomi erano cominciati quando iniziò a mettere oggetti di suo uso in luoghi strampalati, la tenaglia da lavoro in dispensa, il cibo per gatti nell’armadio dei vestiti, la tanica di miscela per il decespugliatore in cantina a fianco alle bottiglie di vino.
Poi iniziò perdere il senso dell’orientamento, per alcuni periodi di tempo era come se entrasse in una parentesi d’ignoto, non era semplice da controllare questa cosa.
Perché finché la questione era rinvenire i suoi oggetti in luoghi anomali, era una stranezza ma tutto lì, ma poi quando Nonno cominciò a trovarsi in qualche parte di Torino senza sapere più dove fosse e senza ricordarsi indirizzo di casa né tantomeno approssimativamente la zona dove fosse collocata, diventò un gran casino.
È si perché poi mica lo capivi nei primi tempi che poteva arrivare quello stato di alterazione lì, che Nonno passava così repentinamente dalla lucidità al caos. E la prima volta che successe fu lo spavento maggiore, proprio perché inatteso, le volte successive quando Nonno non rincasava sull’orario previsto, Nonna dopo mezzora lanciava l’allarme e tutti eravamo mobilitati in pattugliamenti per cercarlo. Io partivo a razzo con il mio scooter.
E quando lo trovavamo, a volte dopo ore di ricerche, lui poi quando si riorientava minimizzava tutto. Anche perché quando era lucido, lo era proprio in pieno.
Con noi nipoti che siamo tanti, nove, sui i nomi ha sempre fatto un po' di confusione, è anche comprensibile, e comunque diceva “che cambia, vi voglio un gran bene a tutti, voialtri Gianburrasca”.
Ma poi accadde che un giorno quando mia Mamma passò a portargli il risultato di una visita medica, quando Nonno andò alla porta per aprirle, ecco, lui non la riconobbe.
Per mia Mamma fu un colpo al cuore, inizialmente non capiva cosa stesse succedendo, finché non succede non lo si può capire. Un genitore che non riconosce un figlio è straniante, una negazione di senso. L’Alzheimer è una bestia difficile da affrontare.
Così cominciò a non riconoscere le persone, a volte si, a volte no, gli amici del circolo, il panettiere, e anche noi di famiglia.
In quel periodo ancora andavamo a pesca, non spesso ma una volta al mese, più o meno, succedeva, i ruoli si erano un po' ribaltati perché ora ero io a portare il Nonno a pescare e non viceversa.
Fisicamente era ancora in gamba, anche perché dopo una gioventù contadina aveva intrapreso la migrazione verso al città per entrare nelle officine meccaniche. Risultato: il suo fisico era rimasto scolpito e segnato da una vita a lavorare con la forza delle braccia e dall’appassionata pratica ciclistica.
Ogni volta che s’andava c’era da litigare perché provava sempre a dire che doveva guidare lui, ma poi di fronte all’aut-aut “o così o niente pesca”, accettava bofonchiando. L’incazzo durava qualche minuto ma poi Nonno si rianimava appieno appena iniziavamo a parlare di pesca, degli esemplari da prendere, delle lenza da usare, dei piombini da mettere, di quale filo montare e tutto il resto.
I mulinelli erano sempre lì con noi a disegnare il loro movimento perfetto.
Ecco, Nonno aveva cominciato ad avere le amnesie rispetto al riconoscerci, i familiari e anche con me accadeva. Al punto che Mamma mi chiese se me la sentivo ancora di andare a pesca con lui.
Certo qualche dubbio mi era venuto, ma poi pensavo che me la sentivo, eccome.
La pesca era stato un suo dono e io glielo avrei donato a mia volta.
Ogni sessione di pesca da sempre era stata unica, e sempre una sfida, avrebbe continuato ad essere così.
É perché in quel fare pratico, in azione, il corpo aveva il suo bagaglio di memoria, di movimenti, che interagiscono con la mente, ma non dipendono da essa. È un sapere diffuso.
E anche perché nei momenti di pesca, esperienza viva, continuava quella sfida, del confronto con il pesce e con sé stesso. E in quei momenti era libero, libero davvero.
E perfetto a modo suo, come il movimento del mulinello.
E così era e così è, e mentre eravamo in sessione intensa di pesca, accadde, il galleggiante scese sottacqua, la canna si curvò con movimento brusco, un bel pesce aveva abboccato.
Nonno teneva salda la canna tra le mani ma faceva fatica perché il tiraggio era forte, io ad un metro e mezzo di distanza lo osservavo.
In quell’improbabile momento, Nonno si girò verso di me e proruppe con sguardo guardingo: “e tu chi sei?”, capivo che quello era un lampo in mezzo ad un flusso, una discrasia in un momento topico, era il movimento del mulinello che si inceppa, privo di senso sarebbe stato cercare di collocarmi all’interno dell’albero famigliare, in quanto figlio di sua figlia.
In quel momento ero altro, in quel momento stavamo vivendo entrambi per quel momento, senza nient’altro, niente altro che potesse frapporsi, che potesse immischiarsi…
Nonno mantenendo salda la tensione della canna incurvata che serrrava il filo teso, ripetè con le sopracciglia aggrottate “e tu, giovane, chi sei?”, gli risposi con la freschezza di chi dona un regalo e non ha bisogno di ringraziamenti: “sono il tuo compagno di pesca”, sul suo volto si scolpì un dolce sorriso e perentorio mi disse: “allora muoviti a darmi una mano con questo pesciazzo che tira come un toro!”.