Un padre e un figlio (di Raffaele Marra)
Inviato: martedì 19 dicembre 2017, 0:30
Un padre e un figlio
Né il freddo, né la fame, né le mitragliatrici sovietiche. Il vero nemico di Mimì, in quel triste inverno lontano da casa, fu la solitudine.
Con i piedi nudi a bruciare nella neve e un corpo smunto e tremante avvolto nella coperta, se ne stava giorno e notte da solo a guardare nel nulla e ad attendere la fine. Intorno a sé non c’erano più i compagni di prigionia, portati via uno dopo l’altro da un destino che ora pareva più misericordioso del suo. Non gli avevano mai parlato, quei compagni di sventura che gli italiani come lui chiamavano Fritz, né durante né dopo la battaglia.
Qualunque fosse stato il loro vero nome, se n’erano andati via tra gli stenti, maledicendo o benedicendo Dio nella loro lingua incomprensibile. Così Mimì era rimasto solo, un po’ come quando, nella sua vera vita, passava intere giornate nei campi sotto il sole generoso della Lucania.
Sapeva che era la notte di Natale.
Ninuccio doveva essere lì, nella casa bianca sui calanchi, ad aggiungere legna nel camino e a consolare la mamma.
Tirò fuori le mani aggrinzite dalla coperta, e le affondò nella neve. Cominciò a modellare, come faceva con l’argilla per far giocare Ninuccio. Resistette qualche minuto, poi il dolore lo costrinse a lasciare la neve. Tossì, udendo quello strano sibilo nella gola, lo stesso che aveva udito dagli altri prigionieri: italiani o tedeschi, il suono dell’agonia era lo stesso. Riuscì a controllare gli spasmi, quindi tornò a osservare la neve davanti ai suoi piedi. Erano solo due cumuli, uno più grande dell’altro. Ma per lui, per quella notte, sarebbero stati un padre e un figlio.
Rocco e Peppino insistono, c’è uno, con tanti soldi, viene dalla città.
Dice che vuole parlarci, che gli servono uomini, che c’è da farsi ricchi; ci aspetta alla cantina per mangiare qualcosa insieme.
Mimì è stanco, vorrebbe starsene a casa, raccontare qualcosa a Ninuccio e poi dormire.
Ma Rocco e Peppino sono convinti che sia un’occasione da non perdere, per il bene loro e delle loro famiglie.
Va bene, magari solo mezz’ora.
Ma la cena è buona, il vino scorre a fiumi. Lo sconosciuto sorride sempre, dice cose che è difficile capire. Parla di progetti, di piccoli sacrifici che porteranno a grandi risultati, di giovani vigorosi di cui l’Italia è fiera. Ma cos’è poi l’Italia? Mimì conosce il suo campo, la sua casa, il suo paese; l’Italia in fondo non l’ha mai vista.
Però questa sera il vino è buono, e il signore dice che offre lui. È una bella serata, una buona compagnia e alla fine, per Mimì, Rocco e Peppino, non c’è nessun problema a mettere la firma su un foglio.
Si svegliò, sbatté le palpebre gelate, ebbe un altro attacco di tosse. Guardò i piedi bluastri chiedendosi quanti passi fossero occorsi per arrivare fino alla linea italiana del Don, là dove la divisione Pasubio era stata falcidiata dalle difese dell’Armata Rossa.
Poi lo sguardo tornò un po’ più in là, dove le sagome di neve continuavano a osservarlo mute e immobili.
Ninuccio diede un bacio alla mamma, le rimboccò le coperte lentamente, per non svegliarla, quindi tornò vicino al camino. Un ceppo ricurvo continuava silenziosamente a fumare. Il bambino lo fissò e, come aveva fatto per tutta la notte, tornò a pensare a suo padre. Poi lo sguardo si spostò sulle figure di argilla modellate il giorno prima: erano solo due cumuli, uno più grande dell’altro. Ma per quel giorno sarebbero stati un figlio e un padre.
Il soldato entrò accompagnato dal fruscio del pesante cappotto e dal tonfo sordo degli stivali nella neve. Si fermò a due metri da Mimì osservandolo severo dall’alto. Poi il suo sguardo raggiunse le figure di neve e l’uomo rimase a lungo a contemplarle. Mimì restò immobile, chiedendosi cosa passasse per la testa del suo carceriere. Infine il soldato scosse la testa, sospirò, quindi fissò gli occhi del prigioniero.
“Syn i otets”, disse. Poi annuì, attese qualche altro istante, quindi uscì in fretta.
Tornò un paio di minuti più tardi, con una sacca che buttò ai piedi di Mimì sfracellando le due sagome di neve.
“Syn i otets” ripeté sorridendo, poi sparì.
Mimì, confuso, aprì la sacca mentre già albeggiava: c’erano dei viveri, degli stivali e un cappotto pesante.
Riabbracciò sua moglie e suo figlio che era di nuovo dicembre. Per tornare ci aveva messo un anno, ma i suoi piedi e la sua voglia di casa lo avevano sostenuto fino in fondo. Visse così il Natale più intenso della sua vita, nell’affetto della famiglia e nel ricordo dei suoi compagni, dei tanti Fritz mai realmente conosciuti e di quel soldato russo che, ne era certo, era fuggito come lui per tornare dai suoi.
“Papà, ho scoperto una cosa”, gli disse poi Ninuccio, mentre alimentava il focolare. “Sai come si dice padre e figlio in russo?”. Mimì lo sapeva, lo aveva capito, ma lasciò al figlio la gioia di dirglielo.
Né il freddo, né la fame, né le mitragliatrici sovietiche. Il vero nemico di Mimì, in quel triste inverno lontano da casa, fu la solitudine.
Con i piedi nudi a bruciare nella neve e un corpo smunto e tremante avvolto nella coperta, se ne stava giorno e notte da solo a guardare nel nulla e ad attendere la fine. Intorno a sé non c’erano più i compagni di prigionia, portati via uno dopo l’altro da un destino che ora pareva più misericordioso del suo. Non gli avevano mai parlato, quei compagni di sventura che gli italiani come lui chiamavano Fritz, né durante né dopo la battaglia.
Qualunque fosse stato il loro vero nome, se n’erano andati via tra gli stenti, maledicendo o benedicendo Dio nella loro lingua incomprensibile. Così Mimì era rimasto solo, un po’ come quando, nella sua vera vita, passava intere giornate nei campi sotto il sole generoso della Lucania.
Sapeva che era la notte di Natale.
Ninuccio doveva essere lì, nella casa bianca sui calanchi, ad aggiungere legna nel camino e a consolare la mamma.
Tirò fuori le mani aggrinzite dalla coperta, e le affondò nella neve. Cominciò a modellare, come faceva con l’argilla per far giocare Ninuccio. Resistette qualche minuto, poi il dolore lo costrinse a lasciare la neve. Tossì, udendo quello strano sibilo nella gola, lo stesso che aveva udito dagli altri prigionieri: italiani o tedeschi, il suono dell’agonia era lo stesso. Riuscì a controllare gli spasmi, quindi tornò a osservare la neve davanti ai suoi piedi. Erano solo due cumuli, uno più grande dell’altro. Ma per lui, per quella notte, sarebbero stati un padre e un figlio.
Rocco e Peppino insistono, c’è uno, con tanti soldi, viene dalla città.
Dice che vuole parlarci, che gli servono uomini, che c’è da farsi ricchi; ci aspetta alla cantina per mangiare qualcosa insieme.
Mimì è stanco, vorrebbe starsene a casa, raccontare qualcosa a Ninuccio e poi dormire.
Ma Rocco e Peppino sono convinti che sia un’occasione da non perdere, per il bene loro e delle loro famiglie.
Va bene, magari solo mezz’ora.
Ma la cena è buona, il vino scorre a fiumi. Lo sconosciuto sorride sempre, dice cose che è difficile capire. Parla di progetti, di piccoli sacrifici che porteranno a grandi risultati, di giovani vigorosi di cui l’Italia è fiera. Ma cos’è poi l’Italia? Mimì conosce il suo campo, la sua casa, il suo paese; l’Italia in fondo non l’ha mai vista.
Però questa sera il vino è buono, e il signore dice che offre lui. È una bella serata, una buona compagnia e alla fine, per Mimì, Rocco e Peppino, non c’è nessun problema a mettere la firma su un foglio.
Si svegliò, sbatté le palpebre gelate, ebbe un altro attacco di tosse. Guardò i piedi bluastri chiedendosi quanti passi fossero occorsi per arrivare fino alla linea italiana del Don, là dove la divisione Pasubio era stata falcidiata dalle difese dell’Armata Rossa.
Poi lo sguardo tornò un po’ più in là, dove le sagome di neve continuavano a osservarlo mute e immobili.
Ninuccio diede un bacio alla mamma, le rimboccò le coperte lentamente, per non svegliarla, quindi tornò vicino al camino. Un ceppo ricurvo continuava silenziosamente a fumare. Il bambino lo fissò e, come aveva fatto per tutta la notte, tornò a pensare a suo padre. Poi lo sguardo si spostò sulle figure di argilla modellate il giorno prima: erano solo due cumuli, uno più grande dell’altro. Ma per quel giorno sarebbero stati un figlio e un padre.
Il soldato entrò accompagnato dal fruscio del pesante cappotto e dal tonfo sordo degli stivali nella neve. Si fermò a due metri da Mimì osservandolo severo dall’alto. Poi il suo sguardo raggiunse le figure di neve e l’uomo rimase a lungo a contemplarle. Mimì restò immobile, chiedendosi cosa passasse per la testa del suo carceriere. Infine il soldato scosse la testa, sospirò, quindi fissò gli occhi del prigioniero.
“Syn i otets”, disse. Poi annuì, attese qualche altro istante, quindi uscì in fretta.
Tornò un paio di minuti più tardi, con una sacca che buttò ai piedi di Mimì sfracellando le due sagome di neve.
“Syn i otets” ripeté sorridendo, poi sparì.
Mimì, confuso, aprì la sacca mentre già albeggiava: c’erano dei viveri, degli stivali e un cappotto pesante.
Riabbracciò sua moglie e suo figlio che era di nuovo dicembre. Per tornare ci aveva messo un anno, ma i suoi piedi e la sua voglia di casa lo avevano sostenuto fino in fondo. Visse così il Natale più intenso della sua vita, nell’affetto della famiglia e nel ricordo dei suoi compagni, dei tanti Fritz mai realmente conosciuti e di quel soldato russo che, ne era certo, era fuggito come lui per tornare dai suoi.
“Papà, ho scoperto una cosa”, gli disse poi Ninuccio, mentre alimentava il focolare. “Sai come si dice padre e figlio in russo?”. Mimì lo sapeva, lo aveva capito, ma lasciò al figlio la gioia di dirglielo.