Col sorriso sulle labbra (di Francesco Nucera)
Inviato: giovedì 5 marzo 2015, 0:51
Col sorriso sulle labbra
Franco fissava il rettangolo chiaro sulla parete ingiallita dal tempo. Tra le mani stringeva un bicchiere pieno.
«Non credo che quella sia la soluzione» disse Rocco, suo fratello maggiore.
«Già!» Franco si poggiò il palmo sulla fronte, immerse le unghie tra i capelli e provò a grattare via i brutti ricordi.
«Sai, ci sarebbe una persona...»
«Non ho voglia di parlarne con nessuno. Passerà anche questa» disse Franco.
«Guardami. Mi vedi cambiato?»
Le mani di Rocco lo afferrarono per il mento costringendolo a spostare lo sguardo.
«Non ci vengo» Protestò.
«Mi vedi diverso, più rilassato?»
«Sì, ma non voglio parlare con uno psicologo.»
Rocco rise. «Chi ha parlato di psicologi?»
«Ieri ho sentito la mamma.»
«Fidati di me. Vieni una volta sola. Niente strizzacervelli.»
I fratelli si fissarono. Le sicurezze di Franco vacillarono. Rocco c'era da sempre. L'aveva aiutato in mille occasioni senza mai chiedere un solo perché.
«Forse...»
«Passo a prenderti domani sera.»
Il fratello maggiore si alzò, gli diede una pacca sulla spalla e uscì anche lui da quella porta.
«Perché lo incontriamo di sera?» chiese Franco cercando di evitare gli escrementi a terra.
«Perché è la sera che ci ritroviamo.»
«Certo che poteva trovare un posto migliore per il suo studio.»
Attorno a loro c'erano solo grossi palazzoni grigi. Avevano l'intonaco cascante e molte finestre erano sprangate.
«Non andiamo in uno studio.» Rocco gli sorrise. «Seguimi.» Allungò il passo e si infilò attraverso una cancellata arrugginita.
Franco faticò a stare dietro al fratello, che scomparve in un portone. Quando lo raggiunse era fermo davanti a una porta.
«Sei pronto?» chiese Rocco.
«Lo sarei di più se sapessi cosa stiamo facendo.»
«Fidati di me.» girò la maniglia e varcò la soglia.
Franco si trovò in una stanza piena di gente. Decine di sedie erano indirizzate verso una parete davanti alla quale c'era un piccolo divano. Le sedute erano quasi tutte occupate, faticarono per trovare posto a sedere. Il ragazzo più giovane si guardò attorno e notò che erano quasi tutti nella stessa situazione. Per ogni coppia c'era uno che sorrideva e l'altro con gli occhi gonfi.
«Dove cazzo mi hai portato?» sussurrò a Rocco.
«Tra poco lo capirai e smetterai di fare domande.»
Le luci si spensero. Il vociare soffuso si interruppe di colpo. Si aprì una porta. Una bagliore traballante proiettò un cerchio luminoso. Un uomo, con in mano una candela, avanzò piano. Indossava una tunica bianca, dei sandali scuri sbucavano dall'orlo che strisciava a terra. Una corda gli cingeva la vita. Era calvo, la pelle olivastra e una barba folta che ispirava fiducia. Sembrava uscito da un icona rubata in chiesa.
«Ma chi cazzo...» provò a dire Franco, ma gli occhi dell'uomo si alzarono nella sua direzione. In quell'istante si sentì uno stupido. Tacque.
«Fratelli, benvenuti.»
«Grazie per averci accolto» risposero all'unisono gli uomini che sorridevano.
«Vedo che siamo molti, e questo mi compiace. Ricordatevi che le cose non capitano mai per caso. Perché, anche se vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.»
Franco non disse più una parola e ascoltò quell'uomo che sembrava conoscerlo nell'intimo.
Piazza Duomo brulicava di turisti. La gente accalcata formava dei serpentoni che puntavano in direzioni diverse. Per spostarsi bisognava entrare in uno di quelli e farsi trascinare.
Franco, che li osservava in disparte, chiuse gli occhi e si fece scaldare dal sole di maggio. Inspirò, sperando di sentire il profumo della primavera, ma nell'aria c'era solo l'odore di sudore acre di quella gente venuta da ogni parte del mondo.
«Odio l'Expo» disse rivolto a Marco, un confratello. Questo rispose sorridendo, lui fece lo stesso. Da mesi aveva ripreso a farlo, e ogni volta era una sensazione unica, piacevole.
«Siamo qui per loro, per indicargli la via.» Marco estrasse dalla tasca un plico di volantini.
«Io vado in chiesa, tu sotto il cavallo. Buona fortuna.» disse Franco.
Attorno a lui c'era aria di festa. Gli adulti ridevano, i bambini giocavano.
Franco abbassò lo sguardo e si infilò nella fiumana. Guardandosi i piedi assecondò ogni strappo della folla. Portò la mano alla tasca e sfiorò il cellulare. Quanto avrebbe voluto chiamare Rocco, ma lui era impegnato in fiera.
Una mano sulla spalla lo bloccò. Franco alzò gli occhi e si trovò davanti un poliziotto.
«Vi ho detto mille volte di non stare qui.»
«Non facciamo nulla di male» provò a difendersi.
«Il prefetto ha dato ordini precisi. Né barboni né quelli come voi.» Lo sguardo schifato del poliziotto risvegliò il passato di Franco. Anche lei lo guardava così prima di andarsene.
«Va bene» rispose mestamente.
Le campane si misero a suonare, era mezzogiorno. Franco portò la mano alla tasca. Estrasse il cellulare, compose un numero di telefono e sospirò. Non importava se l'ingresso del duomo fosse ancora lontano.
Portò il pollice sul tasto verde, e attese un secondo.
«Sto facendo la cosa giusta» disse.
Sentì un boato dall'altra parte della piazza. Toccava a lui. Schiaccio invio.
Franco fissava il rettangolo chiaro sulla parete ingiallita dal tempo. Tra le mani stringeva un bicchiere pieno.
«Non credo che quella sia la soluzione» disse Rocco, suo fratello maggiore.
«Già!» Franco si poggiò il palmo sulla fronte, immerse le unghie tra i capelli e provò a grattare via i brutti ricordi.
«Sai, ci sarebbe una persona...»
«Non ho voglia di parlarne con nessuno. Passerà anche questa» disse Franco.
«Guardami. Mi vedi cambiato?»
Le mani di Rocco lo afferrarono per il mento costringendolo a spostare lo sguardo.
«Non ci vengo» Protestò.
«Mi vedi diverso, più rilassato?»
«Sì, ma non voglio parlare con uno psicologo.»
Rocco rise. «Chi ha parlato di psicologi?»
«Ieri ho sentito la mamma.»
«Fidati di me. Vieni una volta sola. Niente strizzacervelli.»
I fratelli si fissarono. Le sicurezze di Franco vacillarono. Rocco c'era da sempre. L'aveva aiutato in mille occasioni senza mai chiedere un solo perché.
«Forse...»
«Passo a prenderti domani sera.»
Il fratello maggiore si alzò, gli diede una pacca sulla spalla e uscì anche lui da quella porta.
«Perché lo incontriamo di sera?» chiese Franco cercando di evitare gli escrementi a terra.
«Perché è la sera che ci ritroviamo.»
«Certo che poteva trovare un posto migliore per il suo studio.»
Attorno a loro c'erano solo grossi palazzoni grigi. Avevano l'intonaco cascante e molte finestre erano sprangate.
«Non andiamo in uno studio.» Rocco gli sorrise. «Seguimi.» Allungò il passo e si infilò attraverso una cancellata arrugginita.
Franco faticò a stare dietro al fratello, che scomparve in un portone. Quando lo raggiunse era fermo davanti a una porta.
«Sei pronto?» chiese Rocco.
«Lo sarei di più se sapessi cosa stiamo facendo.»
«Fidati di me.» girò la maniglia e varcò la soglia.
Franco si trovò in una stanza piena di gente. Decine di sedie erano indirizzate verso una parete davanti alla quale c'era un piccolo divano. Le sedute erano quasi tutte occupate, faticarono per trovare posto a sedere. Il ragazzo più giovane si guardò attorno e notò che erano quasi tutti nella stessa situazione. Per ogni coppia c'era uno che sorrideva e l'altro con gli occhi gonfi.
«Dove cazzo mi hai portato?» sussurrò a Rocco.
«Tra poco lo capirai e smetterai di fare domande.»
Le luci si spensero. Il vociare soffuso si interruppe di colpo. Si aprì una porta. Una bagliore traballante proiettò un cerchio luminoso. Un uomo, con in mano una candela, avanzò piano. Indossava una tunica bianca, dei sandali scuri sbucavano dall'orlo che strisciava a terra. Una corda gli cingeva la vita. Era calvo, la pelle olivastra e una barba folta che ispirava fiducia. Sembrava uscito da un icona rubata in chiesa.
«Ma chi cazzo...» provò a dire Franco, ma gli occhi dell'uomo si alzarono nella sua direzione. In quell'istante si sentì uno stupido. Tacque.
«Fratelli, benvenuti.»
«Grazie per averci accolto» risposero all'unisono gli uomini che sorridevano.
«Vedo che siamo molti, e questo mi compiace. Ricordatevi che le cose non capitano mai per caso. Perché, anche se vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.»
Franco non disse più una parola e ascoltò quell'uomo che sembrava conoscerlo nell'intimo.
Piazza Duomo brulicava di turisti. La gente accalcata formava dei serpentoni che puntavano in direzioni diverse. Per spostarsi bisognava entrare in uno di quelli e farsi trascinare.
Franco, che li osservava in disparte, chiuse gli occhi e si fece scaldare dal sole di maggio. Inspirò, sperando di sentire il profumo della primavera, ma nell'aria c'era solo l'odore di sudore acre di quella gente venuta da ogni parte del mondo.
«Odio l'Expo» disse rivolto a Marco, un confratello. Questo rispose sorridendo, lui fece lo stesso. Da mesi aveva ripreso a farlo, e ogni volta era una sensazione unica, piacevole.
«Siamo qui per loro, per indicargli la via.» Marco estrasse dalla tasca un plico di volantini.
«Io vado in chiesa, tu sotto il cavallo. Buona fortuna.» disse Franco.
Attorno a lui c'era aria di festa. Gli adulti ridevano, i bambini giocavano.
Franco abbassò lo sguardo e si infilò nella fiumana. Guardandosi i piedi assecondò ogni strappo della folla. Portò la mano alla tasca e sfiorò il cellulare. Quanto avrebbe voluto chiamare Rocco, ma lui era impegnato in fiera.
Una mano sulla spalla lo bloccò. Franco alzò gli occhi e si trovò davanti un poliziotto.
«Vi ho detto mille volte di non stare qui.»
«Non facciamo nulla di male» provò a difendersi.
«Il prefetto ha dato ordini precisi. Né barboni né quelli come voi.» Lo sguardo schifato del poliziotto risvegliò il passato di Franco. Anche lei lo guardava così prima di andarsene.
«Va bene» rispose mestamente.
Le campane si misero a suonare, era mezzogiorno. Franco portò la mano alla tasca. Estrasse il cellulare, compose un numero di telefono e sospirò. Non importava se l'ingresso del duomo fosse ancora lontano.
Portò il pollice sul tasto verde, e attese un secondo.
«Sto facendo la cosa giusta» disse.
Sentì un boato dall'altra parte della piazza. Toccava a lui. Schiaccio invio.