Leo
Inviato: martedì 16 maggio 2017, 0:27
È un’arena che puzza di sudore, noccioline e gomma. È un’arena dove il sangue esplode insieme ai denti, dove il lattice incontra la carne in uno scricchiolio sinistro di ossa spezzate (anche se il sangue è sempre troppo poco, e le ossa sempre troppo intere). È un’arena che ospita l’ultimo rituale, l’ultima strascicata magia: il sacrificio domenicale che una modernità sciatta offre inconsapevolmente al proprio misero Dio della Guerra.
Grasso e pelato, il Dio affonda mani tozze in una ciotola piena di pop-corn, e quando non sogna i tempi dell’acciaio si gode quel che può: il sapore del mais intriso di sangue, il rumore dei corpi che cadono, e soprattutto il gancio destro di Leo.
Leo non indietreggia mai di fronte ai colpi. Leo incassa, risponde, incassa e alla fine vince. Vince sempre, e non schiva mai.
Il Dio affonda mani tozze in una ciotola di polistirolo, mentre la folla urla il proprio desiderio – troppo sporco per essere mediato dalle parole, dai gesti, persino dal pensiero. Il suo spazio è quello dell’inconscio, dove si nutre di colpi di campana e corpi sudati. Il sangue schizza, la folla urla, il Dio mastica e Leo vince.
Tutti amano Leo. Quando esce dal ring, Leo sorride sempre – prende i colpi, tutti, ma i suoi denti (a differenza del sangue) non schizzano mai. Leo è spietato, bellissimo, affamato. Con quel sorriso Leo accoglie tutto: il diretto dell’avversario, le urla del pubblico, e poi i tremiti pieni di desiderio raccolti negli angoli bui dove consuma l’ambrosia che lo fa re ed eterno vincitore.
Leo non cattura semplicemente i cuori della gente: li divora.
Gancio, montante, due passi avanti e poi sotto, alle costole. Il colpo di Leo è Mjöllnir, o lo strale di Zeus: colpisce la cassa toracica, squassa le costole fluttuanti, spappola la milza, ferma il cuore. Leo guarda dritto in faccia l’avversario, e chi gli è sopravvissuto dice che in quegli occhi non c’è niente. Come in quel petto largo su cui i colpi arrivano sempre, sempre, sempre, e sempre senza esito.
Il Dio affonda mani tozze nella sua ciotola e sfiora la carne morbida del ventricolo destro. Il cuore spurga piccole gocce di sangue come ketchup, un tocco di sapore a quei batuffoli bianchi dal sapor di polistirolo.
Il Dio è sempre in prima fila e guarda sempre e solo Leo, con un sorriso sporco di sangue e mais. Leo lo sa, e non si volta mai.
Leo sa cosa c'è appena oltre i margini della sua visione, dentro a una ciotola di cartone in braccio a un uomo grasso che non è un uomo. Leo sa di essere sul palco, vuoto, e di essere anche (piccolo e rosso) dentro a una ciotola piena di pop-corn. Sa che in quella ciotola si trova l’immagine riflessa nello specchio, l'emblema di un desiderio incauto – la conoscenza profonda e terribile di sé.
Lo sa perché ce l’ha messa lui. E sa che basterebbe poco per riaverla – voltarsi, solo voltarsi e guardare.
Ma non lo fa mai. Leo non si volta, non guarda mai in prima fila. Leo sta fermo, incassa il colpo, e risponde.
E alla fine vince. Vince sempre.
Grasso e pelato, il Dio affonda mani tozze in una ciotola piena di pop-corn, e quando non sogna i tempi dell’acciaio si gode quel che può: il sapore del mais intriso di sangue, il rumore dei corpi che cadono, e soprattutto il gancio destro di Leo.
Leo non indietreggia mai di fronte ai colpi. Leo incassa, risponde, incassa e alla fine vince. Vince sempre, e non schiva mai.
Il Dio affonda mani tozze in una ciotola di polistirolo, mentre la folla urla il proprio desiderio – troppo sporco per essere mediato dalle parole, dai gesti, persino dal pensiero. Il suo spazio è quello dell’inconscio, dove si nutre di colpi di campana e corpi sudati. Il sangue schizza, la folla urla, il Dio mastica e Leo vince.
Tutti amano Leo. Quando esce dal ring, Leo sorride sempre – prende i colpi, tutti, ma i suoi denti (a differenza del sangue) non schizzano mai. Leo è spietato, bellissimo, affamato. Con quel sorriso Leo accoglie tutto: il diretto dell’avversario, le urla del pubblico, e poi i tremiti pieni di desiderio raccolti negli angoli bui dove consuma l’ambrosia che lo fa re ed eterno vincitore.
Leo non cattura semplicemente i cuori della gente: li divora.
Gancio, montante, due passi avanti e poi sotto, alle costole. Il colpo di Leo è Mjöllnir, o lo strale di Zeus: colpisce la cassa toracica, squassa le costole fluttuanti, spappola la milza, ferma il cuore. Leo guarda dritto in faccia l’avversario, e chi gli è sopravvissuto dice che in quegli occhi non c’è niente. Come in quel petto largo su cui i colpi arrivano sempre, sempre, sempre, e sempre senza esito.
Il Dio affonda mani tozze nella sua ciotola e sfiora la carne morbida del ventricolo destro. Il cuore spurga piccole gocce di sangue come ketchup, un tocco di sapore a quei batuffoli bianchi dal sapor di polistirolo.
Il Dio è sempre in prima fila e guarda sempre e solo Leo, con un sorriso sporco di sangue e mais. Leo lo sa, e non si volta mai.
Leo sa cosa c'è appena oltre i margini della sua visione, dentro a una ciotola di cartone in braccio a un uomo grasso che non è un uomo. Leo sa di essere sul palco, vuoto, e di essere anche (piccolo e rosso) dentro a una ciotola piena di pop-corn. Sa che in quella ciotola si trova l’immagine riflessa nello specchio, l'emblema di un desiderio incauto – la conoscenza profonda e terribile di sé.
Lo sa perché ce l’ha messa lui. E sa che basterebbe poco per riaverla – voltarsi, solo voltarsi e guardare.
Ma non lo fa mai. Leo non si volta, non guarda mai in prima fila. Leo sta fermo, incassa il colpo, e risponde.
E alla fine vince. Vince sempre.