Il pedinamento
Inviato: sabato 9 dicembre 2017, 15:36
L’ho riconosciuto subito. Il cappotto nero lungo quasi ai piedi, il berretto verde di lana. Tutto come da scheda. Gli occhiali senza montatura.
Mica facile beccarlo così subito, alla prima, appena spuntato dal portone. Quello è un grattacielo di uffici e abitazioni, 42 piani contati e ricontati, e dalla hall passano centinaia, forse migliaia di persone ogni ora. E m’è andata di lusso: qui intorno ci sono torri di 80, 90 piani, cristallo e acciaio o quel che è.
Si muove a piedi, c’è scritto. Bene, perché col traffico che c’è sarebbe stato un bel casino.
Saluto il bengalese che mi ha venduto l’accendino e parto. Gli lascio un vantaggio di 100, 150 metri, rallentando o accelerando; ogni tanto mi fermo, fingo di guardare le vetrine di Gucci, di Prada, di Zara Home. Lui si muove senza fretta, una cartella nera sotto il braccio, si guarda intorno. Facile, nessun problema. Lui non sa niente, così mi assicurano i clienti. Questi sì che sono professionisti: mai vista una scheda così dettagliata ¬– e poi i contatti solo tramite avvocato, la segretezza, il mistero sui nomi, le fideiussioni a garanzia, il compenso stellare.
C’è questo fatto, che ogni volta che si deve fermare a un semaforo si volta indietro. Guarda i culi delle ragazze, penso. Da domani parte la Settimana della Moda, e il Nuovo Centro è pieno di indossatrici e modelle. Io ho occhi solo per lui, va da sé.
Pare che stia andando verso il Morsello, e lì dovrò stringere le distanze: pieno di cinesi com’è, magari me lo perdo. Per fortuna lui è alto, i cinesi no.
Fa cose insolite. Io segno e fotografo – ho gli occhiali-spia. Si ferma a parlare con gente strana, non solo cinesi. Uomini in giacca e cravatta, che non te li aspetteresti qui nel Morsello. Un minuto o anche meno, una stretta di mano e via. Anch’io mi fermo, compro dim sum o robe così in qualche bottega, poi butto tutto nei cassonetti, tanto ho già pranzato. Ma questo fatto non mi piace per niente, questa cosa delle fermate a chiacchierare, dico.
Al Palazzo degli Dei e degli Antenati prende a sinistra. Viale Buozzi, la strada larga che punta dritta verso il mare. I cinesi si diradano metro dopo metro, le case basse e le lanterne rosse lasciano via via spazio a villette residenziali, odore di salmastro, giardini con olivi o palme spelacchiate. Meglio allargare la distanza, qui c’è meno gente. Lui cammina bene in vista sul bordo del marciapiede, qualche volta fa lo slalom tra le macchine in sosta. Perché, mi chiedo. Mai fatto un pedinamento così facile. E continua a non piacermi, questa cosa.
Sul lungomare c’è vento e fa freddo, e le onde si frangono sugli scogli e bagnano il marciapiede lato mare. Noi camminiamo su quello di fronte. Bar, ristoranti, negozietti di articoli da mare o souvenir – molti sono ancora chiusi, con cartelli tipo “APERTURA 15 MAGGIO”. Lui si siede a un tavolino di un bar, all’aperto nonostante il freddo. Per fortuna subito prima c’è il Sunshine Pub, e anch’io mi piazzo a un tavolo. Le barriere in plexiglass mi consentono di tenerlo d’occhio senza che mi possa notare. Per sicurezza cambio occhiali e rovescio il cappotto double face. Vedo che lui ordina qualcosa, si accende una sigaretta, la prima da quando è uscito. Apre appena la cartella nera e legge qualche foglio, flette il collo a destra e a sinistra, fa un paio di telefonate col cellulare. Io prendo nota.
È più di un’ora che lo seguo e ancora non è successo niente. Niente di notevole, almeno. I clienti non chiedevano qualcosa di specifico, né incontri con donne né spionaggio industriale né le altre solite cose, solo di documentare in dettaglio tutte le azioni. Lì per lì mi era parsa una richiesta tranquilla, non particolarmente consueta ma tranquilla. Adesso rifiuterei: non so, ci sono troppe cose che non quadrano – troppe piccole cose, che è ancora peggio.
Si alza dopo un quarto d’ora. Lo fa con calma, mettendo a posto tutti i documenti, ricontrollando il cellulare. Ho tutto il tempo per pagare il mio cappuccino, 3 Euro, ladri.
Continua in direzione sud. Là in fondo c’è il porto. E se è al porto che deve andare, certo non ha scelto la strada più breve, ha fatto un percorso a U: se avesse attraversato il centro storico, dritto per piazza San Lorenzo e Porta Ribalda, be’, avrebbe fatto parecchio prima.
C’è poca gente in giro, e lui continua con questa sua strana camminata sul ciglio del marciapiede, qualche volta direttamente sulla strada, la cartella sotto il braccio. Per viale della Costituzione i camion muggiscono a ogni intoppo del traffico, e il mare dietro di loro continua a imbestialirsi in onde e spruzzi.
Il porto è quasi deserto. Container piazzati come muraglie inespugnabili, camion portacontainer che corrono sull’asfalto, grosse navi in mare. Nessuno a piedi, solo io e lui. Qui la faccenda si fa complicata: se si volta mi vede, non ci piove. Allungo la distanza tra di noi, cerco di ripararmi tra cassone e cassone. Per fortuna lui se ne va dritto senza supporre la presenza di qualcuno alle sue spalle. E per fortuna tra poco il sole tramonta.
A un certo punto quello si ferma ad allacciarsi le scarpe. Come non mi piace questa cosa. Sembra di essere in un film di spie. Sto per infilarmi in un vicolo tra due pile di container quando lui si rialza e prende a correre. Cazzo. Che succede? Mi ha beccato? Lo escluderei, ma non si sa mai. Cazzo. Corro anch’io, cercando di fare meno rumore possibile.
Dopo un centinaio di metri si imbuca sulla destra, in una strada tra contenitore e contenitore. Io temo che si sia piazzato dietro l’angolo ad aspettarmi, così prendo il vicolo parallelo immediatamente precedente, cercando di aggirare un suo appostamento. Quando mi affaccio sul percorso dove si dovrebbe trovare, lui non c’è.
Sono combattuto tra la voglia di mandare tutto a puttane e la deontologia professionale – e il pensiero della parcella dei committenti, tutt’altro che trascurabile. In un attimo decido a favore dei soldi, e corro in mezzo al buio ormai esploso, ai muri di metallo, al fragore ritmato delle onde.
Lo trovo – mi trova – a un incrocio di ferro. Non è solo. Con lui una Beretta 92. Io non ho niente. Lui mi sta puntando l’arma. Sorride. Prendo fiato, mi asciugo il sudore, alzo le mani. “Posso spiegare”, dico.
“Non ce n’è bisogno”, dice lui. E riconosco la voce. E lo riconosco. “L’avvocato De Maria, la scheda, i 20mila Euro. So tutto. Sono io il tuo committente”.
Tutto si fa chiaro. Mi ricordo perfettamente di lui, di quando – quanto sarà?, 10, 15 anni fa? – finì in galera dopo che proprio io avevo intercettato le sue telefonate.
So già come andrà a finire questo pedinamento. L’ultima cosa che vedo è la gigantesca scritta “Hapag-Lloyd” sull’arancione acceso di un container.
Mica facile beccarlo così subito, alla prima, appena spuntato dal portone. Quello è un grattacielo di uffici e abitazioni, 42 piani contati e ricontati, e dalla hall passano centinaia, forse migliaia di persone ogni ora. E m’è andata di lusso: qui intorno ci sono torri di 80, 90 piani, cristallo e acciaio o quel che è.
Si muove a piedi, c’è scritto. Bene, perché col traffico che c’è sarebbe stato un bel casino.
Saluto il bengalese che mi ha venduto l’accendino e parto. Gli lascio un vantaggio di 100, 150 metri, rallentando o accelerando; ogni tanto mi fermo, fingo di guardare le vetrine di Gucci, di Prada, di Zara Home. Lui si muove senza fretta, una cartella nera sotto il braccio, si guarda intorno. Facile, nessun problema. Lui non sa niente, così mi assicurano i clienti. Questi sì che sono professionisti: mai vista una scheda così dettagliata ¬– e poi i contatti solo tramite avvocato, la segretezza, il mistero sui nomi, le fideiussioni a garanzia, il compenso stellare.
C’è questo fatto, che ogni volta che si deve fermare a un semaforo si volta indietro. Guarda i culi delle ragazze, penso. Da domani parte la Settimana della Moda, e il Nuovo Centro è pieno di indossatrici e modelle. Io ho occhi solo per lui, va da sé.
Pare che stia andando verso il Morsello, e lì dovrò stringere le distanze: pieno di cinesi com’è, magari me lo perdo. Per fortuna lui è alto, i cinesi no.
Fa cose insolite. Io segno e fotografo – ho gli occhiali-spia. Si ferma a parlare con gente strana, non solo cinesi. Uomini in giacca e cravatta, che non te li aspetteresti qui nel Morsello. Un minuto o anche meno, una stretta di mano e via. Anch’io mi fermo, compro dim sum o robe così in qualche bottega, poi butto tutto nei cassonetti, tanto ho già pranzato. Ma questo fatto non mi piace per niente, questa cosa delle fermate a chiacchierare, dico.
Al Palazzo degli Dei e degli Antenati prende a sinistra. Viale Buozzi, la strada larga che punta dritta verso il mare. I cinesi si diradano metro dopo metro, le case basse e le lanterne rosse lasciano via via spazio a villette residenziali, odore di salmastro, giardini con olivi o palme spelacchiate. Meglio allargare la distanza, qui c’è meno gente. Lui cammina bene in vista sul bordo del marciapiede, qualche volta fa lo slalom tra le macchine in sosta. Perché, mi chiedo. Mai fatto un pedinamento così facile. E continua a non piacermi, questa cosa.
Sul lungomare c’è vento e fa freddo, e le onde si frangono sugli scogli e bagnano il marciapiede lato mare. Noi camminiamo su quello di fronte. Bar, ristoranti, negozietti di articoli da mare o souvenir – molti sono ancora chiusi, con cartelli tipo “APERTURA 15 MAGGIO”. Lui si siede a un tavolino di un bar, all’aperto nonostante il freddo. Per fortuna subito prima c’è il Sunshine Pub, e anch’io mi piazzo a un tavolo. Le barriere in plexiglass mi consentono di tenerlo d’occhio senza che mi possa notare. Per sicurezza cambio occhiali e rovescio il cappotto double face. Vedo che lui ordina qualcosa, si accende una sigaretta, la prima da quando è uscito. Apre appena la cartella nera e legge qualche foglio, flette il collo a destra e a sinistra, fa un paio di telefonate col cellulare. Io prendo nota.
È più di un’ora che lo seguo e ancora non è successo niente. Niente di notevole, almeno. I clienti non chiedevano qualcosa di specifico, né incontri con donne né spionaggio industriale né le altre solite cose, solo di documentare in dettaglio tutte le azioni. Lì per lì mi era parsa una richiesta tranquilla, non particolarmente consueta ma tranquilla. Adesso rifiuterei: non so, ci sono troppe cose che non quadrano – troppe piccole cose, che è ancora peggio.
Si alza dopo un quarto d’ora. Lo fa con calma, mettendo a posto tutti i documenti, ricontrollando il cellulare. Ho tutto il tempo per pagare il mio cappuccino, 3 Euro, ladri.
Continua in direzione sud. Là in fondo c’è il porto. E se è al porto che deve andare, certo non ha scelto la strada più breve, ha fatto un percorso a U: se avesse attraversato il centro storico, dritto per piazza San Lorenzo e Porta Ribalda, be’, avrebbe fatto parecchio prima.
C’è poca gente in giro, e lui continua con questa sua strana camminata sul ciglio del marciapiede, qualche volta direttamente sulla strada, la cartella sotto il braccio. Per viale della Costituzione i camion muggiscono a ogni intoppo del traffico, e il mare dietro di loro continua a imbestialirsi in onde e spruzzi.
Il porto è quasi deserto. Container piazzati come muraglie inespugnabili, camion portacontainer che corrono sull’asfalto, grosse navi in mare. Nessuno a piedi, solo io e lui. Qui la faccenda si fa complicata: se si volta mi vede, non ci piove. Allungo la distanza tra di noi, cerco di ripararmi tra cassone e cassone. Per fortuna lui se ne va dritto senza supporre la presenza di qualcuno alle sue spalle. E per fortuna tra poco il sole tramonta.
A un certo punto quello si ferma ad allacciarsi le scarpe. Come non mi piace questa cosa. Sembra di essere in un film di spie. Sto per infilarmi in un vicolo tra due pile di container quando lui si rialza e prende a correre. Cazzo. Che succede? Mi ha beccato? Lo escluderei, ma non si sa mai. Cazzo. Corro anch’io, cercando di fare meno rumore possibile.
Dopo un centinaio di metri si imbuca sulla destra, in una strada tra contenitore e contenitore. Io temo che si sia piazzato dietro l’angolo ad aspettarmi, così prendo il vicolo parallelo immediatamente precedente, cercando di aggirare un suo appostamento. Quando mi affaccio sul percorso dove si dovrebbe trovare, lui non c’è.
Sono combattuto tra la voglia di mandare tutto a puttane e la deontologia professionale – e il pensiero della parcella dei committenti, tutt’altro che trascurabile. In un attimo decido a favore dei soldi, e corro in mezzo al buio ormai esploso, ai muri di metallo, al fragore ritmato delle onde.
Lo trovo – mi trova – a un incrocio di ferro. Non è solo. Con lui una Beretta 92. Io non ho niente. Lui mi sta puntando l’arma. Sorride. Prendo fiato, mi asciugo il sudore, alzo le mani. “Posso spiegare”, dico.
“Non ce n’è bisogno”, dice lui. E riconosco la voce. E lo riconosco. “L’avvocato De Maria, la scheda, i 20mila Euro. So tutto. Sono io il tuo committente”.
Tutto si fa chiaro. Mi ricordo perfettamente di lui, di quando – quanto sarà?, 10, 15 anni fa? – finì in galera dopo che proprio io avevo intercettato le sue telefonate.
So già come andrà a finire questo pedinamento. L’ultima cosa che vedo è la gigantesca scritta “Hapag-Lloyd” sull’arancione acceso di un container.