Il rifugio degli esuli
Inviato: martedì 17 aprile 2018, 0:59
IL RIFUGIO DEGLI ESULI
di Alessandro Randone
La villa in quel giorno di primavera gli era apparsa bellissima, l’edera si arrampicava lussureggiante su per i muri e gli alberi si piegavano ad accarezzare le travi del tetto divelto.
Tutt’attorno campi da coltivare e boschi secolari.
Era il sogno che Eugenio Ventura aveva pazientemente atteso di realizzare per cinquant’anni, dopo lunghi pellegrinaggi per le aziende d’Europa ora finalmente avrebbe potuto produrre il proprio vino e berlo assieme a tanta gente cara.
Si era messo subito al telefono, invitando tutti gli amici aperti al suo progetto e promettendo loro grandi cose. Nel giro di poco tempo era riuscito a portarne tanti, era stato anzi il luogo a riuscirci: si erano messi all’opera mettendo le proprie conoscenze al servizio della causa.
Nel giro di un mese il piano di sopra era completamente ristrutturato e in meno di un anno l’agriturismo Rifugio degli esuli era a buon punto, con visitatori che si lanciavano in lodi sperticate di quell’oasi.
Eugenio era entusiasta e commosso, la moglie Egle era incinta e tutto era così pieno di vita da fargli chiedere come mai quel posto fosse rimasto disabitato così a lungo.
Un giorno, mentre rovistava nello scantinato trovò un diario dello zio, che era l’ultima persona di famiglia ad essere vissuta in quel posto.
Questo posto è bellissimo e abbiamo voglia di continuare a vivere qui per sempre.
Dopo un anno però lo zio esprimeva i suoi primi dubbi.
La moglie si era ammalata di polmonite, i bambini avevano gli incubi e i vicini non si avvicinavano. Eppure lui non si era accorto di nulla.
Dopo alcuni anni, complice la qualità dei vitigni che coltivava aveva preso il vizio del bere, il diario proseguiva su un altro tono:
Mia moglie non ne può più di questa vita, andrà via, mi ama ma si sente oppressa, le dispiace non poter condividere con me questa beatitudine.
Tutti mi dicono che qualcosa non va bene, ma non riesco a rendermene conto.
Il diario proseguiva così fino al giorno del sessantesimo compleanno dello zio, giorno in cui il la moglie e il figlio avevano abbandonato il padre.
Cosa fosse poi successo era rimasto un mistero, moglie e figlio avevano fatto perdere le proprie tracce e così lo zio.
Eugenio, con la sua indole dissacratrice aveva messo in scena la storia di suo zio davanti a un gruppo di visitatori napoletani, cercando di farli spaventare.
Dopo di quello spettacolino erano cominciati strani avvenimenti, i visitatori erano scontenti, il cuoco aveva perso due falangi, la moglie esprimeva il desiderio di andare a far visita ai propri parenti. Poi era arrivata la lettera della banca, lui aveva perso una causa importante e avrebbe dovuto chiudere. Si era sentito morire.
Poi aveva chiuso la porta e messo un lucchetto.
Deciso a vederci chiaro aveva cominciato a intervistare i vicini delle campagne circostanti, doveva esserci una qualche relazione tra ciò che aveva letto e quella sequela di avvenimenti nefasti. L’unica risposta l’aveva ottenuta da un bambino che gli aveva detto:
"Sei quello della casa con lo scantinato di pietre che parlano?"
"Ma no piccolo Michele, non dire sciocchezze", aveva detto la mamma del piccolo, scusandosi con Eugenio.
Eugenio si era diretto verso il basamento della casa trovandovi una botola dietro una vecchia botte, poi si era incamminato raggiungendo una grotta da cui spirava il vento. Chiuse gli occhi, mentre una voce lo chiamava. “Benvenuto, ho messo quel diario per farti venire qui”, gli aveva detto lo zio facendogli l’occhiolino con l’unico bulbo rimastogli. “Staremo sempre qui, tu ed io, questo posto non ammette fastidiose compagnie che ti distraggano dalla bontà sua, come del vino che vi si produce”.
di Alessandro Randone
La villa in quel giorno di primavera gli era apparsa bellissima, l’edera si arrampicava lussureggiante su per i muri e gli alberi si piegavano ad accarezzare le travi del tetto divelto.
Tutt’attorno campi da coltivare e boschi secolari.
Era il sogno che Eugenio Ventura aveva pazientemente atteso di realizzare per cinquant’anni, dopo lunghi pellegrinaggi per le aziende d’Europa ora finalmente avrebbe potuto produrre il proprio vino e berlo assieme a tanta gente cara.
Si era messo subito al telefono, invitando tutti gli amici aperti al suo progetto e promettendo loro grandi cose. Nel giro di poco tempo era riuscito a portarne tanti, era stato anzi il luogo a riuscirci: si erano messi all’opera mettendo le proprie conoscenze al servizio della causa.
Nel giro di un mese il piano di sopra era completamente ristrutturato e in meno di un anno l’agriturismo Rifugio degli esuli era a buon punto, con visitatori che si lanciavano in lodi sperticate di quell’oasi.
Eugenio era entusiasta e commosso, la moglie Egle era incinta e tutto era così pieno di vita da fargli chiedere come mai quel posto fosse rimasto disabitato così a lungo.
Un giorno, mentre rovistava nello scantinato trovò un diario dello zio, che era l’ultima persona di famiglia ad essere vissuta in quel posto.
Questo posto è bellissimo e abbiamo voglia di continuare a vivere qui per sempre.
Dopo un anno però lo zio esprimeva i suoi primi dubbi.
La moglie si era ammalata di polmonite, i bambini avevano gli incubi e i vicini non si avvicinavano. Eppure lui non si era accorto di nulla.
Dopo alcuni anni, complice la qualità dei vitigni che coltivava aveva preso il vizio del bere, il diario proseguiva su un altro tono:
Mia moglie non ne può più di questa vita, andrà via, mi ama ma si sente oppressa, le dispiace non poter condividere con me questa beatitudine.
Tutti mi dicono che qualcosa non va bene, ma non riesco a rendermene conto.
Il diario proseguiva così fino al giorno del sessantesimo compleanno dello zio, giorno in cui il la moglie e il figlio avevano abbandonato il padre.
Cosa fosse poi successo era rimasto un mistero, moglie e figlio avevano fatto perdere le proprie tracce e così lo zio.
Eugenio, con la sua indole dissacratrice aveva messo in scena la storia di suo zio davanti a un gruppo di visitatori napoletani, cercando di farli spaventare.
Dopo di quello spettacolino erano cominciati strani avvenimenti, i visitatori erano scontenti, il cuoco aveva perso due falangi, la moglie esprimeva il desiderio di andare a far visita ai propri parenti. Poi era arrivata la lettera della banca, lui aveva perso una causa importante e avrebbe dovuto chiudere. Si era sentito morire.
Poi aveva chiuso la porta e messo un lucchetto.
Deciso a vederci chiaro aveva cominciato a intervistare i vicini delle campagne circostanti, doveva esserci una qualche relazione tra ciò che aveva letto e quella sequela di avvenimenti nefasti. L’unica risposta l’aveva ottenuta da un bambino che gli aveva detto:
"Sei quello della casa con lo scantinato di pietre che parlano?"
"Ma no piccolo Michele, non dire sciocchezze", aveva detto la mamma del piccolo, scusandosi con Eugenio.
Eugenio si era diretto verso il basamento della casa trovandovi una botola dietro una vecchia botte, poi si era incamminato raggiungendo una grotta da cui spirava il vento. Chiuse gli occhi, mentre una voce lo chiamava. “Benvenuto, ho messo quel diario per farti venire qui”, gli aveva detto lo zio facendogli l’occhiolino con l’unico bulbo rimastogli. “Staremo sempre qui, tu ed io, questo posto non ammette fastidiose compagnie che ti distraggano dalla bontà sua, come del vino che vi si produce”.