Vergine d'alluminio - DAY TWO - SQUALIFICATO
Inviato: mercoledì 19 aprile 2017, 0:21
Il giorno che vennero a prendere Manila ero sul cesso, la tazza era gelida, il riscaldamento spento e fuori nevicava. Mentre cercavo di ripassare per l’interrogazione di biologia, le chiappe insensibili sulla ceramica fredda, loro incominciarono a cantare. Mi alzai di scatto e mi pulii alla cieca: erano solo in quattro.
Mi diedi una lavata veloce, nettai i denti, presi una fetta di pane e burro e mi lanciai verso l’uscio. Di fronte al portone del condominio di Manila cantavano in cinque. Si avvicendavano per non perdere mai una nota o un verso. Le loro voci erano un canto infinito e uguale a se stesso.
Addentai il pane caldo e lo sentii consolarmi il dentro come una colata di oro fuso; c’era speranza per Manila, forse tutto si sarebbe sistemato.
Aspettai la ragazza, prendevamo sempre lo stesso autobus. Poteva uscire da un momento all’altro, in fin dei conti loro sono innocui e lei avrebbe potuto chiedere scusa, beccarsi una lavata di capo dal Generale e tornare in classe. Qualcuno avrebbe mormorato, qualcuno mormora sempre, ma conoscevo bene Manila e lei delle malelingue si sarebbe infischiata, che andassero a cagare quei sei coglioni.
Alle 7.55 passò il bus, Manila non era uscita. Dal finestrino intravidi che ai cantori si aggiunsero altri due.
Passai tutta la mattinata a mangiucchiarmi nervosamente le labbra, la classe era tutto un vociare. Quella sgualdrina di Aja durante l’appello sbottò ad alta voce che Manila era una depravata e che “cosa si aspettava? Le puttane come lei non arrivano lontano. Povera Italia...”. Il prof di biologia la zittì con un occhiolino, sorridendo, che Aja doveva far la brava.
Al ritorno scesi dall’autobus, mi districai tra una trentina di cantori e suonai a casa della sventurata. Vidi qualcuno affacciarsi dalla sua finestra, aveva i capelli bianchi, probabilmente era nonna Giorgia. Chiamai Manila, le mandai un paio di messaggi vocali, due sms. Nulla.
La mattina dopo era gelida come quella precedente e i cantori erano un centinaio. Aspettai, aspettai ancora. Il portone si spalancò e io mi sporsi, una vecchietta uscii a gettar la mondizia. E poi uscii anche Manila. Mi avvicinai, il canto si fece più forte, mi assordò e sentii salir su la nausea; aveva i capelli grigi e il viso smunto, rughe agli occhi, i denti gialli. Si era già arresa.
Camminava e loro erano un muro, cercai di avvicinarmi a gomitate: erano padri di famiglia, commessi, macellai e tabaccai e ci conoscevamo tutti. Camminai per minuti e poi per un’ora o due, mandavo mail a Manila, messaggi su Facebook. “Non c’é bisogno di tutto questo, puoi chiedere perdono…”
Più camminavamo più lei chiocciava su se stessa, il petto rachitico, i capelli ad un passo più radi e a quello ancora più bianchi. Guadagnavo qualche altura, sbracciavo e urlavo, e la vedevo trascinarsi sui gomiti, sorda, i piedi sanguinanti in scarpe troppo grandi. Verso il tramonto il canto si spense improvvisamente e i cantori si dispersero, in mezzo alla strada c’ero solo io ed era tutta colpa mia.
Mi diedi una lavata veloce, nettai i denti, presi una fetta di pane e burro e mi lanciai verso l’uscio. Di fronte al portone del condominio di Manila cantavano in cinque. Si avvicendavano per non perdere mai una nota o un verso. Le loro voci erano un canto infinito e uguale a se stesso.
Addentai il pane caldo e lo sentii consolarmi il dentro come una colata di oro fuso; c’era speranza per Manila, forse tutto si sarebbe sistemato.
Aspettai la ragazza, prendevamo sempre lo stesso autobus. Poteva uscire da un momento all’altro, in fin dei conti loro sono innocui e lei avrebbe potuto chiedere scusa, beccarsi una lavata di capo dal Generale e tornare in classe. Qualcuno avrebbe mormorato, qualcuno mormora sempre, ma conoscevo bene Manila e lei delle malelingue si sarebbe infischiata, che andassero a cagare quei sei coglioni.
Alle 7.55 passò il bus, Manila non era uscita. Dal finestrino intravidi che ai cantori si aggiunsero altri due.
Passai tutta la mattinata a mangiucchiarmi nervosamente le labbra, la classe era tutto un vociare. Quella sgualdrina di Aja durante l’appello sbottò ad alta voce che Manila era una depravata e che “cosa si aspettava? Le puttane come lei non arrivano lontano. Povera Italia...”. Il prof di biologia la zittì con un occhiolino, sorridendo, che Aja doveva far la brava.
Al ritorno scesi dall’autobus, mi districai tra una trentina di cantori e suonai a casa della sventurata. Vidi qualcuno affacciarsi dalla sua finestra, aveva i capelli bianchi, probabilmente era nonna Giorgia. Chiamai Manila, le mandai un paio di messaggi vocali, due sms. Nulla.
La mattina dopo era gelida come quella precedente e i cantori erano un centinaio. Aspettai, aspettai ancora. Il portone si spalancò e io mi sporsi, una vecchietta uscii a gettar la mondizia. E poi uscii anche Manila. Mi avvicinai, il canto si fece più forte, mi assordò e sentii salir su la nausea; aveva i capelli grigi e il viso smunto, rughe agli occhi, i denti gialli. Si era già arresa.
Camminava e loro erano un muro, cercai di avvicinarmi a gomitate: erano padri di famiglia, commessi, macellai e tabaccai e ci conoscevamo tutti. Camminai per minuti e poi per un’ora o due, mandavo mail a Manila, messaggi su Facebook. “Non c’é bisogno di tutto questo, puoi chiedere perdono…”
Più camminavamo più lei chiocciava su se stessa, il petto rachitico, i capelli ad un passo più radi e a quello ancora più bianchi. Guadagnavo qualche altura, sbracciavo e urlavo, e la vedevo trascinarsi sui gomiti, sorda, i piedi sanguinanti in scarpe troppo grandi. Verso il tramonto il canto si spense improvvisamente e i cantori si dispersero, in mezzo alla strada c’ero solo io ed era tutta colpa mia.