Troppa trippa stroppia - Fernando Nappo
Inviato: martedì 13 giugno 2017, 0:56
Troppa trippa stroppia
di Fernando Nappo
— Troppa trippa stroppia — dice Digober con un miagolio, mentre si massaggia la ventrazza rigonfia.
— Beato te — ribatto. — Io, da quando sono stato adottato, vedo sì e no qualche boccone al giorno, e solo se mi do da fare. Non dico che stavo meglio al gattile, ma insomma...
Per tutta risposta. Digober sguaina un’unghia e si dà una stuzzicatina tra i denti, ronfando di soddisfazione. — Fossi in te, caro mio, non mi lamenterei. Tu per lo meno sei in forma. Sei un figurino.
— Sono ridotto all’osso, altroché — replico, dando uno sguardo eloquente alla pinguedine del mio compare. — Certo che qualche boccone potresti anche avanzarlo per un amico.
— Mangiare poco allunga la vita — dice Digober.
— A questo proporito, mi hai fatto venire in mente che è ora di pranzo e il dovere mi chiama. Ho un topo da acchiappare.
Saluto Digober, scendo gli scalini del patio, e, coda dritta, giro dietro la casa e mi fermo all’ingresso della tana di Raschio.
— Ehi, Raschio. Ci sei?
Sento uno scalpiccio e il topolino caccia fuori il muso. — È già ora?
— Già.
— Va bene — replica il topo. — Ma facciamo che oggi ti scappo, ok? L’ultima volta che mi hai trascinato per la coda ho sentito un bruciore fastidioso per giorni.
Alzo gli occhi al cielo. Raschio è un tipo a posto, ma così insofferente quado si tratta del suo retrobottega. — Come vuoi tu — rispondo.
Raschio salta fuori dalla tana, saltella un po’ per riscaldarsi, mi gira attorno un paio di volte, poi parte in quarta verso casa. Mi fiondo a ruota dietro di lui, con un miagolio cattivo.
Raschio sale i gradini del patio e, dritto per dritto, infila la porta di casa.
— Hai bisogno d’una mano? — mi urla dietro Digober, quando mi vede sfrecciare dietro al topo. Non rispondo, anche perché dovrei fargli presente che rotondo e goffo com’è non è minimamete credibile come cacciatore.
Raschio trova la padrona di casa in cucina e gli si infila fra le gambe. Questa prende a urlare come una matta, chiamandomi a squarciagola: — Aiuto Batman, aiuto!
Arrivo di corsa, mi tuffo sul roditore, c’azzuffiamo un po’ tra squitii e miagolii, poi Raschio, come da copione, mi sfugge dagli artigli e si precipita fuori a rotta di collo. Io arrivo fino alla porta, mi fermo e comincio a soffiare col pelo irto. Un altro po’ di scena non guasta.
Pochi minuti dopo, raggiungo Raschio con un qualche pezzetto di ciccia tra le fauci, il premio per aver liberato la casa da un altro mostricciattolo baffuto. Complici, ci dividiamo il pasto.
— Domani si replica? — faccio io.
— Certo, finché la tua padrona non si accorge che sono sempre lo stesso topo.
— Se mai se ne accorgerà — dico.
Saluto Raschio e placido me ne torno verso il patio. Digober è ancora lì, pieno e gonfio che ronfa all’ombra del dondolo.
Inarco la schiena e sbadiglio. Dopo le fatiche della giornata, è ora di un meritato pisolino.
Gli umani non ci credono, ma essere un gatto è una vera fatica.
di Fernando Nappo
— Troppa trippa stroppia — dice Digober con un miagolio, mentre si massaggia la ventrazza rigonfia.
— Beato te — ribatto. — Io, da quando sono stato adottato, vedo sì e no qualche boccone al giorno, e solo se mi do da fare. Non dico che stavo meglio al gattile, ma insomma...
Per tutta risposta. Digober sguaina un’unghia e si dà una stuzzicatina tra i denti, ronfando di soddisfazione. — Fossi in te, caro mio, non mi lamenterei. Tu per lo meno sei in forma. Sei un figurino.
— Sono ridotto all’osso, altroché — replico, dando uno sguardo eloquente alla pinguedine del mio compare. — Certo che qualche boccone potresti anche avanzarlo per un amico.
— Mangiare poco allunga la vita — dice Digober.
— A questo proporito, mi hai fatto venire in mente che è ora di pranzo e il dovere mi chiama. Ho un topo da acchiappare.
Saluto Digober, scendo gli scalini del patio, e, coda dritta, giro dietro la casa e mi fermo all’ingresso della tana di Raschio.
— Ehi, Raschio. Ci sei?
Sento uno scalpiccio e il topolino caccia fuori il muso. — È già ora?
— Già.
— Va bene — replica il topo. — Ma facciamo che oggi ti scappo, ok? L’ultima volta che mi hai trascinato per la coda ho sentito un bruciore fastidioso per giorni.
Alzo gli occhi al cielo. Raschio è un tipo a posto, ma così insofferente quado si tratta del suo retrobottega. — Come vuoi tu — rispondo.
Raschio salta fuori dalla tana, saltella un po’ per riscaldarsi, mi gira attorno un paio di volte, poi parte in quarta verso casa. Mi fiondo a ruota dietro di lui, con un miagolio cattivo.
Raschio sale i gradini del patio e, dritto per dritto, infila la porta di casa.
— Hai bisogno d’una mano? — mi urla dietro Digober, quando mi vede sfrecciare dietro al topo. Non rispondo, anche perché dovrei fargli presente che rotondo e goffo com’è non è minimamete credibile come cacciatore.
Raschio trova la padrona di casa in cucina e gli si infila fra le gambe. Questa prende a urlare come una matta, chiamandomi a squarciagola: — Aiuto Batman, aiuto!
Arrivo di corsa, mi tuffo sul roditore, c’azzuffiamo un po’ tra squitii e miagolii, poi Raschio, come da copione, mi sfugge dagli artigli e si precipita fuori a rotta di collo. Io arrivo fino alla porta, mi fermo e comincio a soffiare col pelo irto. Un altro po’ di scena non guasta.
Pochi minuti dopo, raggiungo Raschio con un qualche pezzetto di ciccia tra le fauci, il premio per aver liberato la casa da un altro mostricciattolo baffuto. Complici, ci dividiamo il pasto.
— Domani si replica? — faccio io.
— Certo, finché la tua padrona non si accorge che sono sempre lo stesso topo.
— Se mai se ne accorgerà — dico.
Saluto Raschio e placido me ne torno verso il patio. Digober è ancora lì, pieno e gonfio che ronfa all’ombra del dondolo.
Inarco la schiena e sbadiglio. Dopo le fatiche della giornata, è ora di un meritato pisolino.
Gli umani non ci credono, ma essere un gatto è una vera fatica.