L'INFERNO di Giuseppe De Micheli
Inviato: mercoledì 14 giugno 2017, 23:32
L’INFERNO.
Di solito il mio risveglio comincia dal naso, la prima cosa che sento è l’odore delizioso del caffè che la cameriera mi serve in camera Poi avverto i suoni di tazzine, piattini, cucchiaini e ciabatte, e della pendola che batte le sette. Percepisco il calore, si risveglia il tatto e il corpo prende consistenza. Prima del settimo rintocco apro gli occhi e schizzo giù dal letto.
Subito dopo il cronometro entra in azione e comanda ogni attività: spogliarsi, lavarsi, sbarbarsi, colazione, denti, vestirsi, uscire. L’auto mi attende con il motore acceso, la portiera aperta, l’autista al volante. I giornali li leggo durante il percorso. Poi scendo, attraverso l’atrio, saluto, salgo in ufficio, porgo soprabito, ombrello e cappello, ricevo la posta e i comunicati notturni; il computer elenca già le mail e le news rilevanti, la segretaria è pronta a registrare ogni mio verbo, sul suo tablet.
Ma non questa mattina. Questa mattina mi sono svegliato in un colpo solo, naso, orecchie e occhi tutti assieme, e ho avvertito immediatamente che il tempo si era fermato. Mi sono trovato inglobato e immobilizzato in un unico istante. Era rimasto solo lo spazio, nella sua antica forma euclidea, a tre dimensioni, ma era scomparso il tempo.
Poi -ma che senso ha dire poi nel senza tempo?- provo terrore: intrappolato in un istante vuol dire essere intrappolato per l’eternità. L’universo senza tempo è dunque l’inferno?
Io, che fino a ieri divoravo il tempo, ora sono obbligato a restare fermo per sempre. Ma qual è il peccato che devo scontare? Forse è la fretta? Ma che peccato è la fretta? Il tempo è limitato. Non possiamo permetterci di sprecarlo. Nemmeno per riflettere.
Riflettere? Tutte le superfici di quest’inferno cristallizzato riflettono. Riflettono il mio volto tirato in un’espressione perennemente severa, la fronte spinta indietro e il mento avanti per guardare tutti in tralice. Riflettono le mie spalle tirate indietro per tenere le distanze. Riflettono il nodo della cravatta, la riga dei pantaloni, la caduta della giacca, tutti perfetti. Mi rimandano lo sguardo perennemente glaciale, e il sorriso artefatto di quando, raramente, elogio, incoraggio, promuovo. Sono una macchina a gettone: schiaccio il bottone dell’ira e scatta l’espressione dell’ira, premo quello del sorriso e salta fuori… una smorfia. Mai una volta che abbia azionato il pulsante dell’empatia. Mi vedo brutto. E per sempre mi sarei visto brutto, infinite volte, in infiniti specchi.
Sospirai. Nel naso e nella bocca, assieme all’aria, entrò il profumo del caffè, la pendola batté armoniosamente le sette, il corpo si stiracchiò voluttuosamente. Il rito del risveglio si stava ripetendo regolarmente. Ma questa volta mi girai sull’altro fianco. Oggi sarei andato tardi in ufficio. Mi riaddormentai.
Di solito il mio risveglio comincia dal naso, la prima cosa che sento è l’odore delizioso del caffè che la cameriera mi serve in camera Poi avverto i suoni di tazzine, piattini, cucchiaini e ciabatte, e della pendola che batte le sette. Percepisco il calore, si risveglia il tatto e il corpo prende consistenza. Prima del settimo rintocco apro gli occhi e schizzo giù dal letto.
Subito dopo il cronometro entra in azione e comanda ogni attività: spogliarsi, lavarsi, sbarbarsi, colazione, denti, vestirsi, uscire. L’auto mi attende con il motore acceso, la portiera aperta, l’autista al volante. I giornali li leggo durante il percorso. Poi scendo, attraverso l’atrio, saluto, salgo in ufficio, porgo soprabito, ombrello e cappello, ricevo la posta e i comunicati notturni; il computer elenca già le mail e le news rilevanti, la segretaria è pronta a registrare ogni mio verbo, sul suo tablet.
Ma non questa mattina. Questa mattina mi sono svegliato in un colpo solo, naso, orecchie e occhi tutti assieme, e ho avvertito immediatamente che il tempo si era fermato. Mi sono trovato inglobato e immobilizzato in un unico istante. Era rimasto solo lo spazio, nella sua antica forma euclidea, a tre dimensioni, ma era scomparso il tempo.
Poi -ma che senso ha dire poi nel senza tempo?- provo terrore: intrappolato in un istante vuol dire essere intrappolato per l’eternità. L’universo senza tempo è dunque l’inferno?
Io, che fino a ieri divoravo il tempo, ora sono obbligato a restare fermo per sempre. Ma qual è il peccato che devo scontare? Forse è la fretta? Ma che peccato è la fretta? Il tempo è limitato. Non possiamo permetterci di sprecarlo. Nemmeno per riflettere.
Riflettere? Tutte le superfici di quest’inferno cristallizzato riflettono. Riflettono il mio volto tirato in un’espressione perennemente severa, la fronte spinta indietro e il mento avanti per guardare tutti in tralice. Riflettono le mie spalle tirate indietro per tenere le distanze. Riflettono il nodo della cravatta, la riga dei pantaloni, la caduta della giacca, tutti perfetti. Mi rimandano lo sguardo perennemente glaciale, e il sorriso artefatto di quando, raramente, elogio, incoraggio, promuovo. Sono una macchina a gettone: schiaccio il bottone dell’ira e scatta l’espressione dell’ira, premo quello del sorriso e salta fuori… una smorfia. Mai una volta che abbia azionato il pulsante dell’empatia. Mi vedo brutto. E per sempre mi sarei visto brutto, infinite volte, in infiniti specchi.
Sospirai. Nel naso e nella bocca, assieme all’aria, entrò il profumo del caffè, la pendola batté armoniosamente le sette, il corpo si stiracchiò voluttuosamente. Il rito del risveglio si stava ripetendo regolarmente. Ma questa volta mi girai sull’altro fianco. Oggi sarei andato tardi in ufficio. Mi riaddormentai.