Come ti chiami - di Gianpiero Negri
Inviato: lunedì 22 gennaio 2018, 23:54
NOTA DELL'ANTICO: Racconto inviato via mail alle ore 22.26 a causa di problematiche con la registrazione dell'utente. Gli ho creato un account, domani ne prenderà possesso.
Come ti chiami
di Gianpiero Negri
Avevo già pensato e riflettuto fin troppo. Almeno, prima che l'idea finale mi rimbalzasse nella mente e la vedessi in tutta la sua chiara, fulgida ovvietà.
Andiamo però per gradi: tutto è iniziato quel giorno in cui era già troppo tardi per fare qualunque cosa, tranne, a quanto pare, conoscere lei.
E, in fondo, era stata una questione di centimetri, ma no, non quei centimetri di cui un maschio in genere si vanta tanto, scambiando profondità di vedute e durezza di propositi per attributi più concreti e meno vincenti. No, no.
I centimetri erano quelli che separavano me da quella nuvola di capelli biondi che, per fortuna o per biblica maledizione, non erano abbastanza per evitarci un secco urto sotto la pensilina di un tram ritardatario.
"Cazzo!", fece lei, con una voce chiara, in fondo allegra, divertita. Ed io fui subito perso.
"Ti sei fatta male?", azzardai, mentre mi massaggiavo una spalla, con metà della faccia in preda al disappunto e l'altra metà già inebetita dalla, finalmente-che-dio-sia-lodato, azzurrità di uno sguardo nuovo e antico, come un gusto di gelato insolito in un cono per dinosauri.
"Lascia stare", tagliò corto lei,"Che ore sono?"
"Un quarto alle sette", risposi, dopo un rapido sguardo al mio cellulare. Io non portavo orologi da anni, l'ultimo lo avevo rotto spaccando uno specchio. Non anticipiamo le cose, però. Il tempo ha un suo ordine circolarmente ordinato.
"Io detesto due cose di questa storia", mormorò lei, stizzita, "La prima è quando uno dice 'un quarto alle sette' invece di dire che sono le sette meno un quarto"
"E l'altra?"
"Anche stasera sono in ritardo!", rispose, con una fretta quasi isterica.
"In ritardo?", chiesi io, ma era evidentemente una domanda stupida, visto che lei si intabarró nella lunga sciarpa bordeaux e cominciò a sgambettare, in quei suoi jeans a zampa di elefante, facendomi cenno con la mano di seguirla. Una figura esile ed elegante immersa in quella sottile nebbia serale. Mollai tutto e le andai dietro.
"Puoi non credermi", cominciò a raccontarmi, continuando a camminare svelta,"ma quell'urto con te ha provocato un guaio enorme"
"Ne sono sicuro", farfugliai tra me e me.
"Dico sul serio", disse lei, "ho perso l'attimo ormai"
"Di che diavolo stai parlando?", chiesi io, incuriosito.
"Che ne sai tu", fece lei, con una adorabile espressione saccente. Poi si piantò, di colpo.
Di fronte a noi c'era un muro molto alto, che non ricordavo in quella parte della nostra famosa città. Era talmente alto che non se ne vedeva la sommità, e si perdeva in mezzo a dei cumuli di nubi morbide e biancastre.
"Oltre questo muro c'è la risposta alla prossima domanda che stai per farmi", disse lei, sospirando, "A volerla dire tutta, oltre questo muro c'è la risposta ad ogni possibile domanda, ma non mi aspetto di certo che un testone come te possa capirlo"
Io lì per lì restai interdetto, perchè una domanda ce l'avevo davvero. Ne feci un'altra, però, in fondo volevo rendermi interessante.
"È un sogno?"
Lei mi fissò con uno sguardo attento, indagatore, e poi fece una cosa che quel cumulo di biondezza e azzurrità non avrebbe lasciato mai presagire.
Mi sorrise, ed era triste.
"Neanche stavolta è successo", sussurrò. Ed io stavo per parlarle ancora, quando improvvisamente mi svegliai. Provai la delusione di un bimbo che scopre che nulla era vero, che nessun magico giocattolo volante gli era stato regalato per Natale, invece di quelle stupide scarpe o di quella inutilizzata pianola scordata. Mi alzai e, ciabattando, mi immersi nel mio solito rituale del caffè. Avrei avuto di lì a poco lezione di matematica, porca troia, e di quella merda di spazi funzionali non avevo capito una emerita. E però un peso strano al polso mi costrinse ad abbassare lo sguardo. E, non ci crederete, avevo il mio vecchio orologio. Impossibile. Ero stupefatto. Mi precipitai in bagno, e osservai sgomento lo specchio. Non c'era quella crepa, turpe vestigia del giorno in cui avevo rotto specchio e orologio con un pugno. Per quale motivo poi?
Non lo ricordavo più. Avevo solo il mio orologio al polso, ed una semplice scelta da fare.
D'un tratto capii. Era solo questione di porre la domanda giusta. E così respirai a fondo, chiusi gli occhi, e colpii di nuovo lo specchio. Sentii un dolore e poi il sangue lungo il polso. Ero sollevato: tutto era tornato al suo posto. L'orologio rotto segnava un quarto alle sette, di nuovo, ma stavolta io avevo la domanda giusta. E solo qualche altri anno da attendere, ma chi se ne fregava. Avrei aspettato, nessuna tempesta o mare calmo col potere di distogliermi. E gli anni sarebbero passati, le ferite a divenire cicatrici, e gli specchi rotti sotto i colpi del tempo avrebbero ripreso la loro forma migliore. Ed io avevo, finalmente, una preziosa domanda giusta.
Come ti chiami, le avrei chiesto stavolta. Come ti chiami.
Come ti chiami
di Gianpiero Negri
Avevo già pensato e riflettuto fin troppo. Almeno, prima che l'idea finale mi rimbalzasse nella mente e la vedessi in tutta la sua chiara, fulgida ovvietà.
Andiamo però per gradi: tutto è iniziato quel giorno in cui era già troppo tardi per fare qualunque cosa, tranne, a quanto pare, conoscere lei.
E, in fondo, era stata una questione di centimetri, ma no, non quei centimetri di cui un maschio in genere si vanta tanto, scambiando profondità di vedute e durezza di propositi per attributi più concreti e meno vincenti. No, no.
I centimetri erano quelli che separavano me da quella nuvola di capelli biondi che, per fortuna o per biblica maledizione, non erano abbastanza per evitarci un secco urto sotto la pensilina di un tram ritardatario.
"Cazzo!", fece lei, con una voce chiara, in fondo allegra, divertita. Ed io fui subito perso.
"Ti sei fatta male?", azzardai, mentre mi massaggiavo una spalla, con metà della faccia in preda al disappunto e l'altra metà già inebetita dalla, finalmente-che-dio-sia-lodato, azzurrità di uno sguardo nuovo e antico, come un gusto di gelato insolito in un cono per dinosauri.
"Lascia stare", tagliò corto lei,"Che ore sono?"
"Un quarto alle sette", risposi, dopo un rapido sguardo al mio cellulare. Io non portavo orologi da anni, l'ultimo lo avevo rotto spaccando uno specchio. Non anticipiamo le cose, però. Il tempo ha un suo ordine circolarmente ordinato.
"Io detesto due cose di questa storia", mormorò lei, stizzita, "La prima è quando uno dice 'un quarto alle sette' invece di dire che sono le sette meno un quarto"
"E l'altra?"
"Anche stasera sono in ritardo!", rispose, con una fretta quasi isterica.
"In ritardo?", chiesi io, ma era evidentemente una domanda stupida, visto che lei si intabarró nella lunga sciarpa bordeaux e cominciò a sgambettare, in quei suoi jeans a zampa di elefante, facendomi cenno con la mano di seguirla. Una figura esile ed elegante immersa in quella sottile nebbia serale. Mollai tutto e le andai dietro.
"Puoi non credermi", cominciò a raccontarmi, continuando a camminare svelta,"ma quell'urto con te ha provocato un guaio enorme"
"Ne sono sicuro", farfugliai tra me e me.
"Dico sul serio", disse lei, "ho perso l'attimo ormai"
"Di che diavolo stai parlando?", chiesi io, incuriosito.
"Che ne sai tu", fece lei, con una adorabile espressione saccente. Poi si piantò, di colpo.
Di fronte a noi c'era un muro molto alto, che non ricordavo in quella parte della nostra famosa città. Era talmente alto che non se ne vedeva la sommità, e si perdeva in mezzo a dei cumuli di nubi morbide e biancastre.
"Oltre questo muro c'è la risposta alla prossima domanda che stai per farmi", disse lei, sospirando, "A volerla dire tutta, oltre questo muro c'è la risposta ad ogni possibile domanda, ma non mi aspetto di certo che un testone come te possa capirlo"
Io lì per lì restai interdetto, perchè una domanda ce l'avevo davvero. Ne feci un'altra, però, in fondo volevo rendermi interessante.
"È un sogno?"
Lei mi fissò con uno sguardo attento, indagatore, e poi fece una cosa che quel cumulo di biondezza e azzurrità non avrebbe lasciato mai presagire.
Mi sorrise, ed era triste.
"Neanche stavolta è successo", sussurrò. Ed io stavo per parlarle ancora, quando improvvisamente mi svegliai. Provai la delusione di un bimbo che scopre che nulla era vero, che nessun magico giocattolo volante gli era stato regalato per Natale, invece di quelle stupide scarpe o di quella inutilizzata pianola scordata. Mi alzai e, ciabattando, mi immersi nel mio solito rituale del caffè. Avrei avuto di lì a poco lezione di matematica, porca troia, e di quella merda di spazi funzionali non avevo capito una emerita. E però un peso strano al polso mi costrinse ad abbassare lo sguardo. E, non ci crederete, avevo il mio vecchio orologio. Impossibile. Ero stupefatto. Mi precipitai in bagno, e osservai sgomento lo specchio. Non c'era quella crepa, turpe vestigia del giorno in cui avevo rotto specchio e orologio con un pugno. Per quale motivo poi?
Non lo ricordavo più. Avevo solo il mio orologio al polso, ed una semplice scelta da fare.
D'un tratto capii. Era solo questione di porre la domanda giusta. E così respirai a fondo, chiusi gli occhi, e colpii di nuovo lo specchio. Sentii un dolore e poi il sangue lungo il polso. Ero sollevato: tutto era tornato al suo posto. L'orologio rotto segnava un quarto alle sette, di nuovo, ma stavolta io avevo la domanda giusta. E solo qualche altri anno da attendere, ma chi se ne fregava. Avrei aspettato, nessuna tempesta o mare calmo col potere di distogliermi. E gli anni sarebbero passati, le ferite a divenire cicatrici, e gli specchi rotti sotto i colpi del tempo avrebbero ripreso la loro forma migliore. Ed io avevo, finalmente, una preziosa domanda giusta.
Come ti chiami, le avrei chiesto stavolta. Come ti chiami.