Test
Inviato: giovedì 13 luglio 2017, 19:05
Il dottore dice: "Svegliati" e tu apri gli occhi; fasci di colori mai visti ti perforano la retina.
Non sai dove ti trovi.
Il dottore dice: "Svegliati" e tu apri gli occhi; i timpani vibrano di suoni arcani che scheggiano i neuroni.
Non capisci le voci che ti stanno parlando.
Il dottore dice: "Svegliati", ma tu sei già sveglio.
Una pellicola morbida e sottile tra te e le cose che ti circondano.
Forme strane e allungate, assomiglianti a corpi carbonizzati tesi nello sforzo di raggiungere il sole, si muovono attorno al tuo campo visivo. Ti scrutano, all'interno della bolla in cui sei rinchiuso, con quegli occhi fondi, neri come lo spazio e trapunti di piccoli globi ammiccanti. Vita nella vita che ti osserva, ti desidera. Si protende verso di te...
Tre mesi, dodici giorni, ventidue ore...
La ragazza batte i piedi sul pavimento, le mani artigliate al sedile della poltrona. Si guarda le ginocchia magre magre e intanto mastica una gomma.
Interrompe il ciondolare dei piedi a metà di un arco. Si volta: "È tanto che aspetti?".
Mattia ricambia lo sguardo. Lei non mostra più di sedici anni e ne è stupito: non pensava ne accettassero di così giovani. La casacca bianca le stringe il collo come una manetta. Ha una spilla a forma d'uovo appuntata sul lato destro del petto.
La guarda e pensa che non sa cosa rispondere alla sua domanda. Da quanto tempo è in attesa? Si gratta la guancia ispida. Ieri la barba era più folta, pensa strizzando gli occhi, ma non ricorda quando si è rasato.
Scrolla la testa: "Non lo so", mormora.
Lei continua a fissarlo. Una smorfia le contrae la faccia.
"Capisco", fa poi, riprendendo a oscillare i piedi. Struscia la S prolungandone il suono, come se il palato fosse di ghiaccio. È evidente che non gli crede.
Mattia è tentato di aggiungere qualcosa. Ma la ragazzina viene chiamata; salta giù dalla sedia e si allontana, nella sua casacchina bianca, scomparendo alla sua sinistra, dietro una porta di vetro smerigliato dove figure nere e confuse si allungano.
Mattia gioca con i lacci che gli pendono dalla testa. Zecche bianche e piatte gli mordono le tempie.
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"È tanto che aspetti?"
La donna si liscia un'unghia spezzata, laccata di rosso, sul bordo della tunica. Un po' di rughe si diramano dal mento e scompaiono nello spacco a V del colletto sbottonato. Una spilla a forma d'uovo appuntata sul lato sinistro del petto. Non lo guarda.
Matteo gioca con i lacci che gli pendono dalla testa, mentre zecche bianche e piatte gli mordono le tempie. Si strofina con la mano le guance. La barba è lunga e sporca di quella crema insipida che ha presto imparato a chiamare "cena".
"No, non troppo", mormora.
La donna sbuffa, si alza di scatto. La porta di vetro si apre quel tanto che le permette di entrare, lasciandolo solo nella sala d'attesa.
...undo...
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"Può entrare..." lo scuote un'infermiera, ricacciandolo indietro dal torpore nel quale era scivolato. L'infermiera ha capelli scuri e un sorriso meccanico che non ne intacca la bellezza. Lo afferra per il braccio, costringendolo ad alzarsi.
“Il dottore la sta aspettando”, sibila, mentre dalla fessura delle labbra una lingua tentacolare si dilunga e decine di peduncoli si sporgono verso la faccia di Mattia contratta in un urlo privo di voce.
Nove mesi, ventitré giorni, cinque ore...
Annaspi in un pantano; enormi creature fanno tuonare la terra a ogni passo.
Ti agiti quando la terra ti risucchia indietro con desiderio, e raspi il fango una bracciata per volta. Occhi gialli ti spiano da felci gigantesche. Insetti smisurati ti assediano, saggiando il sapore del tuo sangue.
La sponda si avvicina, un metro alla volta, illuminata da un centinaio di luci verdastre che galleggiano sul bordo.
La sponda si a
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La sponda si allontana, trascinandosi dietro le sue luci d'inganno; quelle luci che hai seguito, camminando tra edere velenose e alte lingue d'erba che ti sferzavano taglienti, mentre ti nascondevi dalle cose che ti davano la caccia.
Una bracciata dopo l'altra, senti i muscoli intorpidirsi, i polmoni cedere alla fatica.
Il fango ha costruito una corazza attorno alle tue braccia che, lunghe e sformate, ora sporgono dalla pozza con sempre minore frequenza. Finché non vedi più né la sponda, né le luci. Finché il fango non ti circonda e ne respiri lunghe sorsate e continui a nuotare, spingendoti verso il fondo
Undici mesi, diciotto giorni, un'ora...
Nessuna infermiera nei paraggi.
Matteo si alza, circospetto. Tenta di strapparsi le zecche dalle tempie, ma è come se si stesse cavando gli occhi dall'interno, così rinuncia. Si guarda intorno. Il corridoio è lungo e stretto. Si spacca in quattro direzioni, formando una croce. A loro volta, le diramazioni si spezzano in ulteriori crocifissi.
Per non passare davanti alla porta a vetri, dove le forme si allungano nere e silenziose, Matteo sceglie la ramificazione alla sua sinistra. Ma fa pochi passi e si accorge che camminare gli è pesante: come se qualcuno gli avesse stretto attorno alle caviglie dei blocchi di cemento. Abbassa lo sguardo. I piedi affondano nel pavimento, lentamente, tutto il suo corpo affonda. Prova a voltarsi,
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a tornare indietro. Il pavimento gli è già all'anca. Poi attorno alla vita.
Ora Mattia nuota. Non grida per non richiamare l'infermiera carina dalla lingua tentacolare. Il pavimento gli solletica il pomo d'Adamo. Prende un lungo respiro e si lascia affogare.
Un anno, un mese, sei giorni, quindici minuti...
“Le sezioni coinvolte nell'esperimento...”
Con una lunga bacchetta d'osso che sembra il prolungamento del suo dito indice, il medico illustra una sezione di cervello sul monitor. Mattia segue i movimenti del dottore con lo sguardo, la testa bloccata dal supporto di metallo. Con la coda dell'occhio può vedere la porzione superiore della calotta cranica rimossa e appoggiata in una bacinella di acciaio colma di ghiaccio. Accanto a questo primo contenitore ce n'è un altro. E un'altra calotta cranica sta immersa nel ghiaccio.
“Mi sta seguendo?”, domanda il dottore arrestandosi a metà della lezione.
Mattia articola una risposta. “S...sì”.
Il medico, soddisfatto, riprende.
“Queste aree indicano chiaramente che...”, si ferma. Dà un'occhiata a Mattia, torna all'immagine. Mattia sente qualcosa di freddo giocare nella sua testa. Non prova dolore, solo una leggera pressione, un fastidio ideale. Lo scoppio di una scintilla e si ritrova a sghignazzare, senza volerlo. “Vede? Questo non dovrebbe accadere”, commenta disgustato il medico. Un altro schiocco. Ora, assieme alla risata, che non sembra provenire da lui, Mattia sente gli occhi umidi di pianto. “Già meglio”.
Sul monitor può vedere la sezione pulsante del suo cervello, di un colore rosa gentile, come petali carnosi di un anemone. Una lunga canna d'acciaio scintilla su quella massa morbida, duttile e umida. Un altro schiocco e la sua voce grida senza che lui sappia di aver gridato. Un grido gli fa eco. Le labbra del dottore si assottigliano e si allungano, si tendono verso di lui, come un becco molle e palpitante di minuscole bocche che dicono: “Siete pronti per il test”.
Un anno, sei mesi, due giorni, ventuno ore...
La vedi la prima volta davanti al negozio di dischi che fissa la vetrina e si tira la gonna troppo corta sulle gambe troppo magre. La sua immagine si riflette su un poster dei Beatles che reclamizza il loro ultimo album. Indossa calzettoni bianchi arricciati alle caviglie e buffe scarpe nere dalla suola di gomma. Un pullover pastello sulla gonna nera. Lei si volta, quando si accorge che ti sei avvicinato. Ti squadra, masticando lentamente una gomma.
Ha occhi piccoli e un modo particolare di arricciare la faccia quando contrae la bocca.
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Non puoi dire ora perché ti abbia colpito. Non è una bella ragazza, non avrà neppure diciassette anni. Carina, forse. Probabilmente lei immagina di essere carina. A quell'età tutte si ritengono carine. Ma qualcosa, nel suo modo di tirare la gonna, di spalmare la faccia contro la vetrina mentre infilava una gomma in bocca ti ha incuriosito.
Continui a fissarla, mentre fai scorrere il dito sui vinili. Lei non ti nota neppure, assorbita dal poster. Nel negozio passano un pezzo che non conosci dal quale ti lasci trasportare, oscillando sui giri di basso
Due anni, due mesi due giorni, due ore...
Il sole si spacca sulla lama affilata della tua spada. Il giorno è appena sorto, ma la tristezza che ti rode dentro non trova conforto nella sua luce.
Hai passato la notte ad aggirarti per il camminamento, mentre attorno a te si levavano le voci di chi aveva già bevuto e affondato la spada. Le grida di chi non aveva scampo.
“Bevi”, ti ha offerto per due volte il tuo capitano. “Bevi”, ha insistito. Ma tu non sei stato in grado di buttare giù neppure un sorso. Hai camminato, avanti e indietro. Sopra e sotto le mura. Nei sotterranei che si snodano come un labirinto sotto la città, portando alle cisterne e ai granai.
Hai camminato, sperando che il giorno non arrivasse mai.
Ma il giorno è arrivato.
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Il giorno è arrivato.
Cammini in una piazza lorda di sangue. Tra braccia bianche che si sollevano in forme inaccettabili, verso un sole che non le riscalderà più. Tra mani giunte in suppliche che il vostro Dio ha masticato e sputato con disprezzo.
Cammini e ogni passo è una condanna.
Cammini, e ogni passo ti trascina un po' di più in quella fanghiglia rossa e viscida.
Lei ti aspetta nella vostra casa, piantonata dal capitano.
Lei ti aspetta, rannicchiata sul letto che tante volte vi ha stretti nell'amore.
Contro il suo petto nudo, il piccolo nato da poche settimane strofina il nasino a punta mentre succhia con avidità, inconsapevole di quanto poco potrà giovargli, tra breve, quel latte.
Dietro un velo di lacrime sollevi la spada.
Lei sussulta e ti rivolge una coppia di occhi insieme dolenti e rabbiosi.
“Ti prego... non farlo. Non” dice nella sua lingua sconosciuta.
Li trapassi entrambi con un solo fendente. Il piccolo muore subito, il tempo di strozzare un ultimo vagito; l'agonia di lei dura qualche istante in più. Ma tu sei cieco, ormai.
Il capitano ti batte la mano sulla spalla. Senti appena la lama trafiggerti il dorso.
“Masada non sarà mai romana...”, è l'ultima frase che ti accompagna nell'ombra, oltre la quale un'ombra più densa ti attende.
Due anni, due mesi, due giorni, due ore...
“...tu e io... fratello...”
Ti svegli; la frase che hai pronunciato nel sonno ancora ti vibra in bocca.
Stretta al cuscino, Bliss borbotta qualcosa, muove un piede scalciando un rimasuglio di coperta, e riprende a russare.
Ti siedi sul bordo del letto e l'emicrania non ti dà il tempo di pensare a nulla. Scintille ti chiazzano la vista. Ti alzi con uno strappo e barcolli per raggiungere il bagno.
Mobiletto dei medicinali: due compresse in gola. Un po' le mastichi, un po' le mandi giù attaccandoti al rubinetto. “Ruggine e gesso, colazione perfetta”, commenti sarcastico. Il mal di testa continua a scalciare come un cavallo alla doma e ti appoggi al muro per svuotare la vescica.
Il tocco leggero delle sue mani sulla tua schiena. L'odore dolce e un po' aspro della pelle appena riemersa dal sonno. Bliss ti si stringe addosso e devi fare uno sforzo di concentrazione per non fare un macello sulla tazza. I capelli arruffati di lei ti pizzicano la spalla. Respira, in quel modo particolare che ha di respirare, come se dovesse risucchiare tutti gli odori della terra. Ti bacia poco al di sotto della nuca. Ti accorgi che il mal di testa è passato.
“Nottataccia?”, chiede, gli occhi socchiusi, mentre si accoscia sul water. Tu le fissi le gambe, le ginocchia che pungolano la pelle. Non sai perché, ma ti hanno sempre attratto le ginocchia nelle donne. Quei grumi di ossa che fanno prepotenza sotto la pelle.
Anche ora, ti inginocchi davanti a lei e le afferri le ginocchia con entrambe le mani. Ne senti la forza sotto i palmi. Bliss ti sorride obliqua. “Andiamo a letto”, fa, gettando la carta igienica nel water e tirando lo sciacquone in un gesto che pare una coreografia, tanto sono fluidi e conseguenti i movimenti.
La segui senza commentare.
Il cappuccino è morbido; appena un velo di marmellata di arancio sulla fetta biscottata integrale. Lei si sistema la camicia, il cordino nero che le stringe il colletto sulla punta bianca della gola forma un fiocchetto dal sorriso triste. Appunta la spilla sul petto, lisciando la sua immagine nel riflesso ovale dello specchio in anticamera.
Mastichi la tua fetta e le sorridi inarcando solo un angolo di bocca, quando entra pungendo le piastrelle con i suoi tacchi alti un pugno. Ti bacia proprio lì, su quell'angolo increspato. “Non strapazzarti”, sussurra. Le dita districano le onde scure dei capelli. Tu annuisci. La vedi scomparire nello specchio.
Il computer ronza e si avvia lentamente. Dovresti farlo controllare, ma l'idea che qualcuno ci metta mano ti infastidisce. E non hai mai fatto dei veri backup, chissà quante cose perderesti, pensi, cercando di ignorare che le perderesti comunque, se il computer si spegnesse all'improvviso piantandoti in asso.
Hai indossato jeans e una maglietta: la regola per lavorare bene da casa è: non farlo mai in pigiama. E anche se fa caldo, e vorresti startene in mutande a scrivere i tuoi articoli dozzinali sul balcone, non puoi. Non puoi se vuoi fare un buon lavoro. Che è quello per cui ti pagano. Un buon lavoro.
Controlli le mail, dai un'occhiata anche ai vari account. Verso le undici rinnovi il caffè. Scrivi ancora. L'emicrania non ti accarezza più con le sue code da murena.
Senti la chiave girare nella toppa, è quasi l'una. Ti fermi a metà di una frase. “Bliss?”, chiedi. Anche se sai che chiaramente non può essere lei. Sposti la sedia piano, cercando di non far rumore. Ti alzi.
La porta si apre.
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Nello specchio ovale dell'anticamera compare il tuo profilo, poi la tua schiena. Lui (tu) vi osservate per un lungo minuto.
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try change y to x to y to x to...
...
Il cellulare di entrambi squilla nello stesso momento.
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Senza smettere di fissarvi, rispondete nello stesso momento.
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return -1;
La voce al telefono dice: “Svegliati”.
Due anni, due mesi, due giorni, tre ore...
Il dottore dice “Svegliati”, ma sei già sveglio. Vedi un mondo che non riconosci più. Alle finestre, strani uccelli dai corpi ricoperti di squame e musi da lucertola ti spiano.
Bliss arrotola la lingua attorno alla tua testa; saggia le zecche bianche che ti mordono le tempie e le rimuove con estrema cautela. Avverti appena un leggero pizzicore alla radice degli occhi.
Il dottore dice “Svegliati”, ma sei già sveglio.
“Dove sono?”, domandi intontito.
Alle spalle del dottore, Bliss ti scruta come farebbe con un insetto sotto una lente d'ingrandimento. Tuo fratello è accanto a te. Il colore della sua faccia non ti piace per nulla. Grigia come cenere, gialla nei punti dove la pelle si tende. Immobile.
“Che gli... Che ci avete fatto?”, domandi strozzato da un singhiozzo.
Il dottore protende le labbra e scrolla la testa. “Non sempre i test vanno come dovrebbero”, sospira.
“Test?”, ripeti. Confuso, ricordi un annuncio letto mentre passavate accanto alla clinica.
Ricordi anche che qualcuno, fermandosi di colpo per strada, vi ha urlato: mostri! Ma non ci avete dato molto peso: avete smesso di preoccuparvi del disgusto degli altri da molto, molto tempo.
L'annuncio era rivolto ai fratelli, con preferenza per i gemelli. E chi avrebbe potuto dirsi più fratello, più gemello di voi due?
Vi siete guardati, non c'è stato neppure bisogno di parlarne: avete solo mosso i piedi, spostando l'unico corpo che vi univa verso le porte a vetro della clinica.
“Ricorda?”, chiede Bliss. Tu la osservi e lei ti sorride come sorriderebbe a chiunque altro in quella stanza. Dalle labbra si affaccia il tentacolo che le raspa via pezzi di viso; le strappa il naso e lo porta alle labbra mutilate. Denti lunghi come dita masticano la cartilagine con schiocchi voluttuosi.
Scuoti la testa finché l'immagine non scompare. “Cosa... cosa ...”, non riesci a parlare.
Il dottore sbuffa: “Studi sul sonno... sul sogno...”, ha l'aria di non voler dire molto di più. Si arresta e ti fissa, un sopracciglio inarcato. “Davvero non ricorda?”
“Molto poco”.
“Interessante. Diciamo così: tecnicamente voi due non vi siete mossi da questo lettino, ma avete viaggiato in una molteplicità di luoghi ed epoche molto lontane nel tempo e nello spazio. I nostri studi...”
“Per quanto?”, lo interrompi.
“Quanto previsto dal contratto”.
Una mano fantasma sembra volerti strappare gli occhi dal cervello e ti ritrovi con la mandibola serrata, i denti scricchiolano per la contrazione. Bliss si avvicina ma la ricacci indietro.
“Lui... perché...”, con la mano destra indichi la testa di Mattia e nel frattempo ti rendi conto che non senti più il lato sinistro del corpo.
La faccia del dottore si rattrista. C'è anche un po' di stizza nella sua voce. “Nell'ultima proiezione, quando è avvenuto lo scambio, qualcosa non ha...”
“Scambio?!”, urli e il lato destro del tuo corpo scatta, ma non sono che pochi centimetri di azione. Poi le cinghie contenitive ti ricacciano sul lettino.
“Cerchi di capire: è appena uscito da una lunga sessione. Deve calmarsi”, ti rimprovera il dottore.
Ansimi. Ti senti molto stanco, molto debole. Sprazzi di quello che è accaduto ti infestano la memoria: le spiegazioni del dottore, il denaro, i colloqui, i sogni...
“Ho...”, cominci a parlare e ti blocchi. Devi capire come articolare la domanda. Una domanda che non sai neppure se desideri fare. Deglutisci saliva che ha un sapore strano, come se appartenesse alla bocca di un altro. “Dove... Dov'è...?”, strizzi gli occhi con tanta forza che sembrano sprofondare nelle orbite. “Chi?” domandi alla fine.
E fissi il dottore e Bliss.
Ed entrambi ora ti sembrano figure molto lunghe, sproporzionate, dalle braccia impotenti, che ti fissano con occhi molto larghi, fondi come lo spazio.
“Io... chi sono io?”, chiedi ancora, mentre un infermiere arrivato da chissà dove distende un lenzuolo bianco sulla faccia di tuo fratello. E la tua voce si perde sotto quello spazio bianco, in una luce, spessa come cotone, nella quale affoghi...
Due anni, tre mesi, ventinove giorni, ventitré ore...
Il dottore dice: “Svegliati”.
Ma sei già sveglio.
Non sai dove ti trovi.
Il dottore dice: "Svegliati" e tu apri gli occhi; i timpani vibrano di suoni arcani che scheggiano i neuroni.
Non capisci le voci che ti stanno parlando.
Il dottore dice: "Svegliati", ma tu sei già sveglio.
Una pellicola morbida e sottile tra te e le cose che ti circondano.
Forme strane e allungate, assomiglianti a corpi carbonizzati tesi nello sforzo di raggiungere il sole, si muovono attorno al tuo campo visivo. Ti scrutano, all'interno della bolla in cui sei rinchiuso, con quegli occhi fondi, neri come lo spazio e trapunti di piccoli globi ammiccanti. Vita nella vita che ti osserva, ti desidera. Si protende verso di te...
Tre mesi, dodici giorni, ventidue ore...
La ragazza batte i piedi sul pavimento, le mani artigliate al sedile della poltrona. Si guarda le ginocchia magre magre e intanto mastica una gomma.
Interrompe il ciondolare dei piedi a metà di un arco. Si volta: "È tanto che aspetti?".
Mattia ricambia lo sguardo. Lei non mostra più di sedici anni e ne è stupito: non pensava ne accettassero di così giovani. La casacca bianca le stringe il collo come una manetta. Ha una spilla a forma d'uovo appuntata sul lato destro del petto.
La guarda e pensa che non sa cosa rispondere alla sua domanda. Da quanto tempo è in attesa? Si gratta la guancia ispida. Ieri la barba era più folta, pensa strizzando gli occhi, ma non ricorda quando si è rasato.
Scrolla la testa: "Non lo so", mormora.
Lei continua a fissarlo. Una smorfia le contrae la faccia.
"Capisco", fa poi, riprendendo a oscillare i piedi. Struscia la S prolungandone il suono, come se il palato fosse di ghiaccio. È evidente che non gli crede.
Mattia è tentato di aggiungere qualcosa. Ma la ragazzina viene chiamata; salta giù dalla sedia e si allontana, nella sua casacchina bianca, scomparendo alla sua sinistra, dietro una porta di vetro smerigliato dove figure nere e confuse si allungano.
Mattia gioca con i lacci che gli pendono dalla testa. Zecche bianche e piatte gli mordono le tempie.
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"È tanto che aspetti?"
La donna si liscia un'unghia spezzata, laccata di rosso, sul bordo della tunica. Un po' di rughe si diramano dal mento e scompaiono nello spacco a V del colletto sbottonato. Una spilla a forma d'uovo appuntata sul lato sinistro del petto. Non lo guarda.
Matteo gioca con i lacci che gli pendono dalla testa, mentre zecche bianche e piatte gli mordono le tempie. Si strofina con la mano le guance. La barba è lunga e sporca di quella crema insipida che ha presto imparato a chiamare "cena".
"No, non troppo", mormora.
La donna sbuffa, si alza di scatto. La porta di vetro si apre quel tanto che le permette di entrare, lasciandolo solo nella sala d'attesa.
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"Può entrare..." lo scuote un'infermiera, ricacciandolo indietro dal torpore nel quale era scivolato. L'infermiera ha capelli scuri e un sorriso meccanico che non ne intacca la bellezza. Lo afferra per il braccio, costringendolo ad alzarsi.
“Il dottore la sta aspettando”, sibila, mentre dalla fessura delle labbra una lingua tentacolare si dilunga e decine di peduncoli si sporgono verso la faccia di Mattia contratta in un urlo privo di voce.
Nove mesi, ventitré giorni, cinque ore...
Annaspi in un pantano; enormi creature fanno tuonare la terra a ogni passo.
Ti agiti quando la terra ti risucchia indietro con desiderio, e raspi il fango una bracciata per volta. Occhi gialli ti spiano da felci gigantesche. Insetti smisurati ti assediano, saggiando il sapore del tuo sangue.
La sponda si avvicina, un metro alla volta, illuminata da un centinaio di luci verdastre che galleggiano sul bordo.
La sponda si a
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La sponda si allontana, trascinandosi dietro le sue luci d'inganno; quelle luci che hai seguito, camminando tra edere velenose e alte lingue d'erba che ti sferzavano taglienti, mentre ti nascondevi dalle cose che ti davano la caccia.
Una bracciata dopo l'altra, senti i muscoli intorpidirsi, i polmoni cedere alla fatica.
Il fango ha costruito una corazza attorno alle tue braccia che, lunghe e sformate, ora sporgono dalla pozza con sempre minore frequenza. Finché non vedi più né la sponda, né le luci. Finché il fango non ti circonda e ne respiri lunghe sorsate e continui a nuotare, spingendoti verso il fondo
Undici mesi, diciotto giorni, un'ora...
Nessuna infermiera nei paraggi.
Matteo si alza, circospetto. Tenta di strapparsi le zecche dalle tempie, ma è come se si stesse cavando gli occhi dall'interno, così rinuncia. Si guarda intorno. Il corridoio è lungo e stretto. Si spacca in quattro direzioni, formando una croce. A loro volta, le diramazioni si spezzano in ulteriori crocifissi.
Per non passare davanti alla porta a vetri, dove le forme si allungano nere e silenziose, Matteo sceglie la ramificazione alla sua sinistra. Ma fa pochi passi e si accorge che camminare gli è pesante: come se qualcuno gli avesse stretto attorno alle caviglie dei blocchi di cemento. Abbassa lo sguardo. I piedi affondano nel pavimento, lentamente, tutto il suo corpo affonda. Prova a voltarsi,
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a tornare indietro. Il pavimento gli è già all'anca. Poi attorno alla vita.
Ora Mattia nuota. Non grida per non richiamare l'infermiera carina dalla lingua tentacolare. Il pavimento gli solletica il pomo d'Adamo. Prende un lungo respiro e si lascia affogare.
Un anno, un mese, sei giorni, quindici minuti...
“Le sezioni coinvolte nell'esperimento...”
Con una lunga bacchetta d'osso che sembra il prolungamento del suo dito indice, il medico illustra una sezione di cervello sul monitor. Mattia segue i movimenti del dottore con lo sguardo, la testa bloccata dal supporto di metallo. Con la coda dell'occhio può vedere la porzione superiore della calotta cranica rimossa e appoggiata in una bacinella di acciaio colma di ghiaccio. Accanto a questo primo contenitore ce n'è un altro. E un'altra calotta cranica sta immersa nel ghiaccio.
“Mi sta seguendo?”, domanda il dottore arrestandosi a metà della lezione.
Mattia articola una risposta. “S...sì”.
Il medico, soddisfatto, riprende.
“Queste aree indicano chiaramente che...”, si ferma. Dà un'occhiata a Mattia, torna all'immagine. Mattia sente qualcosa di freddo giocare nella sua testa. Non prova dolore, solo una leggera pressione, un fastidio ideale. Lo scoppio di una scintilla e si ritrova a sghignazzare, senza volerlo. “Vede? Questo non dovrebbe accadere”, commenta disgustato il medico. Un altro schiocco. Ora, assieme alla risata, che non sembra provenire da lui, Mattia sente gli occhi umidi di pianto. “Già meglio”.
Sul monitor può vedere la sezione pulsante del suo cervello, di un colore rosa gentile, come petali carnosi di un anemone. Una lunga canna d'acciaio scintilla su quella massa morbida, duttile e umida. Un altro schiocco e la sua voce grida senza che lui sappia di aver gridato. Un grido gli fa eco. Le labbra del dottore si assottigliano e si allungano, si tendono verso di lui, come un becco molle e palpitante di minuscole bocche che dicono: “Siete pronti per il test”.
Un anno, sei mesi, due giorni, ventuno ore...
La vedi la prima volta davanti al negozio di dischi che fissa la vetrina e si tira la gonna troppo corta sulle gambe troppo magre. La sua immagine si riflette su un poster dei Beatles che reclamizza il loro ultimo album. Indossa calzettoni bianchi arricciati alle caviglie e buffe scarpe nere dalla suola di gomma. Un pullover pastello sulla gonna nera. Lei si volta, quando si accorge che ti sei avvicinato. Ti squadra, masticando lentamente una gomma.
Ha occhi piccoli e un modo particolare di arricciare la faccia quando contrae la bocca.
...test incoming...
change y to x
.run...
Non puoi dire ora perché ti abbia colpito. Non è una bella ragazza, non avrà neppure diciassette anni. Carina, forse. Probabilmente lei immagina di essere carina. A quell'età tutte si ritengono carine. Ma qualcosa, nel suo modo di tirare la gonna, di spalmare la faccia contro la vetrina mentre infilava una gomma in bocca ti ha incuriosito.
Continui a fissarla, mentre fai scorrere il dito sui vinili. Lei non ti nota neppure, assorbita dal poster. Nel negozio passano un pezzo che non conosci dal quale ti lasci trasportare, oscillando sui giri di basso
Due anni, due mesi due giorni, due ore...
Il sole si spacca sulla lama affilata della tua spada. Il giorno è appena sorto, ma la tristezza che ti rode dentro non trova conforto nella sua luce.
Hai passato la notte ad aggirarti per il camminamento, mentre attorno a te si levavano le voci di chi aveva già bevuto e affondato la spada. Le grida di chi non aveva scampo.
“Bevi”, ti ha offerto per due volte il tuo capitano. “Bevi”, ha insistito. Ma tu non sei stato in grado di buttare giù neppure un sorso. Hai camminato, avanti e indietro. Sopra e sotto le mura. Nei sotterranei che si snodano come un labirinto sotto la città, portando alle cisterne e ai granai.
Hai camminato, sperando che il giorno non arrivasse mai.
Ma il giorno è arrivato.
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Il giorno è arrivato.
Cammini in una piazza lorda di sangue. Tra braccia bianche che si sollevano in forme inaccettabili, verso un sole che non le riscalderà più. Tra mani giunte in suppliche che il vostro Dio ha masticato e sputato con disprezzo.
Cammini e ogni passo è una condanna.
Cammini, e ogni passo ti trascina un po' di più in quella fanghiglia rossa e viscida.
Lei ti aspetta nella vostra casa, piantonata dal capitano.
Lei ti aspetta, rannicchiata sul letto che tante volte vi ha stretti nell'amore.
Contro il suo petto nudo, il piccolo nato da poche settimane strofina il nasino a punta mentre succhia con avidità, inconsapevole di quanto poco potrà giovargli, tra breve, quel latte.
Dietro un velo di lacrime sollevi la spada.
Lei sussulta e ti rivolge una coppia di occhi insieme dolenti e rabbiosi.
“Ti prego... non farlo. Non” dice nella sua lingua sconosciuta.
Li trapassi entrambi con un solo fendente. Il piccolo muore subito, il tempo di strozzare un ultimo vagito; l'agonia di lei dura qualche istante in più. Ma tu sei cieco, ormai.
Il capitano ti batte la mano sulla spalla. Senti appena la lama trafiggerti il dorso.
“Masada non sarà mai romana...”, è l'ultima frase che ti accompagna nell'ombra, oltre la quale un'ombra più densa ti attende.
Due anni, due mesi, due giorni, due ore...
“...tu e io... fratello...”
Ti svegli; la frase che hai pronunciato nel sonno ancora ti vibra in bocca.
Stretta al cuscino, Bliss borbotta qualcosa, muove un piede scalciando un rimasuglio di coperta, e riprende a russare.
Ti siedi sul bordo del letto e l'emicrania non ti dà il tempo di pensare a nulla. Scintille ti chiazzano la vista. Ti alzi con uno strappo e barcolli per raggiungere il bagno.
Mobiletto dei medicinali: due compresse in gola. Un po' le mastichi, un po' le mandi giù attaccandoti al rubinetto. “Ruggine e gesso, colazione perfetta”, commenti sarcastico. Il mal di testa continua a scalciare come un cavallo alla doma e ti appoggi al muro per svuotare la vescica.
Il tocco leggero delle sue mani sulla tua schiena. L'odore dolce e un po' aspro della pelle appena riemersa dal sonno. Bliss ti si stringe addosso e devi fare uno sforzo di concentrazione per non fare un macello sulla tazza. I capelli arruffati di lei ti pizzicano la spalla. Respira, in quel modo particolare che ha di respirare, come se dovesse risucchiare tutti gli odori della terra. Ti bacia poco al di sotto della nuca. Ti accorgi che il mal di testa è passato.
“Nottataccia?”, chiede, gli occhi socchiusi, mentre si accoscia sul water. Tu le fissi le gambe, le ginocchia che pungolano la pelle. Non sai perché, ma ti hanno sempre attratto le ginocchia nelle donne. Quei grumi di ossa che fanno prepotenza sotto la pelle.
Anche ora, ti inginocchi davanti a lei e le afferri le ginocchia con entrambe le mani. Ne senti la forza sotto i palmi. Bliss ti sorride obliqua. “Andiamo a letto”, fa, gettando la carta igienica nel water e tirando lo sciacquone in un gesto che pare una coreografia, tanto sono fluidi e conseguenti i movimenti.
La segui senza commentare.
Il cappuccino è morbido; appena un velo di marmellata di arancio sulla fetta biscottata integrale. Lei si sistema la camicia, il cordino nero che le stringe il colletto sulla punta bianca della gola forma un fiocchetto dal sorriso triste. Appunta la spilla sul petto, lisciando la sua immagine nel riflesso ovale dello specchio in anticamera.
Mastichi la tua fetta e le sorridi inarcando solo un angolo di bocca, quando entra pungendo le piastrelle con i suoi tacchi alti un pugno. Ti bacia proprio lì, su quell'angolo increspato. “Non strapazzarti”, sussurra. Le dita districano le onde scure dei capelli. Tu annuisci. La vedi scomparire nello specchio.
Il computer ronza e si avvia lentamente. Dovresti farlo controllare, ma l'idea che qualcuno ci metta mano ti infastidisce. E non hai mai fatto dei veri backup, chissà quante cose perderesti, pensi, cercando di ignorare che le perderesti comunque, se il computer si spegnesse all'improvviso piantandoti in asso.
Hai indossato jeans e una maglietta: la regola per lavorare bene da casa è: non farlo mai in pigiama. E anche se fa caldo, e vorresti startene in mutande a scrivere i tuoi articoli dozzinali sul balcone, non puoi. Non puoi se vuoi fare un buon lavoro. Che è quello per cui ti pagano. Un buon lavoro.
Controlli le mail, dai un'occhiata anche ai vari account. Verso le undici rinnovi il caffè. Scrivi ancora. L'emicrania non ti accarezza più con le sue code da murena.
Senti la chiave girare nella toppa, è quasi l'una. Ti fermi a metà di una frase. “Bliss?”, chiedi. Anche se sai che chiaramente non può essere lei. Sposti la sedia piano, cercando di non far rumore. Ti alzi.
La porta si apre.
..test incoming...
change x to y
.run...
Nello specchio ovale dell'anticamera compare il tuo profilo, poi la tua schiena. Lui (tu) vi osservate per un lungo minuto.
...system error...
try change y to x to y to x to...
...
Il cellulare di entrambi squilla nello stesso momento.
...system error...
try y=x
.run...
Senza smettere di fissarvi, rispondete nello stesso momento.
...system error...
return -1;
La voce al telefono dice: “Svegliati”.
Due anni, due mesi, due giorni, tre ore...
Il dottore dice “Svegliati”, ma sei già sveglio. Vedi un mondo che non riconosci più. Alle finestre, strani uccelli dai corpi ricoperti di squame e musi da lucertola ti spiano.
Bliss arrotola la lingua attorno alla tua testa; saggia le zecche bianche che ti mordono le tempie e le rimuove con estrema cautela. Avverti appena un leggero pizzicore alla radice degli occhi.
Il dottore dice “Svegliati”, ma sei già sveglio.
“Dove sono?”, domandi intontito.
Alle spalle del dottore, Bliss ti scruta come farebbe con un insetto sotto una lente d'ingrandimento. Tuo fratello è accanto a te. Il colore della sua faccia non ti piace per nulla. Grigia come cenere, gialla nei punti dove la pelle si tende. Immobile.
“Che gli... Che ci avete fatto?”, domandi strozzato da un singhiozzo.
Il dottore protende le labbra e scrolla la testa. “Non sempre i test vanno come dovrebbero”, sospira.
“Test?”, ripeti. Confuso, ricordi un annuncio letto mentre passavate accanto alla clinica.
Ricordi anche che qualcuno, fermandosi di colpo per strada, vi ha urlato: mostri! Ma non ci avete dato molto peso: avete smesso di preoccuparvi del disgusto degli altri da molto, molto tempo.
L'annuncio era rivolto ai fratelli, con preferenza per i gemelli. E chi avrebbe potuto dirsi più fratello, più gemello di voi due?
Vi siete guardati, non c'è stato neppure bisogno di parlarne: avete solo mosso i piedi, spostando l'unico corpo che vi univa verso le porte a vetro della clinica.
“Ricorda?”, chiede Bliss. Tu la osservi e lei ti sorride come sorriderebbe a chiunque altro in quella stanza. Dalle labbra si affaccia il tentacolo che le raspa via pezzi di viso; le strappa il naso e lo porta alle labbra mutilate. Denti lunghi come dita masticano la cartilagine con schiocchi voluttuosi.
Scuoti la testa finché l'immagine non scompare. “Cosa... cosa ...”, non riesci a parlare.
Il dottore sbuffa: “Studi sul sonno... sul sogno...”, ha l'aria di non voler dire molto di più. Si arresta e ti fissa, un sopracciglio inarcato. “Davvero non ricorda?”
“Molto poco”.
“Interessante. Diciamo così: tecnicamente voi due non vi siete mossi da questo lettino, ma avete viaggiato in una molteplicità di luoghi ed epoche molto lontane nel tempo e nello spazio. I nostri studi...”
“Per quanto?”, lo interrompi.
“Quanto previsto dal contratto”.
Una mano fantasma sembra volerti strappare gli occhi dal cervello e ti ritrovi con la mandibola serrata, i denti scricchiolano per la contrazione. Bliss si avvicina ma la ricacci indietro.
“Lui... perché...”, con la mano destra indichi la testa di Mattia e nel frattempo ti rendi conto che non senti più il lato sinistro del corpo.
La faccia del dottore si rattrista. C'è anche un po' di stizza nella sua voce. “Nell'ultima proiezione, quando è avvenuto lo scambio, qualcosa non ha...”
“Scambio?!”, urli e il lato destro del tuo corpo scatta, ma non sono che pochi centimetri di azione. Poi le cinghie contenitive ti ricacciano sul lettino.
“Cerchi di capire: è appena uscito da una lunga sessione. Deve calmarsi”, ti rimprovera il dottore.
Ansimi. Ti senti molto stanco, molto debole. Sprazzi di quello che è accaduto ti infestano la memoria: le spiegazioni del dottore, il denaro, i colloqui, i sogni...
“Ho...”, cominci a parlare e ti blocchi. Devi capire come articolare la domanda. Una domanda che non sai neppure se desideri fare. Deglutisci saliva che ha un sapore strano, come se appartenesse alla bocca di un altro. “Dove... Dov'è...?”, strizzi gli occhi con tanta forza che sembrano sprofondare nelle orbite. “Chi?” domandi alla fine.
E fissi il dottore e Bliss.
Ed entrambi ora ti sembrano figure molto lunghe, sproporzionate, dalle braccia impotenti, che ti fissano con occhi molto larghi, fondi come lo spazio.
“Io... chi sono io?”, chiedi ancora, mentre un infermiere arrivato da chissà dove distende un lenzuolo bianco sulla faccia di tuo fratello. E la tua voce si perde sotto quello spazio bianco, in una luce, spessa come cotone, nella quale affoghi...
Due anni, tre mesi, ventinove giorni, ventitré ore...
Il dottore dice: “Svegliati”.
Ma sei già sveglio.