"Omega" di Adriano Muzzi
Inviato: martedì 16 maggio 2017, 0:16
Stava lì, come tutte le mattine, racchiusa a 'doppia mandata' nel suo cappotto marrone, con un cappello di lana e una sciarpa rossa che facevano intravedere solo il nasino all'insù e degli splendidi occhi verdi, belli come il mare cristallino della Polinesia.
Il freddo e la nebbia non m’impedivano di godere di quella vista, che mi faceva trovare il calore necessario per sopportare l’attesa della corriera per la città.
Erano anni che stava lì. Erano anni che la guardavo e la desideravo senza riuscire a dire una parola, a fargli un sorriso, un gesto. Solo nuvolette di vapore tra me e lei. Solo operai curvi dal sonno e donne delle pulizie ingrassate per il troppo alcool. Solo questo, nessuna parola o segno d’intesa.
È il problema di noi timidi dalla nascita: paura di affrontare un dialogo; voglia di essere invisibili sempre e comunque; imbarazzo se qualcuno ci indica o ci nota; gran voglia di stare chiusi in casa da soli, magari con un gatto. Ma i problemi maggiori nascono quando ci si innamora: come comunicare il nostro affetto all'altra persona? Mission impossible…
Ogni giorno, uscendo dalla mia piccola casa, speravo che ci fosse, che stesse bene. Il periodo peggiore era quando andava in vacanza. Ora sapevo quando e per quanto, e cercavo di fare coincidere le mie villeggiature con le sue, ma non sempre era possibile. E le malattie? Un’aspirina e via in strada; lei per fortuna doveva essere di sana e robusta costituzione.
Poi passava il suo autobus e tutto finiva, tutto diventava grigio e freddo. Il mio passava dopo, ma io, ovviamente, arrivavo sempre molto in anticipo. Il sonno in meno era un sacrificio piacevole e necessario; e lo diventava sempre di più.
Un giorno di ordinaria follia presi la mia decisione: dovevo farmi forza e dire qualcosa per conoscerla. Certo, c’era il rischio di un rifiuto che avrebbe affossato ancora di più la mia vita inutile, ma dovevo provare. Del resto l’altro rischio era ancora maggiore: quello di non trovarla più; un cambio nel lavoro, nell'abitazione o un parente lontano malato.
Ci pensai parecchio, alla fine decisi e scelsi la cosa più banale (ma semplice!): le avrei chiesto l’ora e poi … e poi potevo solo sperare nella buona sorte.
Quella mattina lasciai a casa il mio Omega Speedmaster e m’incamminai, tremando, alla fermata. Non tremavo per il freddo.
Lei era lì, come sempre. Immutabile, solenne, bellissima come una statua greca.
Mi sedetti sulla panchina scarabocchiata, mi rialzai, mi risedetti molte volte.
Era il momento, adesso o mai più! Strinsi i pugni, mi diedi dei cazzotti sulle gambe e mentalmente ripetei il mio mantra: ‘Dai! Dai!’
Mi avvicinai, il mio sguardo salì lentamente dalle sua scarpe alla cinta del cappotto, dalla borsetta alla sciarpa, e infine ai suoi occhi. La fissai per un’istante che sembrava dilatare lo spazio tempo all'infinito e …
…lei mi disse, con occhi dolcissimi: “Scusami, mi sai dire che ore sono?”
Quel giorno non avevo l’orologio, ma sono sicuro che il tempo si fermò.
Per l’eternità.
Il freddo e la nebbia non m’impedivano di godere di quella vista, che mi faceva trovare il calore necessario per sopportare l’attesa della corriera per la città.
Erano anni che stava lì. Erano anni che la guardavo e la desideravo senza riuscire a dire una parola, a fargli un sorriso, un gesto. Solo nuvolette di vapore tra me e lei. Solo operai curvi dal sonno e donne delle pulizie ingrassate per il troppo alcool. Solo questo, nessuna parola o segno d’intesa.
È il problema di noi timidi dalla nascita: paura di affrontare un dialogo; voglia di essere invisibili sempre e comunque; imbarazzo se qualcuno ci indica o ci nota; gran voglia di stare chiusi in casa da soli, magari con un gatto. Ma i problemi maggiori nascono quando ci si innamora: come comunicare il nostro affetto all'altra persona? Mission impossible…
Ogni giorno, uscendo dalla mia piccola casa, speravo che ci fosse, che stesse bene. Il periodo peggiore era quando andava in vacanza. Ora sapevo quando e per quanto, e cercavo di fare coincidere le mie villeggiature con le sue, ma non sempre era possibile. E le malattie? Un’aspirina e via in strada; lei per fortuna doveva essere di sana e robusta costituzione.
Poi passava il suo autobus e tutto finiva, tutto diventava grigio e freddo. Il mio passava dopo, ma io, ovviamente, arrivavo sempre molto in anticipo. Il sonno in meno era un sacrificio piacevole e necessario; e lo diventava sempre di più.
Un giorno di ordinaria follia presi la mia decisione: dovevo farmi forza e dire qualcosa per conoscerla. Certo, c’era il rischio di un rifiuto che avrebbe affossato ancora di più la mia vita inutile, ma dovevo provare. Del resto l’altro rischio era ancora maggiore: quello di non trovarla più; un cambio nel lavoro, nell'abitazione o un parente lontano malato.
Ci pensai parecchio, alla fine decisi e scelsi la cosa più banale (ma semplice!): le avrei chiesto l’ora e poi … e poi potevo solo sperare nella buona sorte.
Quella mattina lasciai a casa il mio Omega Speedmaster e m’incamminai, tremando, alla fermata. Non tremavo per il freddo.
Lei era lì, come sempre. Immutabile, solenne, bellissima come una statua greca.
Mi sedetti sulla panchina scarabocchiata, mi rialzai, mi risedetti molte volte.
Era il momento, adesso o mai più! Strinsi i pugni, mi diedi dei cazzotti sulle gambe e mentalmente ripetei il mio mantra: ‘Dai! Dai!’
Mi avvicinai, il mio sguardo salì lentamente dalle sua scarpe alla cinta del cappotto, dalla borsetta alla sciarpa, e infine ai suoi occhi. La fissai per un’istante che sembrava dilatare lo spazio tempo all'infinito e …
…lei mi disse, con occhi dolcissimi: “Scusami, mi sai dire che ore sono?”
Quel giorno non avevo l’orologio, ma sono sicuro che il tempo si fermò.
Per l’eternità.