Il segno della riscossa GUERRI EDITION
Inviato: domenica 8 aprile 2018, 15:46
IL SEGNO DELLA RISCOSSA
Di Alexandra Fischer
La terrazza ingrigita dalle intemperie è rimasta sempre la stessa ma non l’uomo che vi si affaccia ora, ribadendo così agli assedianti la sua fermezza nel restare.
Fra quelle mura c’è il simbolo della città, un serpente scolpito nel bronzo e posto a guardia dei rotoli sacri e delle mappe incise su lastra d’oro commemoranti le vittorie del passato.
La città di Solbedio ha reagito soltanto se provocata dalle vicine, ma in modo incruento, suggestionandole attraverso le arti e la magia: i nemici si sono rigenerati visitando le sale di palazzi dai pavimenti rivestiti di mosaici dai colori ipnotici, ascoltando musiche in grado di restituire sogni perduti e ammirando sculture e dipinti in grado di commuovere gli osservatori e far deporre loro le armi.
L’uomo affacciato alla terrazza sa che queste vittorie passate non contano ora che i nuovi nemici provengono da Nigromalgajo, li vede assiepati nelle loro armature bianche e le trova simili a carapaci di insetti rinsecchitisi in ere lontane.
I loro pugnali lunghi e affilati sembrano parti di mandibole pronte a triturare il palazzo principale della città e l’uomo non intende lasciare che ciò accada: ignora cosa sia rimasto al di là delle colline immerse nella luce viola del crepuscolo, punteggiate qua e là di pagode.
Gli mancano le notizie della città, le luci sono accese dovunque e qualche ombra si muove dietro le finestre ad arco, ma sa che in ognuna delle dimore ci sono lampade in grado di dare la parvenza di vita alle ombre, perché Solbedio è anche una città di incantamenti: le ha usate per allontanare gli assedianti ancora un giorno, ma l’energia magica delle lampade di alabastro traforato si è esaurita per colpa della sua malinconia per essere stata lasciata sola; ecco, ha fatto il gioco dei nemici credendo davvero di essere indifesa.
La stessa abulia ha colpito gli abitanti, rifugiatisi nei padiglioni poco fuori Solbedio, lasciando arredi e ninnoli nelle case dalle porte tenute aperte nell’estremo tentativo di ridurre la furia nemica con la tentazione del saccheggio: mobili di legno pregiato dagli effluvi aromatici, ninnoli laccati, vesti di rappresentanza incrostate di pietre dure, porcellane sottili come carta.
Il buio si allunga nella stanza colma di broccati dai colori simili a quelli dei ruscelli che ornano i giardini di Solbedio, ma l’uomo sente la presenza del simbolo della città: il serpente divoratore di spettri.
È alle sue spalle, deve soltanto fare uno sforzo per sollevarlo e metterlo sulla terrazza.
Se ha esitato a farlo fino ad allora, ne dà la colpa al senso di fragilità che l’ha paralizzato: il nastro rosso che porta al polso in segno della sua carica di semplice conservatore dei rotoli che si trovano all’interno del palazzo.
Sfilandosi dal polso il nastro rosso per ornarne il collo del rettile nel rituale di magia delle emergenze più gravi, pensa di stare osando troppo, non è un esperto di sortilegio, ma solo un addetto da poco adibito alla cura dei rotoli.
Eppure.
Afferra la statua del serpente e la porta sulla terrazza.
Mentre la posa in vista, vede avvicinarsi gli assedianti sempre di più e allora compie la sua magia: accarezza il collo del rettile dandogli la sua energia vitale.
Il serpente si anima, soffiando e il suo richiamo risveglia entità altrettanto potenti: sciamano dalla terra sotto l’aspetto di viticci maculati stillanti gocce purpuree e si avvinghiano sugli assedianti trasformandoli in statue.
Non è che l’inizio della riscossa di Solbedio, pensa l’addetto ai rotoli sacri, fiero per un momento di averli letti mentre li restaurava.
Aspettando che il serpente ritorni a lui e gli renda il nastro rosso, si siede spossato ma felice del suo coraggio, tale da trasformare quell’umile striscia di stoffa in un’arma tanto potente da mettere in fuga un esercito.
Di Alexandra Fischer
La terrazza ingrigita dalle intemperie è rimasta sempre la stessa ma non l’uomo che vi si affaccia ora, ribadendo così agli assedianti la sua fermezza nel restare.
Fra quelle mura c’è il simbolo della città, un serpente scolpito nel bronzo e posto a guardia dei rotoli sacri e delle mappe incise su lastra d’oro commemoranti le vittorie del passato.
La città di Solbedio ha reagito soltanto se provocata dalle vicine, ma in modo incruento, suggestionandole attraverso le arti e la magia: i nemici si sono rigenerati visitando le sale di palazzi dai pavimenti rivestiti di mosaici dai colori ipnotici, ascoltando musiche in grado di restituire sogni perduti e ammirando sculture e dipinti in grado di commuovere gli osservatori e far deporre loro le armi.
L’uomo affacciato alla terrazza sa che queste vittorie passate non contano ora che i nuovi nemici provengono da Nigromalgajo, li vede assiepati nelle loro armature bianche e le trova simili a carapaci di insetti rinsecchitisi in ere lontane.
I loro pugnali lunghi e affilati sembrano parti di mandibole pronte a triturare il palazzo principale della città e l’uomo non intende lasciare che ciò accada: ignora cosa sia rimasto al di là delle colline immerse nella luce viola del crepuscolo, punteggiate qua e là di pagode.
Gli mancano le notizie della città, le luci sono accese dovunque e qualche ombra si muove dietro le finestre ad arco, ma sa che in ognuna delle dimore ci sono lampade in grado di dare la parvenza di vita alle ombre, perché Solbedio è anche una città di incantamenti: le ha usate per allontanare gli assedianti ancora un giorno, ma l’energia magica delle lampade di alabastro traforato si è esaurita per colpa della sua malinconia per essere stata lasciata sola; ecco, ha fatto il gioco dei nemici credendo davvero di essere indifesa.
La stessa abulia ha colpito gli abitanti, rifugiatisi nei padiglioni poco fuori Solbedio, lasciando arredi e ninnoli nelle case dalle porte tenute aperte nell’estremo tentativo di ridurre la furia nemica con la tentazione del saccheggio: mobili di legno pregiato dagli effluvi aromatici, ninnoli laccati, vesti di rappresentanza incrostate di pietre dure, porcellane sottili come carta.
Il buio si allunga nella stanza colma di broccati dai colori simili a quelli dei ruscelli che ornano i giardini di Solbedio, ma l’uomo sente la presenza del simbolo della città: il serpente divoratore di spettri.
È alle sue spalle, deve soltanto fare uno sforzo per sollevarlo e metterlo sulla terrazza.
Se ha esitato a farlo fino ad allora, ne dà la colpa al senso di fragilità che l’ha paralizzato: il nastro rosso che porta al polso in segno della sua carica di semplice conservatore dei rotoli che si trovano all’interno del palazzo.
Sfilandosi dal polso il nastro rosso per ornarne il collo del rettile nel rituale di magia delle emergenze più gravi, pensa di stare osando troppo, non è un esperto di sortilegio, ma solo un addetto da poco adibito alla cura dei rotoli.
Eppure.
Afferra la statua del serpente e la porta sulla terrazza.
Mentre la posa in vista, vede avvicinarsi gli assedianti sempre di più e allora compie la sua magia: accarezza il collo del rettile dandogli la sua energia vitale.
Il serpente si anima, soffiando e il suo richiamo risveglia entità altrettanto potenti: sciamano dalla terra sotto l’aspetto di viticci maculati stillanti gocce purpuree e si avvinghiano sugli assedianti trasformandoli in statue.
Non è che l’inizio della riscossa di Solbedio, pensa l’addetto ai rotoli sacri, fiero per un momento di averli letti mentre li restaurava.
Aspettando che il serpente ritorni a lui e gli renda il nastro rosso, si siede spossato ma felice del suo coraggio, tale da trasformare quell’umile striscia di stoffa in un’arma tanto potente da mettere in fuga un esercito.