L'acchiappasogni - di M.R. Del Ciello
Inviato: venerdì 14 luglio 2017, 19:07
L’acchiappasogni
Anno 450 dell’Era Post Nucleare (EPN)
In seguito a una violenta esplosione nucleare nel centro dell’Africa, avvenuta nell’anno zero dell’EPN, una pioggia radioattiva si è abbattuta per mesi su tutte le regioni del pianeta Terra.
A distanza di secoli la popolazione ha ricominciato una nuova vita e la società è ora diffidente dalla ricerca scientifica e più attenta al controllo della legalità.
Le radiazioni, che all’inizio hanno provocato la morte di molte persone, continuano nel tempo a causare gravi danni a tutti gli esseri viventi e gli effetti negativi si diffondono anche nelle generazioni future.
Le nuove generazioni nascono ancora presentando mutilazioni e deformità a causa dei mutamenti nel DNA dovuti alle radiazioni.
Ma le mutilazioni non sono solo fisiche. Ci sono anche quelle che non si vedono…
1.
La saracinesca era abbassata quel tanto che permetteva, chinando leggermente la schiena, di poter entrare. Sonia esitò, poi si fece coraggio e si affacciò nel locale buio.
La luce accecante del sole all’esterno la rese cieca per alcuni istanti. Poi, pian piano, la sua vista si abituò e riuscì a distinguere chiaramente due figure, di spalle, in fondo al locale.
Le due sagome si voltarono contemporaneamente nell’udire lo scricchiolio dei suoi passi sul pavimento di cemento. Una delle due, una donna, nel vederla spalancò gli occhi e la bocca in un’espressione di sorpresa.
- Sonia! Sei tornata! Non ci posso credere. – E zoppicando le si avvicinò.
Già, neanche Sonia riusciva a credere ai suoi occhi. Anna sembrava sempre uguale. Nulla era cambiato in lei, a cominciare da quel difetto congenito all’anca, per arrivare al volto, senza neanche una ruga. Quasi che il tempo per lei non fosse mai trascorso.
Proprio quella donna, anni prima, era stata una sua cara amica. Poi le loro strade si erano separate quando i genitori di Sonia, scoperta l’attività segreta di Anna, le avevano impedito di continuare a frequentarla.
Sonia era stata docile, all’epoca. Aveva seguito le indicazioni dei suoi familiari e ancora oggi si chiedeva se l’avesse fatto per amore dei suoi cari o solo per vigliaccheria, per non osare confessare certe curiosità, tipiche dei giovani della Nuova Era, che l’amica sapeva sempre solleticare.
Ora erano lì, una di fronte all’altra, e Sonia pensò che non era il momento di pensare al passato.
Perlomeno non in quel modo.
2.
- Due giorni. Cinque minuti valgono due giorni. – Anna pronunciò quelle parole con distacco, senza neanche guardarla negli occhi.
Sonia era sicura che ce l’avesse ancora con lei. E che seppur contenta di rivederla, non riuscisse a nascondere quel moto di disappunto per non essersi mai chiarite abbastanza sulla loro antica separazione. Ma Anna era orgogliosa e mai le avrebbe confessato un sentimento simile. Per ora si limitava a mostrarsi fredda e, superata la sorpresa iniziale, continuò a rivolgersi a lei come fosse una perfetta estranea. – Pagamento in anticipo.
- Cosa ne fate del mio tempo?
- Quello è affar nostro. – La risposta non dava adito a repliche. Prendere o lasciare.
- Posso farlo subito? – chiese Sonia, tradendo nella voce un po’ di impazienza.
- Prima si paga, qui.
- Spiegami cosa devo fare. Non mi importa il prezzo.
Anna allora la fece accomodare su una sedia in fondo al locale alla quale era attaccato un computer e alcuni monitor che registravano le funzioni vitali delle persone.
- Con questo apparecchio ti preleviamo i giorni che ci spettano e, subito dopo, un ago ti inietta la sostanza magica. Quella che ti farà sognare per qualche minuto.
Sonia fece cenno di sì con la testa e si sedette.
Le infilarono un braccialetto al polso sinistro e Sonia sentì un lieve bruciore attraversarle la pelle.
Su uno degli schermi comparve una scritta che indicava le quarantotto ore in detrazione e l’accredito dei cinque minuti di seduta.
- Ora puoi alzarti. Andiamo sul retro. È lì che lo farai.
3.
Sonia seguì Anna in silenzio, massaggiandosi piano il polso che le doleva un po’.
Una porta a scomparsa si aprì sul fondo del locale e dopo aver percorso un breve e stretto corridoio si ritrovarono in una stanza illuminata a giorno da alcune plafoniere al neon.
Al centro, un letto di metallo era racchiuso in una capsula di vetro. A un comando vocale di Anna la capsula si aprì con un sibilo e Sonia fu invitata a entrarvi.
- Sdraiati e indossa il casco che trovi alla tua destra. Poi chiudi gli occhi e conta fino a dieci.
- Siamo sicuri che andrà tutto bene? – chiese Sonia nervosa. Per anni aveva immaginato quella cosa, senza mai riuscire ad avere il coraggio di farla. Aveva invidiato gli amici che le raccontavano di esperienze oniriche straordinarie, tutto chiaramente illegale, e lei aveva sempre giustificato la sua rinuncia con il rispetto delle regole. Regole ferree che, in casa sua, non ammettevano certe esperienze, per così dire, estreme. C’era sempre il rischio, come diceva suo padre, di diventare dipendenti e allora, cosa ne sarebbe stato di lei? Avrebbe consumato i suoi giorni e la sua vita solo per godere dell’esaltazione di pochi momenti?
- Certo che andrà tutto bene. Siamo dei professionisti, cosa credi? – poi la voce di Anna sembrò farsi più calda e dolce. Le si avvicinò, le carezzò i capelli biondo cenere: - Stai tranquilla Sonia. Non c’è nessun pericolo.
La capsula si richiuse con un altro sibilo e Sonia cominciò a contare.
Uno…
Sonia vide Anna allontanarsi piano da lei, con quel suo claudicare che le aveva sempre fatto un po’ di tenerezza.
Due…
Anna entrò in un vano più piccolo, adiacente alla stanza, da cui poteva osservarla attraverso un vetro.
Tre…
Sonia si chiese, in quel momento, se stava facendo la cosa giusta. Era la prima volta per lei e le riaffiorarono tutte le paure che suo padre le aveva inculcato, anni prima, per tenerla lontana da quel tipo di esperienze.
Quattro…
Sonia pensò che ormai non c’era più tempo per tornare indietro.
Cinque…
I suoi occhi si chiusero.
Un prato verde brillante si allargò davanti a lei. Ne riusciva a sentire la frescura sotto la pianta dei piedi, e poi fiori di tutti i colori, alberi e piante mai conosciute. Udì un rumore continuo accompagnarla durante il cammino e scoprì che un piccolo ruscello scorreva parallelo al suo percorso.
Il cielo era limpido, solcato dal volo di uccelli anch’essi variopinti. Tutto aveva un’aria così serena e straordinariamente rilassante. Mentre andava, curiosa osservando le immense bellezze che la circondavano, scorse una figura in lontananza che sembrava venire verso di lei. Si avvicinò, non abbastanza da poterla riconoscere, ma potè udire la sua voce in lontananza, come un richiamo, e vide che agitava un braccio nell’aria quasi a volerla salutare.
Sonia riaprì gli occhi e udì di nuovo quel sibilo.
Quando riemerse dal suo nuovo sonno riuscì finalmente a comprendere cosa aveva significato per tanti anni rinunciare a quella parte di vita. Intangibile, ma sempre vita.
Ma chi era quella figura che aveva incontrato? Le era sembrata una donna, conosciuta, dall’aria familiare, eppure non ne aveva distinto per bene i lineamenti. La voce, quella l’aveva in parte riconosciuta ma non credeva fosse possibile. Dopo così tanto tempo, non poteva crederci.
4.
Sonia non era soddisfatta. La scoperta che potessero esistere sonni in cui era possibile sognare la eccitava molto. Ne aveva sempre sentito parlare ma sapeva anche che, da quando le radiazioni avevano colpito il pianeta, gli esseri umani avevano perso quella capacità.
Con il tempo la scienza aveva studiato molecole e strumenti in grado di riprodurre quell’antica capacità dell’uomo ma sempre qualcosa si era opposto a una legalizzazione della sua diffusione. Problemi di ordine legale, sanitari e addirittura di ordine pubblico avevano sempre ostacolato la pratica lecita di quelle esperienze. Per questo alcuni scienziati e studiosi, tra i quali la sua amica Anna, svolgevano da sempre tale attività nella più completa clandestinità.
Sebbene soddisfatta, Sonia sentiva però che quel sogno appena fatto non era completo, mancava qualcosa.
Per questo volle riprovare più volte: per capire chi fosse quella figura che aveva visto salutarla da lontano. Una curiosità infantile, si disse, in fondo si trattava solo di un sogno, un’immagine onirica che nulla poteva avere a che fare con la realtà. Però quella curiosità con il passare del tempo si fece strada in lei con una insistenza e intensità sempre maggiore.
Tornò diverse volte da Anna ma ogni volta il sogno era diverso e sebbene la sensazione di pace e serenità della prima volta si riproponesse invariata, quella donna non l’aveva più rincontrata.
Oramai aveva speso molto tempo a inseguire un’immagine che sperava ogni volta di riuscire a vedere con maggiore nitidezza.
Si era giocata anni della sua vita per rincorrere un sogno.
Finché arrivò il giorno.
5.
Sonia si stese nel giaciglio metallico, la capsula si chiuse con il solito sibilo e lei contò fino a dieci.
La vide.
Il suo volto, finalmente definito alla luce di un sole caldo e benevolo, sembrava trasmettere sensazioni che Sonia non provava da tempo. Tenerezza, certo, ma anche gioia e un senso di pace mai provati prima.
- Mamma! – esclamò Sonia. – Cosa ci fai qui?
- Sonia! Amore mio, torna a casa, ti prego. Non sprecare il tuo tempo qui.
- È tanto tempo che non ti vedo. Sembri ringiovanita.
- Non ho molto tempo. Sto cercando papà…
- Ma papà è morto. Tu sei morta.
- Non è morto. Non siamo morti. Credo che lui sia rimasto intrappolato qui dentro. Forse si è perso. Gli acchiappasogni non hanno funzionato.
Sonia si svegliò. I suoi minuti erano terminati e lei, questa volta, si sentì peggio che mai.
Tornò a casa, stavolta insoddisfatta perché l’interrogativo iniziale si era trasformato in un enigma molto più complesso e le domande alle quali voleva risposte erano sempre più complicate e difficili.
I suoi genitori erano stati protagonisti del suo sogno. E dalle parole di sua madre le sembrò di capire che forse anche loro avevano ceduto alla curiosità di provare un sonno popolato da sogni.
Ma si trattava solo di un sogno, in fondo. Non poteva certo credere e interpretare la sua vita passata sulla base di immagini e sensazioni indotte da un macchinario e chissà quale sostanza chimica.
Fu questo che la convinse a parlare con Anna.
6.
Questa volta però, al solito posto, la saracinesca era chiusa. Sonia si sentì perduta, sentì nelle vene attraversarla una strana smania, come quando non si fuma da tempo e il corpo richiede la sua dote giornaliera di nicotina. Poi sentì una voce alle sue spalle.
- Ciao, ancora qui? – era Anna, in sella a una bicicletta.
- Perché è chiuso? – Sonia indicò la saracinesca.
- Eh, mia cara. I reazionari ci danno la caccia. La legge si è fatta più stringente. Se ci beccano questa volta venti anni di carcere non ce li toglie nessuno. Così abbiamo deciso di stare buoni per un po’. Magari ci spostiamo in un altro paese…
- Ma come? Proprio ora?
- Perché, ora che succede? Vedo che ti sta piacendo la cosa. – Il tono di Anna era di scherno e a Sonia la cosa non piacque.
- Tu non capisci. Ho visto mia madre.
Anna si irrigidì, il suo atteggiamento scanzonato mutò in una smorfia seria di preoccupazione.
- Certo che l’hai vista.
- Cosa vuol dire? Tu sai qualcosa che io non so?
- Perché credi che loro ti abbiano allontanato da me?
- Non lo so. All’epoca ero solo una ragazza. Credo mi volessero proteggere dai rischi di un’assuefazione. E ora riesco a comprendere. Forse avevano ragione.
Anna scese dalla bicicletta e la fece scivolare per terra. - Dicono che faccia bene alla mia gamba pedalare. – Poi si sedette sul gradino del marciapiede, proprio davanti la saracinesca chiusa, le gambe stese davanti a lei. Alzò lo sguardo verso l’amica in piedi e le fece cenno di sedersi accanto. Tirò fuori del tabacco e si arrotolò una sigaretta.
- Tuo padre è morto dopo aver speso gli ultimi anni di vita in questi sonni particolari. Era una specie di cavia.
- Io credevo fosse malato di cancro.
- Sì, infatti. Gli era stata diagnosticata un grave neoplasia cerebrale e lui decise di offrire il suo corpo alla sperimentazione. Perciò veniva qui una volta al mese. All’inizio. Poi volle intensificare e ci cominciò a far visita ogni settimana, finché, negli ultimi tempi veniva tutti i giorni.
- Ma perché? A quale scopo?
- Perché volevamo testare le nostre macchine e anche le molecole prodotte in clandestinità. Volevamo che i sogni, sebbene indotti con forti dosi di una sostanza a base di dopamina, non presentassero controindicazioni per le persone e si avvicinassero il più possibile alle esperienze oniriche del passato. Quelle spontanee, per intenderci. E tuo padre si convinse ad aiutarci.
- E mia madre? Cosa c’entra in questa storia?
- Tua madre è sempre stata contraria. Per questo tuo padre ha sempre agito di nascosto, almeno all’inizio. Finché non ha potuto più nascondere le sue uscite clandestine e allora lei ha perso la testa. Ha cominciato a costruire quegli aggeggi, gli acchiappasogni, come li chiamava lei, perché diceva che tuo padre aveva cominciato ad avere gli incubi. Assurdità! La gente non sogna più da secoli, figuriamoci se lui era in grado di avere degli incubi.
- Magari era vero. Per questo aveva cominciato a venire da voi più di frequente, non credi?
- No. Non credo, penso solo che tua madre fosse uscita di testa e volesse convincerci a sbaraccare tutto. Credo che per questo morì di dolore subito dopo tuo padre. Tu all’epoca eri via per lavoro, ricordi?
Sonia ricordò, e abbassò gli occhi per nascondere le lacrime che le stavano affiorando al pensiero doloroso dei suoi genitori morti soli, senza la loro figlia che invece era lontana da casa per lavoro. Era riuscita a tornare appena in tempo per i funerali.
- Ma io l’ho vista nel mio sogno. Lo sta cercando. Cosa vuol dire?
- Non lo so, Sonia. Tornatene a casa. Qui non c’è più niente da fare. Ci sono cose che non sappiamo neanche noi. Qualcuno dice che lì, nei sogni, dopo morti si continua a vivere. In un altro modo, ma si vive. Io sono sempre stata scettica. Voglio solo continuare a lottare per far sì che tutto ciò che facciamo non sia considerato illegale. Il resto lo lascio agli speculatori.
- Ma cosa farai? Dove andrai?
Anna si rialzò, a fatica, facendo una leggera pressione sulla spalla di Sonia. Gettò la cicca lontana e guardò nel cielo.
- Non lo so, forse andrò via da qui. Questo non è mai stato il mio posto. Ho studiato per anni alla ricerca di sistemi che potessero curare le infinite malattie che piagano le nostre genti. Anche i sogni potrebbero aiutarci, sai? Per questo ho provato a dedicare le mie conoscenze scientifiche a questa attività. E invece cosa fanno tutti? Rintanati nelle loro case, impauriti dalle piogge radioattive che di tanto in tanto si abbattono sulle nostre terre, pensano solo a cosa è illegale o cosa non lo è. E la scienza continua a essere illecita. Anche tu, cosa ci fai qui? Ti consiglio di andar via. Forse ci sarà un posto dove i bambini nascono sani e non si deve per forza essere fortunati per evitare malattie che ogni giorno diventano più cruente.
Sonia guardò l’amica inforcare buffamente la sua bici e allontanarsi lungo la via.
Ripensò alle visioni, alla madre e al padre e a cosa avrebbero pensato di lei ora che era diventata una donna matura e aveva ricominciato a frequentare Anna. Avrebbe desiderato ancora la loro approvazione?
No, pensò. Quello non era più il suo sogno. Lo era stato, forse, un tempo, ma ora non lo era più.
- Aspettami, Anna! – gridò dietro all’amica. – Posso venire con te?
Anno 450 dell’Era Post Nucleare (EPN)
In seguito a una violenta esplosione nucleare nel centro dell’Africa, avvenuta nell’anno zero dell’EPN, una pioggia radioattiva si è abbattuta per mesi su tutte le regioni del pianeta Terra.
A distanza di secoli la popolazione ha ricominciato una nuova vita e la società è ora diffidente dalla ricerca scientifica e più attenta al controllo della legalità.
Le radiazioni, che all’inizio hanno provocato la morte di molte persone, continuano nel tempo a causare gravi danni a tutti gli esseri viventi e gli effetti negativi si diffondono anche nelle generazioni future.
Le nuove generazioni nascono ancora presentando mutilazioni e deformità a causa dei mutamenti nel DNA dovuti alle radiazioni.
Ma le mutilazioni non sono solo fisiche. Ci sono anche quelle che non si vedono…
1.
La saracinesca era abbassata quel tanto che permetteva, chinando leggermente la schiena, di poter entrare. Sonia esitò, poi si fece coraggio e si affacciò nel locale buio.
La luce accecante del sole all’esterno la rese cieca per alcuni istanti. Poi, pian piano, la sua vista si abituò e riuscì a distinguere chiaramente due figure, di spalle, in fondo al locale.
Le due sagome si voltarono contemporaneamente nell’udire lo scricchiolio dei suoi passi sul pavimento di cemento. Una delle due, una donna, nel vederla spalancò gli occhi e la bocca in un’espressione di sorpresa.
- Sonia! Sei tornata! Non ci posso credere. – E zoppicando le si avvicinò.
Già, neanche Sonia riusciva a credere ai suoi occhi. Anna sembrava sempre uguale. Nulla era cambiato in lei, a cominciare da quel difetto congenito all’anca, per arrivare al volto, senza neanche una ruga. Quasi che il tempo per lei non fosse mai trascorso.
Proprio quella donna, anni prima, era stata una sua cara amica. Poi le loro strade si erano separate quando i genitori di Sonia, scoperta l’attività segreta di Anna, le avevano impedito di continuare a frequentarla.
Sonia era stata docile, all’epoca. Aveva seguito le indicazioni dei suoi familiari e ancora oggi si chiedeva se l’avesse fatto per amore dei suoi cari o solo per vigliaccheria, per non osare confessare certe curiosità, tipiche dei giovani della Nuova Era, che l’amica sapeva sempre solleticare.
Ora erano lì, una di fronte all’altra, e Sonia pensò che non era il momento di pensare al passato.
Perlomeno non in quel modo.
2.
- Due giorni. Cinque minuti valgono due giorni. – Anna pronunciò quelle parole con distacco, senza neanche guardarla negli occhi.
Sonia era sicura che ce l’avesse ancora con lei. E che seppur contenta di rivederla, non riuscisse a nascondere quel moto di disappunto per non essersi mai chiarite abbastanza sulla loro antica separazione. Ma Anna era orgogliosa e mai le avrebbe confessato un sentimento simile. Per ora si limitava a mostrarsi fredda e, superata la sorpresa iniziale, continuò a rivolgersi a lei come fosse una perfetta estranea. – Pagamento in anticipo.
- Cosa ne fate del mio tempo?
- Quello è affar nostro. – La risposta non dava adito a repliche. Prendere o lasciare.
- Posso farlo subito? – chiese Sonia, tradendo nella voce un po’ di impazienza.
- Prima si paga, qui.
- Spiegami cosa devo fare. Non mi importa il prezzo.
Anna allora la fece accomodare su una sedia in fondo al locale alla quale era attaccato un computer e alcuni monitor che registravano le funzioni vitali delle persone.
- Con questo apparecchio ti preleviamo i giorni che ci spettano e, subito dopo, un ago ti inietta la sostanza magica. Quella che ti farà sognare per qualche minuto.
Sonia fece cenno di sì con la testa e si sedette.
Le infilarono un braccialetto al polso sinistro e Sonia sentì un lieve bruciore attraversarle la pelle.
Su uno degli schermi comparve una scritta che indicava le quarantotto ore in detrazione e l’accredito dei cinque minuti di seduta.
- Ora puoi alzarti. Andiamo sul retro. È lì che lo farai.
3.
Sonia seguì Anna in silenzio, massaggiandosi piano il polso che le doleva un po’.
Una porta a scomparsa si aprì sul fondo del locale e dopo aver percorso un breve e stretto corridoio si ritrovarono in una stanza illuminata a giorno da alcune plafoniere al neon.
Al centro, un letto di metallo era racchiuso in una capsula di vetro. A un comando vocale di Anna la capsula si aprì con un sibilo e Sonia fu invitata a entrarvi.
- Sdraiati e indossa il casco che trovi alla tua destra. Poi chiudi gli occhi e conta fino a dieci.
- Siamo sicuri che andrà tutto bene? – chiese Sonia nervosa. Per anni aveva immaginato quella cosa, senza mai riuscire ad avere il coraggio di farla. Aveva invidiato gli amici che le raccontavano di esperienze oniriche straordinarie, tutto chiaramente illegale, e lei aveva sempre giustificato la sua rinuncia con il rispetto delle regole. Regole ferree che, in casa sua, non ammettevano certe esperienze, per così dire, estreme. C’era sempre il rischio, come diceva suo padre, di diventare dipendenti e allora, cosa ne sarebbe stato di lei? Avrebbe consumato i suoi giorni e la sua vita solo per godere dell’esaltazione di pochi momenti?
- Certo che andrà tutto bene. Siamo dei professionisti, cosa credi? – poi la voce di Anna sembrò farsi più calda e dolce. Le si avvicinò, le carezzò i capelli biondo cenere: - Stai tranquilla Sonia. Non c’è nessun pericolo.
La capsula si richiuse con un altro sibilo e Sonia cominciò a contare.
Uno…
Sonia vide Anna allontanarsi piano da lei, con quel suo claudicare che le aveva sempre fatto un po’ di tenerezza.
Due…
Anna entrò in un vano più piccolo, adiacente alla stanza, da cui poteva osservarla attraverso un vetro.
Tre…
Sonia si chiese, in quel momento, se stava facendo la cosa giusta. Era la prima volta per lei e le riaffiorarono tutte le paure che suo padre le aveva inculcato, anni prima, per tenerla lontana da quel tipo di esperienze.
Quattro…
Sonia pensò che ormai non c’era più tempo per tornare indietro.
Cinque…
I suoi occhi si chiusero.
Un prato verde brillante si allargò davanti a lei. Ne riusciva a sentire la frescura sotto la pianta dei piedi, e poi fiori di tutti i colori, alberi e piante mai conosciute. Udì un rumore continuo accompagnarla durante il cammino e scoprì che un piccolo ruscello scorreva parallelo al suo percorso.
Il cielo era limpido, solcato dal volo di uccelli anch’essi variopinti. Tutto aveva un’aria così serena e straordinariamente rilassante. Mentre andava, curiosa osservando le immense bellezze che la circondavano, scorse una figura in lontananza che sembrava venire verso di lei. Si avvicinò, non abbastanza da poterla riconoscere, ma potè udire la sua voce in lontananza, come un richiamo, e vide che agitava un braccio nell’aria quasi a volerla salutare.
Sonia riaprì gli occhi e udì di nuovo quel sibilo.
Quando riemerse dal suo nuovo sonno riuscì finalmente a comprendere cosa aveva significato per tanti anni rinunciare a quella parte di vita. Intangibile, ma sempre vita.
Ma chi era quella figura che aveva incontrato? Le era sembrata una donna, conosciuta, dall’aria familiare, eppure non ne aveva distinto per bene i lineamenti. La voce, quella l’aveva in parte riconosciuta ma non credeva fosse possibile. Dopo così tanto tempo, non poteva crederci.
4.
Sonia non era soddisfatta. La scoperta che potessero esistere sonni in cui era possibile sognare la eccitava molto. Ne aveva sempre sentito parlare ma sapeva anche che, da quando le radiazioni avevano colpito il pianeta, gli esseri umani avevano perso quella capacità.
Con il tempo la scienza aveva studiato molecole e strumenti in grado di riprodurre quell’antica capacità dell’uomo ma sempre qualcosa si era opposto a una legalizzazione della sua diffusione. Problemi di ordine legale, sanitari e addirittura di ordine pubblico avevano sempre ostacolato la pratica lecita di quelle esperienze. Per questo alcuni scienziati e studiosi, tra i quali la sua amica Anna, svolgevano da sempre tale attività nella più completa clandestinità.
Sebbene soddisfatta, Sonia sentiva però che quel sogno appena fatto non era completo, mancava qualcosa.
Per questo volle riprovare più volte: per capire chi fosse quella figura che aveva visto salutarla da lontano. Una curiosità infantile, si disse, in fondo si trattava solo di un sogno, un’immagine onirica che nulla poteva avere a che fare con la realtà. Però quella curiosità con il passare del tempo si fece strada in lei con una insistenza e intensità sempre maggiore.
Tornò diverse volte da Anna ma ogni volta il sogno era diverso e sebbene la sensazione di pace e serenità della prima volta si riproponesse invariata, quella donna non l’aveva più rincontrata.
Oramai aveva speso molto tempo a inseguire un’immagine che sperava ogni volta di riuscire a vedere con maggiore nitidezza.
Si era giocata anni della sua vita per rincorrere un sogno.
Finché arrivò il giorno.
5.
Sonia si stese nel giaciglio metallico, la capsula si chiuse con il solito sibilo e lei contò fino a dieci.
La vide.
Il suo volto, finalmente definito alla luce di un sole caldo e benevolo, sembrava trasmettere sensazioni che Sonia non provava da tempo. Tenerezza, certo, ma anche gioia e un senso di pace mai provati prima.
- Mamma! – esclamò Sonia. – Cosa ci fai qui?
- Sonia! Amore mio, torna a casa, ti prego. Non sprecare il tuo tempo qui.
- È tanto tempo che non ti vedo. Sembri ringiovanita.
- Non ho molto tempo. Sto cercando papà…
- Ma papà è morto. Tu sei morta.
- Non è morto. Non siamo morti. Credo che lui sia rimasto intrappolato qui dentro. Forse si è perso. Gli acchiappasogni non hanno funzionato.
Sonia si svegliò. I suoi minuti erano terminati e lei, questa volta, si sentì peggio che mai.
Tornò a casa, stavolta insoddisfatta perché l’interrogativo iniziale si era trasformato in un enigma molto più complesso e le domande alle quali voleva risposte erano sempre più complicate e difficili.
I suoi genitori erano stati protagonisti del suo sogno. E dalle parole di sua madre le sembrò di capire che forse anche loro avevano ceduto alla curiosità di provare un sonno popolato da sogni.
Ma si trattava solo di un sogno, in fondo. Non poteva certo credere e interpretare la sua vita passata sulla base di immagini e sensazioni indotte da un macchinario e chissà quale sostanza chimica.
Fu questo che la convinse a parlare con Anna.
6.
Questa volta però, al solito posto, la saracinesca era chiusa. Sonia si sentì perduta, sentì nelle vene attraversarla una strana smania, come quando non si fuma da tempo e il corpo richiede la sua dote giornaliera di nicotina. Poi sentì una voce alle sue spalle.
- Ciao, ancora qui? – era Anna, in sella a una bicicletta.
- Perché è chiuso? – Sonia indicò la saracinesca.
- Eh, mia cara. I reazionari ci danno la caccia. La legge si è fatta più stringente. Se ci beccano questa volta venti anni di carcere non ce li toglie nessuno. Così abbiamo deciso di stare buoni per un po’. Magari ci spostiamo in un altro paese…
- Ma come? Proprio ora?
- Perché, ora che succede? Vedo che ti sta piacendo la cosa. – Il tono di Anna era di scherno e a Sonia la cosa non piacque.
- Tu non capisci. Ho visto mia madre.
Anna si irrigidì, il suo atteggiamento scanzonato mutò in una smorfia seria di preoccupazione.
- Certo che l’hai vista.
- Cosa vuol dire? Tu sai qualcosa che io non so?
- Perché credi che loro ti abbiano allontanato da me?
- Non lo so. All’epoca ero solo una ragazza. Credo mi volessero proteggere dai rischi di un’assuefazione. E ora riesco a comprendere. Forse avevano ragione.
Anna scese dalla bicicletta e la fece scivolare per terra. - Dicono che faccia bene alla mia gamba pedalare. – Poi si sedette sul gradino del marciapiede, proprio davanti la saracinesca chiusa, le gambe stese davanti a lei. Alzò lo sguardo verso l’amica in piedi e le fece cenno di sedersi accanto. Tirò fuori del tabacco e si arrotolò una sigaretta.
- Tuo padre è morto dopo aver speso gli ultimi anni di vita in questi sonni particolari. Era una specie di cavia.
- Io credevo fosse malato di cancro.
- Sì, infatti. Gli era stata diagnosticata un grave neoplasia cerebrale e lui decise di offrire il suo corpo alla sperimentazione. Perciò veniva qui una volta al mese. All’inizio. Poi volle intensificare e ci cominciò a far visita ogni settimana, finché, negli ultimi tempi veniva tutti i giorni.
- Ma perché? A quale scopo?
- Perché volevamo testare le nostre macchine e anche le molecole prodotte in clandestinità. Volevamo che i sogni, sebbene indotti con forti dosi di una sostanza a base di dopamina, non presentassero controindicazioni per le persone e si avvicinassero il più possibile alle esperienze oniriche del passato. Quelle spontanee, per intenderci. E tuo padre si convinse ad aiutarci.
- E mia madre? Cosa c’entra in questa storia?
- Tua madre è sempre stata contraria. Per questo tuo padre ha sempre agito di nascosto, almeno all’inizio. Finché non ha potuto più nascondere le sue uscite clandestine e allora lei ha perso la testa. Ha cominciato a costruire quegli aggeggi, gli acchiappasogni, come li chiamava lei, perché diceva che tuo padre aveva cominciato ad avere gli incubi. Assurdità! La gente non sogna più da secoli, figuriamoci se lui era in grado di avere degli incubi.
- Magari era vero. Per questo aveva cominciato a venire da voi più di frequente, non credi?
- No. Non credo, penso solo che tua madre fosse uscita di testa e volesse convincerci a sbaraccare tutto. Credo che per questo morì di dolore subito dopo tuo padre. Tu all’epoca eri via per lavoro, ricordi?
Sonia ricordò, e abbassò gli occhi per nascondere le lacrime che le stavano affiorando al pensiero doloroso dei suoi genitori morti soli, senza la loro figlia che invece era lontana da casa per lavoro. Era riuscita a tornare appena in tempo per i funerali.
- Ma io l’ho vista nel mio sogno. Lo sta cercando. Cosa vuol dire?
- Non lo so, Sonia. Tornatene a casa. Qui non c’è più niente da fare. Ci sono cose che non sappiamo neanche noi. Qualcuno dice che lì, nei sogni, dopo morti si continua a vivere. In un altro modo, ma si vive. Io sono sempre stata scettica. Voglio solo continuare a lottare per far sì che tutto ciò che facciamo non sia considerato illegale. Il resto lo lascio agli speculatori.
- Ma cosa farai? Dove andrai?
Anna si rialzò, a fatica, facendo una leggera pressione sulla spalla di Sonia. Gettò la cicca lontana e guardò nel cielo.
- Non lo so, forse andrò via da qui. Questo non è mai stato il mio posto. Ho studiato per anni alla ricerca di sistemi che potessero curare le infinite malattie che piagano le nostre genti. Anche i sogni potrebbero aiutarci, sai? Per questo ho provato a dedicare le mie conoscenze scientifiche a questa attività. E invece cosa fanno tutti? Rintanati nelle loro case, impauriti dalle piogge radioattive che di tanto in tanto si abbattono sulle nostre terre, pensano solo a cosa è illegale o cosa non lo è. E la scienza continua a essere illecita. Anche tu, cosa ci fai qui? Ti consiglio di andar via. Forse ci sarà un posto dove i bambini nascono sani e non si deve per forza essere fortunati per evitare malattie che ogni giorno diventano più cruente.
Sonia guardò l’amica inforcare buffamente la sua bici e allontanarsi lungo la via.
Ripensò alle visioni, alla madre e al padre e a cosa avrebbero pensato di lei ora che era diventata una donna matura e aveva ricominciato a frequentare Anna. Avrebbe desiderato ancora la loro approvazione?
No, pensò. Quello non era più il suo sogno. Lo era stato, forse, un tempo, ma ora non lo era più.
- Aspettami, Anna! – gridò dietro all’amica. – Posso venire con te?