L'altra faccia della medaglia - di Giancarmine Trotta
Inviato: martedì 21 novembre 2017, 0:35
L'altra faccia della medaglia
di Giancarmine Trotta
Il suono della BMW R75 e degli altri veicoli in dotazione alle truppe tedesche divenne sempre più tragicamente familiare ai cittadini del piccolo paese toscano. Il solo rotolare delle gomme sulle strade ciottolose dell'entroterra versiliese annunciava spesso urla, vessazioni, morte.
Come un pitone, i soldati tedeschi accerchiavano e asfissiavano il paese dettando legge, umiliando gli uomini e sbeffeggiando le donne.
I più coraggiosi furono i primi a morire e dopo di loro caddero uomini di tutte le età per le scuse più banali: uno sguardo di troppo, il silenzio non rispettato dopo un ordine, un servigio mal compiuto.
Solo la polvere rendeva gli uomini con la divisa simili a quelli che lavoravano il terreno o pascolavano le greggi. Un velo biancastro s'innalzava sulla via e sulla piazza dove avvenivano i raduni e le umiliazioni e poi scendeva lento, posandosi sui berretti rigidi delle SS e sui capi arsi dal sole della povera gente.
Lino giocava con la sua arma preferita, una fionda autocostruita con cui scacciava lontano dalla sua casa i gechi. Aveva provato a chiedere ai grandi il perché di quelle violenze a cui aveva assistito, ma suo padre Angelo non aveva mai voglia di parlare e lo liquidava con la solita frase:
“Tra poco li cacceremo”.
Con i suoi sette anni era l'ultimo di quattro figli; troppo piccolo per lavorare i campi e troppo grande per non capire che a comandare veramente erano gli uomini in divisa che vedeva ogni tanto e non gli altri che vivevano in paese insieme a lui. Magro, biondiccio, impaziente di crescere per poter seguire i suoi fratelli, Lino passava le giornate in compagnia degli altri bimbi della zona, sempre fuori, all'aria aperta. Sapeva che al passaggio dei convogli militari doveva fermarsi e non guardare, attendere e infine tornare a casa prima possibile.
Accadde che un giorno, dopo il passaggio dei mezzi militari, sentì delle voci sconosciute non lontano da casa sua. Pietrificato, vide suo padre mentre veniva dapprima strattonato e poi picchiato da due militari tedeschi.
Sull'uscio guardavano la scena anche i suoi fratelli. Livio, il più grande, tentò di difendere il padre mentre veniva portato via ma si ritrovò ben presto colpito e sanguinante al volto.
Lino guardò gli occhi del militare mentre con uno stivale teneva ferma la testa del fratello: non percepì nessuna smorfia. I suoi sette anni non erano sufficienti a cogliere l'assenza della pietà e il disprezzo per la vita altrui. Richiamato dai suoi amici, corse tra le viuzze del paese per cercare di arrivare nella piazza principale in tempo per vedere cosa avrebbero fatto a suo padre.
Lo vide poggiato al muro lungo della Chiesa, col volto tumefatto dalle botte. Insieme a lui altri uomini. Padri, zii, parenti dei suoi amici.
Cercava l'uomo con lo sguardo e silenziosamente piangeva la sorte della sua famiglia.
Il rumore dei proiettili mentre mettevano fine alla vita di suo padre lo tramortirono. La polvere aciutta si alzò dal terreno, colpita dai loro corpi e si alzò ancora una volta nella piazza.
Lino allora aprì gli occhi e lo vide.
Esanime, sporco, insanguinato.
Corse da lui ma fu fermato da uno dei loro che lo teneva per un braccio. Lo morse rabbiosamente cercando di liberarsi, ma fu fermato facilmente.
Fu allora che la storia conobbe l'altra faccia della medaglia.
Il Capitano Heinrich Zoeller venne chiamato dai suoi superiori affinché mettesse fine a quella sceneggiata. Lui sapeva cosa volesse dire il Tenente Colonnello Wesfth con quella richiesta.
Ucciderlo subito, lontano dalla piazza.
Il militare e il bambino s'incamminarono verso gli ultimi ruderi del paese. Il Capitano Heinrich Zoeller guardava il piccolo e pensava al suo unico figlio. Biondo come lui. Alto come lui.
Doveva fermarsi e lo fece. Di fronte a lui la nuca del bambino.
Bastava un clic del grilletto e sarebbe finita. Il bimbo non si sarebbe accorto di nulla.
Poi si fermò e Lino dopo di lui.
Puntò l'arma sulla tempia destra di Lino e subito lo spinse giù per la valle.
“Scappa, scappa via bambino. Scappa.”
Pochi secondi dopo si udì uno sparo.
Dalla nuca il sangue gorgogliava copioso.
Gli occhi del Capitano Zoeller fissavano il cielo. O forse il vuoto.
Il Tenente Colonnello Wesfth lo finì con un secondo colpo, mortale, mentre sussurrava una piccola frase:
“Non si disubbidisce agli ordini, Capitano.”
Racconto di fantasia liberamente tratto dalla vera storia dell'Eccidio di Sant'Anna di Stazzema.
di Giancarmine Trotta
Il suono della BMW R75 e degli altri veicoli in dotazione alle truppe tedesche divenne sempre più tragicamente familiare ai cittadini del piccolo paese toscano. Il solo rotolare delle gomme sulle strade ciottolose dell'entroterra versiliese annunciava spesso urla, vessazioni, morte.
Come un pitone, i soldati tedeschi accerchiavano e asfissiavano il paese dettando legge, umiliando gli uomini e sbeffeggiando le donne.
I più coraggiosi furono i primi a morire e dopo di loro caddero uomini di tutte le età per le scuse più banali: uno sguardo di troppo, il silenzio non rispettato dopo un ordine, un servigio mal compiuto.
Solo la polvere rendeva gli uomini con la divisa simili a quelli che lavoravano il terreno o pascolavano le greggi. Un velo biancastro s'innalzava sulla via e sulla piazza dove avvenivano i raduni e le umiliazioni e poi scendeva lento, posandosi sui berretti rigidi delle SS e sui capi arsi dal sole della povera gente.
Lino giocava con la sua arma preferita, una fionda autocostruita con cui scacciava lontano dalla sua casa i gechi. Aveva provato a chiedere ai grandi il perché di quelle violenze a cui aveva assistito, ma suo padre Angelo non aveva mai voglia di parlare e lo liquidava con la solita frase:
“Tra poco li cacceremo”.
Con i suoi sette anni era l'ultimo di quattro figli; troppo piccolo per lavorare i campi e troppo grande per non capire che a comandare veramente erano gli uomini in divisa che vedeva ogni tanto e non gli altri che vivevano in paese insieme a lui. Magro, biondiccio, impaziente di crescere per poter seguire i suoi fratelli, Lino passava le giornate in compagnia degli altri bimbi della zona, sempre fuori, all'aria aperta. Sapeva che al passaggio dei convogli militari doveva fermarsi e non guardare, attendere e infine tornare a casa prima possibile.
Accadde che un giorno, dopo il passaggio dei mezzi militari, sentì delle voci sconosciute non lontano da casa sua. Pietrificato, vide suo padre mentre veniva dapprima strattonato e poi picchiato da due militari tedeschi.
Sull'uscio guardavano la scena anche i suoi fratelli. Livio, il più grande, tentò di difendere il padre mentre veniva portato via ma si ritrovò ben presto colpito e sanguinante al volto.
Lino guardò gli occhi del militare mentre con uno stivale teneva ferma la testa del fratello: non percepì nessuna smorfia. I suoi sette anni non erano sufficienti a cogliere l'assenza della pietà e il disprezzo per la vita altrui. Richiamato dai suoi amici, corse tra le viuzze del paese per cercare di arrivare nella piazza principale in tempo per vedere cosa avrebbero fatto a suo padre.
Lo vide poggiato al muro lungo della Chiesa, col volto tumefatto dalle botte. Insieme a lui altri uomini. Padri, zii, parenti dei suoi amici.
Cercava l'uomo con lo sguardo e silenziosamente piangeva la sorte della sua famiglia.
Il rumore dei proiettili mentre mettevano fine alla vita di suo padre lo tramortirono. La polvere aciutta si alzò dal terreno, colpita dai loro corpi e si alzò ancora una volta nella piazza.
Lino allora aprì gli occhi e lo vide.
Esanime, sporco, insanguinato.
Corse da lui ma fu fermato da uno dei loro che lo teneva per un braccio. Lo morse rabbiosamente cercando di liberarsi, ma fu fermato facilmente.
Fu allora che la storia conobbe l'altra faccia della medaglia.
Il Capitano Heinrich Zoeller venne chiamato dai suoi superiori affinché mettesse fine a quella sceneggiata. Lui sapeva cosa volesse dire il Tenente Colonnello Wesfth con quella richiesta.
Ucciderlo subito, lontano dalla piazza.
Il militare e il bambino s'incamminarono verso gli ultimi ruderi del paese. Il Capitano Heinrich Zoeller guardava il piccolo e pensava al suo unico figlio. Biondo come lui. Alto come lui.
Doveva fermarsi e lo fece. Di fronte a lui la nuca del bambino.
Bastava un clic del grilletto e sarebbe finita. Il bimbo non si sarebbe accorto di nulla.
Poi si fermò e Lino dopo di lui.
Puntò l'arma sulla tempia destra di Lino e subito lo spinse giù per la valle.
“Scappa, scappa via bambino. Scappa.”
Pochi secondi dopo si udì uno sparo.
Dalla nuca il sangue gorgogliava copioso.
Gli occhi del Capitano Zoeller fissavano il cielo. O forse il vuoto.
Il Tenente Colonnello Wesfth lo finì con un secondo colpo, mortale, mentre sussurrava una piccola frase:
“Non si disubbidisce agli ordini, Capitano.”
Racconto di fantasia liberamente tratto dalla vera storia dell'Eccidio di Sant'Anna di Stazzema.