Scarpe
Inviato: lunedì 12 giugno 2017, 23:56
Se le mie scarpe potessero parlare e tu chiedessi dove sono stata, se le spazzolassi, le lucidassi e poi chiedessi dove si sono sporcate, allora, se potessero parlare, ti racconterebbero della pioggia battente che mi è piovuta addosso per la strada mentre tornavo a casa dal molo di Cancún. Ti racconterebbero del cielo azzurro fioco, del mare calmo bucato da piccole pietre d’acqua. Te lo direbbero anche se a Cancún, quel giorno, non piovve. A Cancún non piovve ed io non tornai a casa dal molo. Rimasi lì, con un bicchiere di vino, e pensai a come sarebbe stato se avesse piovuto.
Se le mie scarpe potessero parlare, ti racconterebbero la melma della Normandia, quando la marea aveva tirato indietro il mare. Ti parlerebbero dei vermicelli che affioravano dal fondo e guardavano il sole una volta al giorno, a fine estate. Ti direbbero della sposa che era arrivata con il vestito bianco. Ti direbbero che, tra gli scogli e la melma, al nord della Francia, c’era una sposa con il vestito bianco ed i capelli intatti nonostante il vento. Io avevo scarpe sporche ed una maglia a righe, e lei un vestito bianco.
Era arrivata lì accanto alle mie mani rosse dall’arrampicata e sporche per la polvere e lo sgretolarsi del terriccio. Così le mie scarpe ti direbbero che abbiamo atteso che nevicasse. Abbiamo atteso che le braccia pendessero verso il cielo e che lo stomaco si capovolgesse e poi che nevicasse dalla melma umida della Normandia, come se qualcuno agitasse quel ricordo dal tavolo del salotto degli sposi. Ma, anche questo, non è successo.
Se le mie scarpe potessero parlare e tu chiedessi dove sono stata, allora, probabilmente, ti racconterebbero dell’Islanda. Certo non dimenticherebbero Jökulsárlón. La montagna gelata sembrava vicina e avremmo voluto raggiungerla a piedi. Abbiamo camminato per due ore e tre quarti e non siamo arrivati mai.
Quando fece buio non fu Aurora Boreale e tutte le foche rimasero a dormire con la testa ingiù.
Se le mie scarpe potessero parlare, e tu chiedessi loro dov’è che mi sono persa, perché non sono tornata, forse ti direbbero di cercarmi a Córdoba, da dove tutto è cominciato.
Lì credevo che saresti arrivato in treno e che avresti passeggiato sotto le tende tese di Cruz Conde. Ma non è successo.
Così non è successo di aspettare insieme la pioggia non piovuta di Cancún, né l’Aurora Boreale non apparsa.
Così stasera trovi le mie scarpe, sporche, sul tuo zerbino, ma pensi ad uno scherzo e le calci via.
Non chiedi loro dove sono stata, né perché mai non sia tornata.
Neppure ricordi che quelle scarpe erano le mie.
Così, se adesso le mie braccia tendessero al cielo e lo stomaco cadesse capovolto, se la neve esplodesse dal terreno e si arenasse su una cupola di vetro, io non mi stupirei di trovarmi nel salotto degli sposi, accanto al souvenir della loro Normandia, come tangibile ricordo dell’inaspettato.
Camminavo e non mi rendevo conto che i respiri che tiravo sino al fondo dei polmoni nel mio viaggio, erano gli ultimi sospiri in terra tua.
Se le mie scarpe potessero parlare, ti racconterebbero la melma della Normandia, quando la marea aveva tirato indietro il mare. Ti parlerebbero dei vermicelli che affioravano dal fondo e guardavano il sole una volta al giorno, a fine estate. Ti direbbero della sposa che era arrivata con il vestito bianco. Ti direbbero che, tra gli scogli e la melma, al nord della Francia, c’era una sposa con il vestito bianco ed i capelli intatti nonostante il vento. Io avevo scarpe sporche ed una maglia a righe, e lei un vestito bianco.
Era arrivata lì accanto alle mie mani rosse dall’arrampicata e sporche per la polvere e lo sgretolarsi del terriccio. Così le mie scarpe ti direbbero che abbiamo atteso che nevicasse. Abbiamo atteso che le braccia pendessero verso il cielo e che lo stomaco si capovolgesse e poi che nevicasse dalla melma umida della Normandia, come se qualcuno agitasse quel ricordo dal tavolo del salotto degli sposi. Ma, anche questo, non è successo.
Se le mie scarpe potessero parlare e tu chiedessi dove sono stata, allora, probabilmente, ti racconterebbero dell’Islanda. Certo non dimenticherebbero Jökulsárlón. La montagna gelata sembrava vicina e avremmo voluto raggiungerla a piedi. Abbiamo camminato per due ore e tre quarti e non siamo arrivati mai.
Quando fece buio non fu Aurora Boreale e tutte le foche rimasero a dormire con la testa ingiù.
Se le mie scarpe potessero parlare, e tu chiedessi loro dov’è che mi sono persa, perché non sono tornata, forse ti direbbero di cercarmi a Córdoba, da dove tutto è cominciato.
Lì credevo che saresti arrivato in treno e che avresti passeggiato sotto le tende tese di Cruz Conde. Ma non è successo.
Così non è successo di aspettare insieme la pioggia non piovuta di Cancún, né l’Aurora Boreale non apparsa.
Così stasera trovi le mie scarpe, sporche, sul tuo zerbino, ma pensi ad uno scherzo e le calci via.
Non chiedi loro dove sono stata, né perché mai non sia tornata.
Neppure ricordi che quelle scarpe erano le mie.
Così, se adesso le mie braccia tendessero al cielo e lo stomaco cadesse capovolto, se la neve esplodesse dal terreno e si arenasse su una cupola di vetro, io non mi stupirei di trovarmi nel salotto degli sposi, accanto al souvenir della loro Normandia, come tangibile ricordo dell’inaspettato.
Camminavo e non mi rendevo conto che i respiri che tiravo sino al fondo dei polmoni nel mio viaggio, erano gli ultimi sospiri in terra tua.