Quotiens lapis in aquam cadit… Wladimiro Borchi
Inviato: martedì 5 settembre 2017, 12:52
Glank… Trunck… Shhhhh…
Apro gli occhi sul buio della cameretta della casa di campagna. Mentre la vista si abitua alla penombra lasciandomi intravedere i contorni dello scarno mobilio, i rumori continuano, accompagnati dal respiro pesante di mio fratello che, ovviamente, collassato nel letto appoggiato alla parete opposta della stanza, non si è accorto di nulla.
Glank… Shhhhhh…
«C’è qualcuno che armeggia alla porta giù.»
Diamine! Figurati se quello si sveglia. Quando dorme, se dieci ruspe sollevassero la nostra casa e la trasportassero in un'altra regione, se ne accorgerebbe dall’accento delle persone in strada il giorno successivo.
«Francesco, svegliati! C’è qualcuno che sta cercando di aprire la porta di casa!»
Macchè! Fratel cuor di leone è in catalessi.
Scommettiamo che, se gli rovescio il materasso e gli faccio sbattere il grugno per terra, torna nel mondo dei vivi?
Dove cavolo sono le ciabatte? Il pavimento è gelato.
Aaaaaah, Chissenefrega! Vado scalza, tanto ormai, più sveglia di così.
Ci scommetto una tetta che è qualche coglione di amichetto del ghiro di casa, che sta organizzando chissà quale geniale scherzo notturno.
Ragazzini… Dovrebbero essere chiusi in galera a nove anni e uscirne a diciassette. Solo così il mondo sarebbe un posto in cui vale la pena vivere.
Concentrati Letizia, due passi in avanti e cinque a sinistra e arrivi all’interruttore della luce.
Piano. Lentamente… Ricordi come fa male il comodino basso di Francesco sullo stinco, vero?
«Fiat lux!»
Click.
Camera in normale disordine. Letti sfatti, giochi della peste sparpagliati sulla scrivania, ma il dormiglione non è nel suo letto.
Se è lui che mi ha svegliato, facendo chiasso davanti casa, giuro che stavolta lo prendo a sberle. Può andare a piangere da mamma quanto vuole.
Glang… Glang…
Possibile che i miei non si siano svegliati con tutto ‘sto rumore?
Il corridoio è buio, ma la porta della loro camera è socchiusa e dallo spiraglio filtra una sottile lama di luce, vagamente offuscata.
Sono svegli!
Oppure, unica alternativa plausibile, mamma si è addormentata, mentre leggeva, con la luce accesa.
«Papà… mamma…»
Niente.
Evidentemente vivo nella famiglia dal sonno più pesante della storia millenaria del torpore notturno.
Il corridoio non è perfettamente illuminato, ma alla porta dei miei ci arrivo facile.
Ahia!
Che palle! Sono inciampata in qualcosa.
Perché Sua Maestà il fratellino può lasciare le sue stronzate a terra in ogni diamine di posto.
Se un giorno cado, divento zoppa e nessuno mi sposa, lo rendo invalido a vita e, se per caso muoio, giuro che lo uccido.
Busso.
«Mamma… papà…»
Macché. Tutti nel mondo dei sogni in questa casa.
Ricorda, Letizia: la porta di mamma e papà non può essere aperta per nessuna ragione.
Che faccio? Contravvengo alla regola numero uno della convivenza civile?
Va be’ è un emergenza, se ci entrano in casa e rubano o, peggio, ci ammazzano…
Io apro.
Nessuno. Letto sfatto e luce accesa sul comodino di papà.
Ma dove diamine sono finiti tutti?
La luce fioca dell’abat jour fa sembrare il delizioso caldo eden, in cui da piccola venivo a rifugiarmi durante i temporali, l’anticamera della stanza delle torture di Jack lo Squartatore.
Click.
Luce accesa. Ora va decisamente meglio.
Che diavolo è quel pezzo di carta ingiallita sul comodino? C’è scarabocchiato qualcosa sopra.
«Per ch’io mi volsi, e vedimi davante
E sotto i piedi un lago che per gelo
Avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Dante Alighieri»
Una terzina. Sicuramente è la Divina Commedia. Beh, se quest’anno avessi studiato un po’ invece di passare i pomeriggi con Monica a farmi di tutte le possibili droghe, probabilmente saprei di quale canto si tratta.
In ogni caso, non è affatto rilevante. L'importante è sapere che fine hanno fatto tutti i membri della mia famiglia nel cuore della notte.
Sulla pergamena c’è una specie di annotazione a mano, scritta in rosso, sembra la grafia di papà:
«Puttana, ti aspettiamo a Cocito!»
Bene. Adesso sono ufficialmente terrorizzata.
Che diamine è Cocito? E perché puttana? Papà ce l’aveva con me?
Glanck… Shhhhh…
«Mamma… Mamma…»
Calmati Letizia! Stai gridando. Se i tizi là fuori si accorgono che sei sola e spaventata è pure peggio.
Mi chiudo in camera?
Sì. Così, magari, viene fuori che a far rumore sono i miei giù con mio fratello e ci faccio la figura della scema.
Certo scendere in mutandine e maglietta è come gridare in faccia agli eventuali ladri:
«Prima di svaligiare la casa, divertitevi un po’ a violentare a turno la figlia grande!»
Allo stesso tempo però, se vado a mettermi qualcosa addosso, poi chi lo trova il coraggio uscire di nuovo dalla mia camera.
Dai…
Impugnare il coraggio a due mani e scendere questa cazzo di scala: imperativo categorico!
«Mamma…»
Buio. Nessuno.
Io torno in camera.
I rumori sembrano finiti.
Mi muovo piano, non mi faccio sentire e controllo sia la cucina, che il garage. Se non c’è nessuno e manca l’auto, vuol dire che se ne sono andati da qualche parte. Magari qualcuno si è sentito male.
Certo potevano anche avvertire. Brutti stronzi!
Cucina deserta.
Non accendo la luce, tanto è abbastanza illuminata dai lampioni accesi all’esterno.
Manca il coltello grande dal ceppo, quello per la carne.
Mi manca l’aria, le ginocchia tremano e, a malapena, riesco a restare in piedi.
Respira Letizia, cerca di regolarizzare il battito cardiaco, non fare rumore.
Sto avendo una crisi di panico. Corro veloce, senza far rumore fino al garage, poi mi barrico in camera.
Signore, fai che tornino papà e mamma, non mi far prendere, non mi fare ammazzare, ti prego.
Macché, la macchina è al suo posto, ma tutti gli strumenti da lavoro di papà sono gettati a terra alla rinfusa. Venivano da qui i rumori? Sono entrati in casa?
Fuori, oltre lo stretto vetro che dà sul retro della casa, la notte si illumina del bagliore di una torcia elettrica. Forse due.
Clang… Klang… Shhh…
Di nuovo.
Sono fuori, armeggiano alla porta. Via di qua!
Di sotto non ci resto un minuto di più.
Mi chiudo in camera e chiamo la polizia.
Salgo i gradini, due alla volta. Al diavolo il rumore, se riesco a barricarmi in camera possono sentirmi quanto vogliono.
Un po’ dovranno per forza metterci a sfondare la porta, arriverà un cazzo di qualcuno prima che riescano a entrare, un poliziotto, un carabiniere, uno stronzissimo vigile urbano...
C’è sangue a terra, davanti alla porta di camera.
Di chi è? Sono entrati?
Entro. Francesco, supino sul letto, occhi sbarrati, testa reclinata all’indietro oltre il bordo, gola squarciata, da cui ogni goccia di vita è gorgogliata. Il pavimento ne è coperto quasi interamente.
…
«Non devi dire a mamma della pipetta di vetro. No! Sono affari miei! Questa è una cosa seria. O te ne stai zitto o te la faccio pagare.»
…
«Mamma, ti giuro che non è mia. Non so come sia finita tra le mie cose. No! Ti ho detto che non prendo droghe! No! Non le faccio le analisi!»
…
La lama si infila a fondo nella gola, mentre gli occhi del ragazzino si allargano di stupore e disperazione, dinanzi all’ultima delle morti che si sarebbe mai aspettato.
«Parla ora, se ti riesce, pezzo di merda!»
…
Francesco è morto. Mi viene da piangere e ho gli urti di vomito. Le gambe non mi reggono. Ho paura di perdere i sensi.
Se fossero nascosti qua dentro?
Mi chiudo nella camera di papà e mamma.
Via, veloce e rapida come fossi a una gara.
La corsa si arresta su un ostacolo imprevisto. Perdo l’equilibrio e volo in avanti. Mi ritrovo a terra. Mani e faccia imbrattate di un liquido rosso, viscoso. Odore di ferro e ruggine su per le narici. Altro violento urto di vomito.
Papà, rannicchiato a pancia in giù, proprio in mezzo al corridoio, volto annegato nel suo stesso sangue, coltello da cucina infilato nella schiena.
…
«Papà, Francesco si sente male. Respira male. Vieni in camera. Corri…»
Il padre innamorato di sua figlia nonostante tutto, l’uomo pronto a morire per la sua bambina anche dopo quel terribile sospetto, il genitore orgoglioso, che ora immagina la sua piccola su qualche lurido marciapiede a vendere il giovane corpo in cambio di uno schizzo di «roba», passa oltre il nemico.
Non ha difese. Non può nemmeno immaginare di doverne avere.
«Prendi figlio di puttana! Muori, bastardo, non mi hai mai difeso, non mi hai mai voluto bene!»
La lama si infila tra costola e costola e arriva dritta al cuore.
Forse la vittima nemmeno se ne accorge quando la vita, di colpo, tutta assieme, l’abbandona.
…
Urlo.
Scivolando a piedi nudi nello schifo, che esce da quello che una volta era mio padre, corro verso la camera.
Mia madre seduta nel letto, schiena appoggiata alla testiera bianca, ormai quasi completamente rossa. Quello che resta della sua testa è reclinato di lato, dalla voragine aperta proprio in mezzo alla sua fronte fuoriesce una sostanza grigia, ormai nera di grumi induriti, che si spande sulla bocca, spalancata in una smorfia innaturale.
Sulla parete schizzi alti fin quasi al soffitto.
Il martello di legno insozzato di rosso è ancora nella mia destra. Pezzi di pelle e qualche capello ci sono rimasti avvinghiati attorno. La firma è davanti agli occhi del sottoscrittore.
“Puttana, ti aspettiamo a Cocito!”
Cocito, Caina: l’inferno dei traditori dei propri familiari.
Ora rammento tutto.
Klang... Tump… Tump…
Sotto sono entrati. Sento i loro passi sulle scale. Non c’è scampo: non esiste un posto al mondo in cui io possa essere al sicuro. La meretrice di Satana è in trappola.
Tu tump… Tu tump… Tu tump…
Sento il trambusto degli stivali di almeno quattro uomini che corrono nel breve corridoio alla mie spalle, poi arriva il grido:
«Polizia. Getta il martello! Alza le mani!»
Non ubbidisco. Non l’ho mai fatto. Non mi è mai piaciuto.
Mi volto.
«Getta l’arma, ragazzina, non mi costringere a far fuoco.»
Ridicolo, piccolo, stupido agente alle prime armi, con le sue gambette sbigottite che tremano più delle mie. Hai visto cosa ho fatto? Hai la minima idea di chi sia la dea con cui hai deciso di scontrarti?
Rido sguaiata e sollevo il mazzuolo, in quell’istante arriva lo sparo, preciso, impari, vigliacco, senza lasciare scampo.
Chiudo gli occhi, sapore ferroso nella bocca, odore di polvere da sparo. Il mio corpo cade, ma non sento più niente.
L’aveva detto la professoressa di lettere a lezione: l’inferno, alle volte, è circolare.
Glank… Trunck… Shhhhh…
Apro gli occhi sul buio della cameretta della casa di campagna. Mentre la vista si abitua alla penombra lasciandomi intravedere i contorni dello scarno mobilio, i rumori continuano accompagnati dal respiro pesante di mio fratello che, ovviamente, collassato nel letto appoggiato alla parete opposta della stanza, non si è accorto di nulla.
Glank… Shhhhhh…
«C’è qualcuno che armeggia alla porta giù.»
Diamine! Figurati se quello si sveglia. Quando dorme, se dieci ruspe sollevassero la nostra casa e la trasportassero in un'altra regione, se ne accorgerebbe dall’accento delle persone in strada il giorno successivo.
«Francesco, svegliati! C’è qualcuno che sta cercando di aprire la porta di casa!»
Macchè! Fratel cuor di leone è in catalessi…
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Wladimiro Borchi
Apro gli occhi sul buio della cameretta della casa di campagna. Mentre la vista si abitua alla penombra lasciandomi intravedere i contorni dello scarno mobilio, i rumori continuano, accompagnati dal respiro pesante di mio fratello che, ovviamente, collassato nel letto appoggiato alla parete opposta della stanza, non si è accorto di nulla.
Glank… Shhhhhh…
«C’è qualcuno che armeggia alla porta giù.»
Diamine! Figurati se quello si sveglia. Quando dorme, se dieci ruspe sollevassero la nostra casa e la trasportassero in un'altra regione, se ne accorgerebbe dall’accento delle persone in strada il giorno successivo.
«Francesco, svegliati! C’è qualcuno che sta cercando di aprire la porta di casa!»
Macchè! Fratel cuor di leone è in catalessi.
Scommettiamo che, se gli rovescio il materasso e gli faccio sbattere il grugno per terra, torna nel mondo dei vivi?
Dove cavolo sono le ciabatte? Il pavimento è gelato.
Aaaaaah, Chissenefrega! Vado scalza, tanto ormai, più sveglia di così.
Ci scommetto una tetta che è qualche coglione di amichetto del ghiro di casa, che sta organizzando chissà quale geniale scherzo notturno.
Ragazzini… Dovrebbero essere chiusi in galera a nove anni e uscirne a diciassette. Solo così il mondo sarebbe un posto in cui vale la pena vivere.
Concentrati Letizia, due passi in avanti e cinque a sinistra e arrivi all’interruttore della luce.
Piano. Lentamente… Ricordi come fa male il comodino basso di Francesco sullo stinco, vero?
«Fiat lux!»
Click.
Camera in normale disordine. Letti sfatti, giochi della peste sparpagliati sulla scrivania, ma il dormiglione non è nel suo letto.
Se è lui che mi ha svegliato, facendo chiasso davanti casa, giuro che stavolta lo prendo a sberle. Può andare a piangere da mamma quanto vuole.
Glang… Glang…
Possibile che i miei non si siano svegliati con tutto ‘sto rumore?
Il corridoio è buio, ma la porta della loro camera è socchiusa e dallo spiraglio filtra una sottile lama di luce, vagamente offuscata.
Sono svegli!
Oppure, unica alternativa plausibile, mamma si è addormentata, mentre leggeva, con la luce accesa.
«Papà… mamma…»
Niente.
Evidentemente vivo nella famiglia dal sonno più pesante della storia millenaria del torpore notturno.
Il corridoio non è perfettamente illuminato, ma alla porta dei miei ci arrivo facile.
Ahia!
Che palle! Sono inciampata in qualcosa.
Perché Sua Maestà il fratellino può lasciare le sue stronzate a terra in ogni diamine di posto.
Se un giorno cado, divento zoppa e nessuno mi sposa, lo rendo invalido a vita e, se per caso muoio, giuro che lo uccido.
Busso.
«Mamma… papà…»
Macché. Tutti nel mondo dei sogni in questa casa.
Ricorda, Letizia: la porta di mamma e papà non può essere aperta per nessuna ragione.
Che faccio? Contravvengo alla regola numero uno della convivenza civile?
Va be’ è un emergenza, se ci entrano in casa e rubano o, peggio, ci ammazzano…
Io apro.
Nessuno. Letto sfatto e luce accesa sul comodino di papà.
Ma dove diamine sono finiti tutti?
La luce fioca dell’abat jour fa sembrare il delizioso caldo eden, in cui da piccola venivo a rifugiarmi durante i temporali, l’anticamera della stanza delle torture di Jack lo Squartatore.
Click.
Luce accesa. Ora va decisamente meglio.
Che diavolo è quel pezzo di carta ingiallita sul comodino? C’è scarabocchiato qualcosa sopra.
«Per ch’io mi volsi, e vedimi davante
E sotto i piedi un lago che per gelo
Avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Dante Alighieri»
Una terzina. Sicuramente è la Divina Commedia. Beh, se quest’anno avessi studiato un po’ invece di passare i pomeriggi con Monica a farmi di tutte le possibili droghe, probabilmente saprei di quale canto si tratta.
In ogni caso, non è affatto rilevante. L'importante è sapere che fine hanno fatto tutti i membri della mia famiglia nel cuore della notte.
Sulla pergamena c’è una specie di annotazione a mano, scritta in rosso, sembra la grafia di papà:
«Puttana, ti aspettiamo a Cocito!»
Bene. Adesso sono ufficialmente terrorizzata.
Che diamine è Cocito? E perché puttana? Papà ce l’aveva con me?
Glanck… Shhhhh…
«Mamma… Mamma…»
Calmati Letizia! Stai gridando. Se i tizi là fuori si accorgono che sei sola e spaventata è pure peggio.
Mi chiudo in camera?
Sì. Così, magari, viene fuori che a far rumore sono i miei giù con mio fratello e ci faccio la figura della scema.
Certo scendere in mutandine e maglietta è come gridare in faccia agli eventuali ladri:
«Prima di svaligiare la casa, divertitevi un po’ a violentare a turno la figlia grande!»
Allo stesso tempo però, se vado a mettermi qualcosa addosso, poi chi lo trova il coraggio uscire di nuovo dalla mia camera.
Dai…
Impugnare il coraggio a due mani e scendere questa cazzo di scala: imperativo categorico!
«Mamma…»
Buio. Nessuno.
Io torno in camera.
I rumori sembrano finiti.
Mi muovo piano, non mi faccio sentire e controllo sia la cucina, che il garage. Se non c’è nessuno e manca l’auto, vuol dire che se ne sono andati da qualche parte. Magari qualcuno si è sentito male.
Certo potevano anche avvertire. Brutti stronzi!
Cucina deserta.
Non accendo la luce, tanto è abbastanza illuminata dai lampioni accesi all’esterno.
Manca il coltello grande dal ceppo, quello per la carne.
Mi manca l’aria, le ginocchia tremano e, a malapena, riesco a restare in piedi.
Respira Letizia, cerca di regolarizzare il battito cardiaco, non fare rumore.
Sto avendo una crisi di panico. Corro veloce, senza far rumore fino al garage, poi mi barrico in camera.
Signore, fai che tornino papà e mamma, non mi far prendere, non mi fare ammazzare, ti prego.
Macché, la macchina è al suo posto, ma tutti gli strumenti da lavoro di papà sono gettati a terra alla rinfusa. Venivano da qui i rumori? Sono entrati in casa?
Fuori, oltre lo stretto vetro che dà sul retro della casa, la notte si illumina del bagliore di una torcia elettrica. Forse due.
Clang… Klang… Shhh…
Di nuovo.
Sono fuori, armeggiano alla porta. Via di qua!
Di sotto non ci resto un minuto di più.
Mi chiudo in camera e chiamo la polizia.
Salgo i gradini, due alla volta. Al diavolo il rumore, se riesco a barricarmi in camera possono sentirmi quanto vogliono.
Un po’ dovranno per forza metterci a sfondare la porta, arriverà un cazzo di qualcuno prima che riescano a entrare, un poliziotto, un carabiniere, uno stronzissimo vigile urbano...
C’è sangue a terra, davanti alla porta di camera.
Di chi è? Sono entrati?
Entro. Francesco, supino sul letto, occhi sbarrati, testa reclinata all’indietro oltre il bordo, gola squarciata, da cui ogni goccia di vita è gorgogliata. Il pavimento ne è coperto quasi interamente.
…
«Non devi dire a mamma della pipetta di vetro. No! Sono affari miei! Questa è una cosa seria. O te ne stai zitto o te la faccio pagare.»
…
«Mamma, ti giuro che non è mia. Non so come sia finita tra le mie cose. No! Ti ho detto che non prendo droghe! No! Non le faccio le analisi!»
…
La lama si infila a fondo nella gola, mentre gli occhi del ragazzino si allargano di stupore e disperazione, dinanzi all’ultima delle morti che si sarebbe mai aspettato.
«Parla ora, se ti riesce, pezzo di merda!»
…
Francesco è morto. Mi viene da piangere e ho gli urti di vomito. Le gambe non mi reggono. Ho paura di perdere i sensi.
Se fossero nascosti qua dentro?
Mi chiudo nella camera di papà e mamma.
Via, veloce e rapida come fossi a una gara.
La corsa si arresta su un ostacolo imprevisto. Perdo l’equilibrio e volo in avanti. Mi ritrovo a terra. Mani e faccia imbrattate di un liquido rosso, viscoso. Odore di ferro e ruggine su per le narici. Altro violento urto di vomito.
Papà, rannicchiato a pancia in giù, proprio in mezzo al corridoio, volto annegato nel suo stesso sangue, coltello da cucina infilato nella schiena.
…
«Papà, Francesco si sente male. Respira male. Vieni in camera. Corri…»
Il padre innamorato di sua figlia nonostante tutto, l’uomo pronto a morire per la sua bambina anche dopo quel terribile sospetto, il genitore orgoglioso, che ora immagina la sua piccola su qualche lurido marciapiede a vendere il giovane corpo in cambio di uno schizzo di «roba», passa oltre il nemico.
Non ha difese. Non può nemmeno immaginare di doverne avere.
«Prendi figlio di puttana! Muori, bastardo, non mi hai mai difeso, non mi hai mai voluto bene!»
La lama si infila tra costola e costola e arriva dritta al cuore.
Forse la vittima nemmeno se ne accorge quando la vita, di colpo, tutta assieme, l’abbandona.
…
Urlo.
Scivolando a piedi nudi nello schifo, che esce da quello che una volta era mio padre, corro verso la camera.
Mia madre seduta nel letto, schiena appoggiata alla testiera bianca, ormai quasi completamente rossa. Quello che resta della sua testa è reclinato di lato, dalla voragine aperta proprio in mezzo alla sua fronte fuoriesce una sostanza grigia, ormai nera di grumi induriti, che si spande sulla bocca, spalancata in una smorfia innaturale.
Sulla parete schizzi alti fin quasi al soffitto.
Il martello di legno insozzato di rosso è ancora nella mia destra. Pezzi di pelle e qualche capello ci sono rimasti avvinghiati attorno. La firma è davanti agli occhi del sottoscrittore.
“Puttana, ti aspettiamo a Cocito!”
Cocito, Caina: l’inferno dei traditori dei propri familiari.
Ora rammento tutto.
Klang... Tump… Tump…
Sotto sono entrati. Sento i loro passi sulle scale. Non c’è scampo: non esiste un posto al mondo in cui io possa essere al sicuro. La meretrice di Satana è in trappola.
Tu tump… Tu tump… Tu tump…
Sento il trambusto degli stivali di almeno quattro uomini che corrono nel breve corridoio alla mie spalle, poi arriva il grido:
«Polizia. Getta il martello! Alza le mani!»
Non ubbidisco. Non l’ho mai fatto. Non mi è mai piaciuto.
Mi volto.
«Getta l’arma, ragazzina, non mi costringere a far fuoco.»
Ridicolo, piccolo, stupido agente alle prime armi, con le sue gambette sbigottite che tremano più delle mie. Hai visto cosa ho fatto? Hai la minima idea di chi sia la dea con cui hai deciso di scontrarti?
Rido sguaiata e sollevo il mazzuolo, in quell’istante arriva lo sparo, preciso, impari, vigliacco, senza lasciare scampo.
Chiudo gli occhi, sapore ferroso nella bocca, odore di polvere da sparo. Il mio corpo cade, ma non sento più niente.
L’aveva detto la professoressa di lettere a lezione: l’inferno, alle volte, è circolare.
Glank… Trunck… Shhhhh…
Apro gli occhi sul buio della cameretta della casa di campagna. Mentre la vista si abitua alla penombra lasciandomi intravedere i contorni dello scarno mobilio, i rumori continuano accompagnati dal respiro pesante di mio fratello che, ovviamente, collassato nel letto appoggiato alla parete opposta della stanza, non si è accorto di nulla.
Glank… Shhhhhh…
«C’è qualcuno che armeggia alla porta giù.»
Diamine! Figurati se quello si sveglia. Quando dorme, se dieci ruspe sollevassero la nostra casa e la trasportassero in un'altra regione, se ne accorgerebbe dall’accento delle persone in strada il giorno successivo.
«Francesco, svegliati! C’è qualcuno che sta cercando di aprire la porta di casa!»
Macchè! Fratel cuor di leone è in catalessi…
…
…
Wladimiro Borchi