Non avranno ciò che è mio
Inviato: sabato 28 ottobre 2017, 16:01
Non avranno ciò che è mio.
O no, nossignore, non quest’anno. Non finirò come il povero Walter, mendicando carne per tutto l’inverno. Né come Goffrey, privato perfino di Will e Susy. Quei piccoli gemellini, così…bianchi, così teneri e innocenti. Carne fresca, per Samhuinn, e per i suoi “figli”. Sta andando tutto in malora, lo vedo e lo sento nell’aria. La nebbia è così fitta che potremmo tagliarla con il coltello. Ho detto a mia moglie Gwen e alla piccola Maeve di chiudersi in camera da letto, dopo aver fissato le assi alla finestra. Ho lasciato loro del cibo, dovrebbe bastare per un paio di giorni, nel caso in cui io…fallissi. Loro sono l’unica gioia che la vita nella brughiera mi abbia mai donato. Sono i miei amori, i miei tesori…sono i miei dolcetti. I figli verranno per loro, non ne ho dubbi. Le chiederanno in dono per il padre, le chiederanno con il sorriso malevolo con cui fino a pochi anni fa chiedevano polli, pecore e maiali, le chiederanno con lo sguardo fisso, le orbite vuote. Puoi donare i tuoi dolcetti, o sparire per sempre nella nebbia. I morti cammineranno ancora, questa Vigilia.
Le campane della chiesa di Cillborough non si muovono più. Il martellare incessante del battaglio mi è ormai entrato in testa. Iniziano a suonare con il calare della nebbia di fine ottobre, poco dopo il sorgere della prima luna di inverno, e si fermano alla Vigilia, all’improvviso, liberando l’aria dal frastuono. Se ci sarà qualcuno ancora in grado di tirare le corde e far muovere le pesanti aspe, torneranno a suonare domani, quando questo incubo sarà finito. Allestire le difese intorno e dentro la fattoria, preparare le trappole, ripulire le armi vere e di fortuna con quei sordi rintocchi nel cervello mi ha fatto impazzire. La nebbia non mi permette di vedere a più di una ventina di iarde dalla finestra, ed è stato così per giorni interi. No, non sarà una vigilia di Hallowmas come tutte le altre.
Il sole è calato oltre l’orizzonte da due ore ormai. Anche il più piccolo rumore risulta ovattato alle mie orecchie, l’oscurità e la nebbia sono soffocanti. Mi sono assicurato di preparare una cortese e calorosa accoglienza per i miei ospiti. Gli anni passati ad inseguire prede nelle vecchie foreste della tenuta di Golavon, le notti fredde e i giorni umidi, in attesa della giusta occasione, non mi hanno forgiato in un guerriero, ma farò del mio meglio. Ho rispolverato la balestra a leva. Avevo ancora dieci quadrelli di una vecchia battuta di caccia, ma ne ho fabbricati altri trenta in questi quattro giorni. Alla cintola ho il coltello che uso per scuoiare le bestie, e poggiato vicino alla porta di ingresso si trova il martello di Ruud, il fabbro della città. Lui smette di lavorare qualche giorno prima della Vigilia, io inizierò a breve, temo. Sento mia moglie camminare al piano di sopra, i suoi piedi calpestano il pavimento della stanza ritmicamente, incessantemente. Parlotta con Maeve, ha un tono di voce delicato, è la voce di una madre che cerca di far addormentare la figlia con una favola della buonanotte. Non riesco a capire cosa le stia dicendo. Devo restare concentrato.
Infine riesco a vedere le luci nella nebbia. È sempre stato così, fin da quando, bambino a mia volta, ammiravo il macabro spettacolo. I figli arrivano con la nebbia, e con la nebbia se ne rivanno. Portano in mano delle torce per illuminare il cammino. Mia madre preparava una torta alla crema e composta di more per i morti che venivano in visita, prima di lasciare la terra per sempre. Quelli erano i loro dolcetti. Ma quei tempi sono passati per sempre. I morti sono diventati crudeli, malvagi, perversi. La vita è crudele e perversa, perché la morte dovrebbe fare eccezione? Provo una gran pena per quegli esseri, provo pena per me stesso, perché forse, molto presto, mi unirò a loro, tornando bambino, indossando quei logori stracci insanguinati, impugnando una torcia e reclamando un tributo di sangue. Provo pena per i vivi che restano. Ma non avranno ciò che è mio.
I primi piedini nudi escono dalla nebbia, la luce delle fiaccole illumina le figure in corteo. Sapevo, sentivo che non sarebbe stata come tutti gli altri anni. E loro sanno, buon Dio, loro sanno. Nelle mani hanno ganci da macellaio, mannaie, coltelli da cucina, falcetti. Sono piccoli strumenti, ma loro sono così tanti…ne vedo almeno quindici di fronte a me, ciondolare malamente nei loro sacchi sudici, cercando di simulare grottescamente veri bambini. Altri cinque, forse sei, si dirigono verso la stalla. Devo agire in fretta, o di noi non resterà niente. Afferro una delle tre torce preparate sotto la finestra, e accendo la stoffa che avvolge la punta del bastone. Poi afferro le altre, e continuo il lavoro. Il calore mi brucia il viso, ma non vi presto attenzione. Esco dalla porta principale, lancio la prima torcia verso il prato. La mia trappola. La pece che ho versato nel pomeriggio prende fuoco immediatamente, avvolgendo nelle fiamme i primi piccoli corpicini. Urla strazianti salgono dalle fila dei morti, urla di bambino. Lancio la seconda, e la terza torcia. Altre fiamme divampano. Non riesco a sentire oltre, sono obbligato a tapparmi le orecchie. Il tanfo di stracci bruciati e carne morta mi arriva al naso, non posso trattenermi, e vomito sulla piccola veranda. Rientro in casa e chiudo la porta dietro di me, barricandola. Fuori c’è l’inferno. I figli di Samhuinn corrono di là e di qua, alcuni in fiamme. Alcuni sono riversi a terra, immobili. Molti altri stanno uscendo dalla nebbia. Imbraccio la balestra, e inizio a scagliare dardi. La tensione mi fa sbagliare alcuni colpi, ma la maggior parte vanno a segno. Sono ancora un cacciatore. Argino una prima ondata di morti, ma l’avanzata è inarrestabile. Alcuni di loro riescono a sfondare la porta della stalla. Sento i miei animali urlare di dolore. Anche Maeve, al piano di sopra, inizia ad urlare, e prego Dio e tutti i santi che conosco di concederle la grazia di non fare la fine dei miei maiali. Esaurisco i quadrelli, e alcuni di loro sono già alla porta. Afferro il martello con entrambe le mani, ed esco dalla finestra, atterrando sull’erba poco sotto ed avventandomi contro i primi figli. Solo alzando gli occhi mi rendo conto del mio errore, ed acquisto la ragione: non ci sono bambini a terra, o in fiamme, o trafitti dai miei dardi. Nessun fagotto di cenci straziato di dolore. Sono tutti di fronte a me, in piedi, le piccole armi arrugginite in mano. Niente torce. L’unica luce, verdognola e spettrale, viene direttamente dalla nebbia. Loro sono già morti, io li raggiungerò presto. Lascio cadere il martello, in preda alla disperazione. Mentre i piccoli ganci mi trafiggono e i coltelli lacerano le mie carni, guardo quelle orbite vuote, quei ghigni sbilenchi. Gwen e Maeve resteranno sole, senza di me, tutto l’inverno. Senza animali. Moriranno di fame, o finiranno in qualche bordello. Mia figlia ha solo otto anni. I morti hanno giocato il loro perfido scherzo. Sono io il dolcetto.
O no, nossignore, non quest’anno. Non finirò come il povero Walter, mendicando carne per tutto l’inverno. Né come Goffrey, privato perfino di Will e Susy. Quei piccoli gemellini, così…bianchi, così teneri e innocenti. Carne fresca, per Samhuinn, e per i suoi “figli”. Sta andando tutto in malora, lo vedo e lo sento nell’aria. La nebbia è così fitta che potremmo tagliarla con il coltello. Ho detto a mia moglie Gwen e alla piccola Maeve di chiudersi in camera da letto, dopo aver fissato le assi alla finestra. Ho lasciato loro del cibo, dovrebbe bastare per un paio di giorni, nel caso in cui io…fallissi. Loro sono l’unica gioia che la vita nella brughiera mi abbia mai donato. Sono i miei amori, i miei tesori…sono i miei dolcetti. I figli verranno per loro, non ne ho dubbi. Le chiederanno in dono per il padre, le chiederanno con il sorriso malevolo con cui fino a pochi anni fa chiedevano polli, pecore e maiali, le chiederanno con lo sguardo fisso, le orbite vuote. Puoi donare i tuoi dolcetti, o sparire per sempre nella nebbia. I morti cammineranno ancora, questa Vigilia.
Le campane della chiesa di Cillborough non si muovono più. Il martellare incessante del battaglio mi è ormai entrato in testa. Iniziano a suonare con il calare della nebbia di fine ottobre, poco dopo il sorgere della prima luna di inverno, e si fermano alla Vigilia, all’improvviso, liberando l’aria dal frastuono. Se ci sarà qualcuno ancora in grado di tirare le corde e far muovere le pesanti aspe, torneranno a suonare domani, quando questo incubo sarà finito. Allestire le difese intorno e dentro la fattoria, preparare le trappole, ripulire le armi vere e di fortuna con quei sordi rintocchi nel cervello mi ha fatto impazzire. La nebbia non mi permette di vedere a più di una ventina di iarde dalla finestra, ed è stato così per giorni interi. No, non sarà una vigilia di Hallowmas come tutte le altre.
Il sole è calato oltre l’orizzonte da due ore ormai. Anche il più piccolo rumore risulta ovattato alle mie orecchie, l’oscurità e la nebbia sono soffocanti. Mi sono assicurato di preparare una cortese e calorosa accoglienza per i miei ospiti. Gli anni passati ad inseguire prede nelle vecchie foreste della tenuta di Golavon, le notti fredde e i giorni umidi, in attesa della giusta occasione, non mi hanno forgiato in un guerriero, ma farò del mio meglio. Ho rispolverato la balestra a leva. Avevo ancora dieci quadrelli di una vecchia battuta di caccia, ma ne ho fabbricati altri trenta in questi quattro giorni. Alla cintola ho il coltello che uso per scuoiare le bestie, e poggiato vicino alla porta di ingresso si trova il martello di Ruud, il fabbro della città. Lui smette di lavorare qualche giorno prima della Vigilia, io inizierò a breve, temo. Sento mia moglie camminare al piano di sopra, i suoi piedi calpestano il pavimento della stanza ritmicamente, incessantemente. Parlotta con Maeve, ha un tono di voce delicato, è la voce di una madre che cerca di far addormentare la figlia con una favola della buonanotte. Non riesco a capire cosa le stia dicendo. Devo restare concentrato.
Infine riesco a vedere le luci nella nebbia. È sempre stato così, fin da quando, bambino a mia volta, ammiravo il macabro spettacolo. I figli arrivano con la nebbia, e con la nebbia se ne rivanno. Portano in mano delle torce per illuminare il cammino. Mia madre preparava una torta alla crema e composta di more per i morti che venivano in visita, prima di lasciare la terra per sempre. Quelli erano i loro dolcetti. Ma quei tempi sono passati per sempre. I morti sono diventati crudeli, malvagi, perversi. La vita è crudele e perversa, perché la morte dovrebbe fare eccezione? Provo una gran pena per quegli esseri, provo pena per me stesso, perché forse, molto presto, mi unirò a loro, tornando bambino, indossando quei logori stracci insanguinati, impugnando una torcia e reclamando un tributo di sangue. Provo pena per i vivi che restano. Ma non avranno ciò che è mio.
I primi piedini nudi escono dalla nebbia, la luce delle fiaccole illumina le figure in corteo. Sapevo, sentivo che non sarebbe stata come tutti gli altri anni. E loro sanno, buon Dio, loro sanno. Nelle mani hanno ganci da macellaio, mannaie, coltelli da cucina, falcetti. Sono piccoli strumenti, ma loro sono così tanti…ne vedo almeno quindici di fronte a me, ciondolare malamente nei loro sacchi sudici, cercando di simulare grottescamente veri bambini. Altri cinque, forse sei, si dirigono verso la stalla. Devo agire in fretta, o di noi non resterà niente. Afferro una delle tre torce preparate sotto la finestra, e accendo la stoffa che avvolge la punta del bastone. Poi afferro le altre, e continuo il lavoro. Il calore mi brucia il viso, ma non vi presto attenzione. Esco dalla porta principale, lancio la prima torcia verso il prato. La mia trappola. La pece che ho versato nel pomeriggio prende fuoco immediatamente, avvolgendo nelle fiamme i primi piccoli corpicini. Urla strazianti salgono dalle fila dei morti, urla di bambino. Lancio la seconda, e la terza torcia. Altre fiamme divampano. Non riesco a sentire oltre, sono obbligato a tapparmi le orecchie. Il tanfo di stracci bruciati e carne morta mi arriva al naso, non posso trattenermi, e vomito sulla piccola veranda. Rientro in casa e chiudo la porta dietro di me, barricandola. Fuori c’è l’inferno. I figli di Samhuinn corrono di là e di qua, alcuni in fiamme. Alcuni sono riversi a terra, immobili. Molti altri stanno uscendo dalla nebbia. Imbraccio la balestra, e inizio a scagliare dardi. La tensione mi fa sbagliare alcuni colpi, ma la maggior parte vanno a segno. Sono ancora un cacciatore. Argino una prima ondata di morti, ma l’avanzata è inarrestabile. Alcuni di loro riescono a sfondare la porta della stalla. Sento i miei animali urlare di dolore. Anche Maeve, al piano di sopra, inizia ad urlare, e prego Dio e tutti i santi che conosco di concederle la grazia di non fare la fine dei miei maiali. Esaurisco i quadrelli, e alcuni di loro sono già alla porta. Afferro il martello con entrambe le mani, ed esco dalla finestra, atterrando sull’erba poco sotto ed avventandomi contro i primi figli. Solo alzando gli occhi mi rendo conto del mio errore, ed acquisto la ragione: non ci sono bambini a terra, o in fiamme, o trafitti dai miei dardi. Nessun fagotto di cenci straziato di dolore. Sono tutti di fronte a me, in piedi, le piccole armi arrugginite in mano. Niente torce. L’unica luce, verdognola e spettrale, viene direttamente dalla nebbia. Loro sono già morti, io li raggiungerò presto. Lascio cadere il martello, in preda alla disperazione. Mentre i piccoli ganci mi trafiggono e i coltelli lacerano le mie carni, guardo quelle orbite vuote, quei ghigni sbilenchi. Gwen e Maeve resteranno sole, senza di me, tutto l’inverno. Senza animali. Moriranno di fame, o finiranno in qualche bordello. Mia figlia ha solo otto anni. I morti hanno giocato il loro perfido scherzo. Sono io il dolcetto.