Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il due gennaio sveleremo il tema deciso da Andrea Atzori. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Andrea Atzori assegnerà la vittoria.
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Eugene Fitzherbert
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Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Messaggio#1 » domenica 18 marzo 2018, 19:44

Arcade Racing HG – Tratto da una storia vera
Di Eugene Fitzherbert


1. Arcade Racing HG
Toby entrò nel soggiorno illuminato dalla luce opaca del sole pomeridiano di marzo. Si sentiva intontito dopo il suo pisolino. Si stravaccò sul divano, come era suo solito, e annaspò alla ricerca del telecomando e del joypad, dispersi tra i cuscini.
Una volta impugnati le sue ‘armi’, accese la TV e si preparò per una nuova sessione al suo gioco preferito, Arcade Racing HG, un gioco di auto futuristico, dove lui era il migliore.
Dopo la musica introduttiva e il titolo, un’icona a forma di busta da lettera cominciò a lampeggiare in basso a destra dello schermo: un messaggio da un altro giocatore. Non sapeva neanche di essere connesso a internet, ma probabilmente qualcuno aveva modificato le impostazioni della console. Aprì il messaggio: era PowerEddie che chiedeva la condivisione del suo fantasma, per battere il record sulla pista Snow Fall, la più complessa del gioco e la sua preferita.
Toby sorrise e accettò di buon grado: d’altronde PowerEddie era suo padre. Il sistema caricò i dati del suo fantasma e li inviò al suo avversario e subito la schermata mutò. Sullo schermo c’era la sua macchina, rossa e con i jet propulsivi argentati, leggermente trasparente (il Fantasma, appunto) che avrebbe giocato passivamente, ripetendo la gara del record, mentre accanto, tangibile e dai colori solidi c’era lo spiderino di suo padre, con le cromature verde smeraldo.
Toby indossò l’auricolare e invitò Eddie a una chat vocale.
«Ciao, Toby!» lo salutò suo padre, la voce gracchiante che percorreva chilometri e chilometri.
«Sono ancora un po’ intontito, sai. Mi sono appena svegliato.»
«Che ore sono lì da te?» Chiese Eddie.
«Non lo so, forse le 3 del pomeriggio, credo. Non ho un orologio.» Fece una piccola pausa, come se stesse pensando, poi riprese. «Allora, vuoi riprovare a battere il mio record? Tanto non ci riesci.»
«Questa potrebbe essere la volta buona, anche se sei davvero troppo bravo.»
Toby ridacchiò a quelle parole, pensando che in realtà era lui a essere scarso. Si fece serio nuovamente e chiese: «Papà, ma dove sei?»
Eddie grugnì nelle cuffie del ragazzo e Toby non seppe dire se c’era anche un accenno di sospiro e di sofferenza dietro quel verso. Forse era la frustrazione per non riuscire a battere il suo record. «Tesoro, sono molto lontano, lo sai.»
«Ci rivedremo, no? Non è che sei andato via per sempre!» Toby avvertì un po’ di angoscia attanagliarli le viscere. L’idea di non poter vedere suo padre era qualcosa di dolorosissimo.
«Credo di sì, ci rivedremo. Non preoccuparti. Ah dannazione!» Esclamò Eddie, mentre Toby lo guardava finire fuori strada alla penultima curva.
Aveva perso ancora.

2. L’Odore e la Musica
Toby arricciò il naso, avvertiva qualcosa di strano nell’aria. «Credo che la mamma stia preparando i popcorn. Sento l’odore fin qua.» Si fermò un attimo. «È strano, non sento solo odore di popcorn. C’è anche quella puzza che viene fuori dalla marmitta della macchina del nonno, quell’odore bruciato e oleoso.»
«Il diesel andato a male?»
«Sì! In casa c’è questa puzza e l’odore di popcorn. Forse viene da fuori.»
«Toby, stai bene? È tutto ok? Sei da solo?»
La voce di suo padre sembrava vagamente preoccupata, ma Toby si affrettò a rassicurarlo. «Tutto ok, papà. Credo di essere da solo in casa, forse mamma è uscita per fare compere.» Toby si fermò un attimo. «Ma deve essere uscita da poco, perché altrimenti chi ha messo a fare i popcorn?» Sull’ultima parola la sua voce si ruppe leggermente, come se qualcosa di stridente e sbagliato fosse affiorato per un attimo tra i suoi pensieri. Ma la sensazione sparì subito, lasciandogli solo una sensazione sgradevole in fondo alla gola.
Si mise seduto meglio sul divano, per concentrarsi sulla partita di suo padre, cercando di nascondere il disagio che lo stava pervadendo. «Sai, papà, stanotte ho fatto un sogno strano. Deve essere strano, perché non me lo ricordo quasi del tutto. C’era solo quella sensazione fastidiosa di cadere. Hai presente?»
«Certo che ce l’ho presente. Càpita anche a me e mi sveglio di soprassalto, quasi tremando. Anche tu fai così?»
Toby rifletté un attimo. «Non mi ricordo di essermi spaventato o di essermi svegliato di soprassalto. Mi ricordo solo che stavo cadendo. E ricordo una musica fortissima. Di quelle brutte, che fanno unz unz
Suo padre rise a quella frase, ma Toby non ci trovava niente di divertente. Era comunque una musica che gli suscitava brutte emozioni, forse perché era davvero una musica insopportabile.
Come se l’avesse evocata, da lontano il ragazzo sentì il tonfo martellante dei bassi e le melodie immediate e taglienti delle canzoni da discoteca che viaggiavano per l’aria e attraversavano le mura della sua casa. Qualcuno aveva acceso uno stereo a poche abitazioni di distanza e stava spargendo questo rumore fastidioso per tutta la strada. «Hanno ricominciato con questa musica. È un tormento, davvero. Non la sopporto, mi fa quasi star male.»
«Sei il mio degno figlio!» gli rispose il padre. «Dimmi che altro hai sognato, tesoro.»
«Non chiamarmi tesoro, lo sai che ho quasi dodici anni. Sono un ragazzo, non un bambino!» Non aveva mai amato questo modo di fare di suo padre, sempre pieno di vezzeggiativi, anche ora che stava crescendo e stava già pensando a quale motorino farsi regalare.
«Non avere fretta di crescere, fidati di me che ho 54 anni suonati e sono ancora qui a provare a battere il tuo record!»
Toby rise a quelle parole. «E se continui a giocare così male non ci riuscirai mai. Non puoi vincere se usi il turbo così male!»
«Non è colpa mia se sei più forte di me, tesoro!» E rise anche Eddie, una risata che aveva qualcosa di stonato che graffiò quasi le orecchie di Toby, come se fosse fuori luogo, o forzata, o tutt’e due.
In quel momento, avvertì una leggera brezza scuotergli i capelli, come un venticello fresco e cristallino. Un brivido lo percorse da capo a piedi e non seppe neanche spiegarsi il motivo. Sicuramente era sua madre che era tornata ed aveva aperto la porta. La chiamò a gran voce, ma dalla casa non giunse alcuna risposta. Solo un altro alito di quel venticello sbagliato.

3. Deterioramento
«C’è tua madre lì con te?» chiese Eddie dall’altra parte delle cuffie. A Toby sembrò quasi che il suo tono fosse terrorizzato, addirittura peggiore della risata di poco prima.
«Non credo, però ho sentito una brezzolina per casa. Forse ho lasciato qualche finestra aperta e c’è una corrente d’aria.»
Suo padre non commentò. Si sentiva solo il respiro pensieroso e assorto nel tentativo di battere il suo record. Quando Toby stava per richiamarlo alla realtà, sentì Eddie mormorare: «Sta accadendo sempre prima, e sempre con più veemenza. Dannazione!»
«Che vuoi dire, papà? Cosa sta accadendo?» Toby era vagamente spaventato. Non aveva mai sentito suo padre essere così criptico: sembrava come se stesse soppesando delle alternative dolorose e drammatiche, era il tono di un uomo condannato a perdere, qualsiasi carta giochi.
«Lascia stare, figliuolo, sono solo parole di un vecchio stanco. Dimmi, invece, che ore hai detto che sono?»
«Sono tre del pomeriggio e mi sono appena alzato dal mio sonnellino.» Rispose prontamente Toby. Istintivamente si voltò verso la finestra, mentre suo padre prendeva malissimo una curva e faceva schiantare il suo bolide contro il guardrail. Era incommentabile, quanto guidasse male!
Con sua sorpresa, la luce fuori dalla finestra cominciò a mutare: il blu terso cominciò a tingersi di viola, a farsi più scuro. Il pomeriggio lasciò lo spazio alla notte nel giro di pochi secondi, oscurando l’accenno di sole fresco che l’aveva accompagnato fino a quel momento.
«Ma…» fu in grado di dire Toby.
«Che succede? Si è fatto buio?» gli chiese suo padre.
«Sì. Come fai a saperlo, papà. È un’eclissi? Sta succedendo anche da te?»
«Tesoro, io sono lontanissimo, ma da come ti sei sorpreso pensavo che fosse una cosa del genere. Non spaventarti, non è la prima volta che vediamo un fenomeno del genere.»
«Davvero? Allora è un’eclissi! Come quella del film?» E corse verso la finestra per vedere il sole cancellato dalla forma tonda e nera della luna. Ma fuori non era per niente come l’eclissi dei film. Era semplicemente notte, con le stelle in alto e le luci artificiali in basso. «Che strano, sembra notte. Perché è notte alle tre del pomeriggio? Che sta succedendo, papà? Sei tu a fare questo?»
«Toby, lascia perdere. Torna qui vicino alla televisione. Stai con me, giochiamo insieme. Non ti preoccupare.»
Ma Toby non aveva intenzione di non preoccuparsi. Fuori le cose stavano diventando sempre più strane: le luci si stavano alterando, il colore glaciale delle lampade al led lungo la strada era sopraffatto dalle fantasie cangianti di luci stroboscopiche colorate che arrivano dal nulla, sempre più veloci e forti, una girandola di scintille luminose.
«Papà, sei tu? Stai modificando tu le luci?»
«E come potrei? Sono lontanissimo, te l’ho detto. Come posso intervenire su quello che vedi?»
Ma in cuor suo Toby sapeva che suo padre gli stava mentendo: forse era il tono un po’ troppo frettoloso, il suo invito a rimanere vicino a lui, il suo monito ad allontanarsi dalla finestra. Forse niente di tutto ciò, ma solo una seccante sensazione di avere di fronte tante cose sbagliate.
«Che sta succedendo adesso?» si chiese quasi senza volerlo. Fuori dalla finestra la strada era vuota, spazzata dalle luci cangianti, tempestata di azzurro e rosa, lampi luminosi che arrivavano da chissà dove e ora ad aggiungersi a questa cacofonia sensoriale senza fondamento, si associarono i rumori che sovrastavano la musica dance, un vociare intenso e microfonato, parole ancora non intellegibili, boati carichi di entusiasmo, suoni prodotti dall’uomo che incitavano e spingevano. Toby si sentiva ubriacato, guardando fuori dalla finestra, mentre l’odore dei popcorn si accentuava, mischiandosi a quello industriale di qualche combustibile. Non capiva come potessero essere messe insieme tutti quegli input, quale affresco potessero mai mostrare se visti nella giusta prospettiva, soprattutto se si considerava il fatto che la strada era completamente deserta...
«Papà, perché tutto si sta trasformando? Cosa mi stai facendo? Voglio che ritorni come era prima, voglio che tu sia qui e che ci sia anche la mamma! Dove sei?»
«Bambino mio, non posso raggiungerti, ma posso dirti di non aver paura. Tutto ritornerà normale tra un po’. Resta con me, vieni a vedere come gioco.»
Toby quasi si persuase a fare quello che voleva il padre, si voltò nuovamente verso la TV in tempo per vedere l’ennesimo errore di guida. Sembrava quasi che… «Ma tu la stai facendo apposta! Stai sbagliando di proposito! Perché?»
Invece della risposta del padre, Toby sentì fuori dalla finestra il vociare elettronico delle sirene, in lontananza che si avvicinavano ineluttabili. Era la polizia? Erano i pompieri? E stavano venendo per lui?
In quel momento, quasi dal nulla, la paranoia lo pervase e lo scaraventò nell'incubo, un incubo che nonostante tutto sembrava quasi vero.

4. Giro Finale
«TOBY, allontanati dalla finestra, almeno questa volta, ascolta tuo padre!» Le parole esplosero nei suoi auricolari, impregnati della disperazione del padre. «Vieni qui, alla TV, stai con me! Te lo chiedo da anni!»
Toby non gli diede ascolto. Era terrorizzato: ora la casa era invasa dagli odori fuori luogo di popcorn e gasolio, dal vociare indistinto, dalla musica ad alto volume. Le luci erano penetrate nel soggiorno, trasformando la stanza in un caleidoscopio incomprensibile di ombre cangianti. Le sirene erano sempre più vicine.
Per qualche motivo, per un istinto che gli giungeva da profondità che non pensava neanche potessero essere sondate, era convinto che il responsabile di tutta questa baraonda fosse suo padre. Non sapeva dire perché, ma gli sembrava quasi logico. Suo padre che era lontanissimo, quasi incorporeo, lo stava torturando, stava giocando con lui nella maniera più crudele che potesse esserci, facendogli credere di essere pazzo.
I pensieri si affollavano sempre più oscuri e velenosi nella sua testa, pericolosamente rivolti verso suo padre. «Sei tu, vero? Sei tu ad aver fatto questo?» Gli ringhiò contro.
«Toby, per favore, non diventare aggressivo, non prendertela con me. Non avere paura, non c’è niente di preoccupante.»
«Come sarebbe a dire? Le senti, le sirene? E ora…» prestò orecchio all’esterno e nonostante la strada fosse completamente deserta, sentiva chiaramente urla terrorizzate arrivare da più parti, come se una folla all’improvviso avesse assistito a qualcosa di irrimediabile e drammatico. «C’è gente che grida, là fuori. Solo che non c’è nessuno! E tu vorresti farmi credere che non stia succedendo niente?»
«Toby, ascoltami, non sono io a fare questo. Ma credo che evidentemente tua madre aveva ragione, dodici anni fa, quando per la prima volta ho giocato con te a Arcade Racing HG. Alla lunga ti avrebbe rovinato…»
«Dodici anni fa? Non ero neanche nato! Ma che cazzo stai dicendo!?»
«Modera i termini, Toby, sono pur sempre tuo padre. Ti sto chiedendo di fidarti di me. Vieni qui vicino alla TV, guardami e parliamo insieme. Non preoccuparti delle urla, lasciale fuori dalla tua attenzione.»
Le parole convincenti di suo padre lo persuasero a dargli retta. Si spostò verso il divano, si sedette e guardò verso la finestra. Inorridì alla visione della scia di sangue che si era lasciato dietro, un lungo segno rosso che scintillava stroboscopicamente, a volte nero, a volte porpora, a volte rosso brillante, che dalla finestra lo seguiva fino al divano.
Lasciò cadere il joypad che aveva tenuto saldamente in mano fino a quel momento. Il pezzo di plastica cadde a terra, e con un rumore quasi organico si frantumò al suolo, come se fosse fatto di cristallo e sangue, come se fosse un essere vivente.
Toby urlò, mentre suo padre gli parlava nell’auricolare. «Toby, dio santo, è terribile quello che sta succedendo, lo sento. Ma dannazione, cosa dovevo fare? Questo gioco è l’unica cosa che ci unisce, questo savegame è la sola cosa che ci tiene in contatto. Non posso vincere, altrimenti il gioco lo cancellerà.»
«Papà, smettila di dire assurdità. Non sai cosa sta succedendo, qui, sento rumori metallici, la televisione sfarfalla, dentro ci sono io. Sto… sto volando! Sono in tv e volo! Perché?»
«Ho esagerato, non avrei dovuto mettermi in contatto con te già da tanto tempo. Ormai riusciamo a sentirci solo per pochi minuti prima che tutto crolli. Ho preso la mia decisione, però, figliuolo»
In quel momento, lo schermo della TV fu percorso da una crepa profonda, in diagonale, e del fumo azzurrognolo ne uscì fuori. Toby rimase a fissare l’immagine spezzata della partita di suo padre, affascinato.
Vide la macchina di PowerEddie scattare in avanti all’inseguimento della sua. Dopo le prime curve però non sembrava dovesse cambiare granché, visto che i due contendenti, il fantasma e il tangibile, le affrontavano alla stessa maniera.
Poi, però, Eddie mutò strategia, divenne più aggressivo, affrontando la chicane in derapata e staccando tardissimo sulle curve più strette. Il divario tra le due auto si era ridotto a pochi decimi di secondo e mancavano ancora poche curve.
«Papà, sei ancora tu che giochi?»
Dall’altra parte dell’auricolare, Toby sentì solo un sordo piagnucolare, disperato e depresso. Poi emerse la voce rotta di suo padre: «Perdonami, Toby, amore mio. Quello che sto facendo mi fa male, ma è meglio così. Ho abusato del mio egoismo anche troppo e ogni volta che ci siamo sentiti su questa chat, la tua reazione è stata sempre più violenta, quasi traumatica.»
«Papà, io non capisco…» Ma Toby non ebbe bisogno di capire, perché sentì un getto di sangue esplodergli dal naso, le gambe gli cedettero e cadde indietro sul divano, gemente. Il braccio destro divenne improvvisamente insensibile, gli occhi si appannarono, ma non abbastanza per vedere la macchina di suo padre attivare il turbo poco prima dell’ultima curva e con una manovra spericolata e da campioni rubare la prima posizione e mettersi in fuga lungo l’ultimo rettilineo prima del traguardo.
«Toby, sono quattordici anni che lo dico a me stesso, ma solo ora ho trovato il coraggio di farlo davvero. Finora non potevo vincere, per non perderti ancora per la seconda volta. Ma ho capito che quello che sto facendo è solo l’atto d’amore più grande che potessi anche solo pensare.»
La sua macchina tagliò il traguardo. Sullo schermo comparve la scritta

YOU LOSE.
Salvataggio nuovo Record. Non spegnere la Console.


«Ora vai, figliuolo, è tempo che ti lasci andare.»

Il record è stato salvato con successo.
Fantasma aggiornato.


E Toby, sofferente, sanguinante senza neanche sapere perché, guardò se stesso svanire, un pezzo alla volta, mentre una sensazione di pace infinita si impadroniva di lui. «Grazie, papà. Sei diventato fortissimo!»

14 anni prima
C’era vento, lassù. Una brezza leggera e fresca, nonostante la primavera mite, un venticello che gli portava al naso l’odore del popcorn e quello meno gradevole del gasolio dei gruppi elettrogeni. Toby era al settimo cielo, nel vero senso della parola, a oltre trenta metri di altezza, seduto nella cabina scoperta della ruota panoramica del Luna Park. Non riusciva a contenere l’eccitazione: non pensava che una giostra così noiosa potesse invece essere così interessante; il paese si stendeva sotto di lui, un diorama illuminato da mille tremolanti lucette. Non aveva mai provato un tale senso di libertà, una tale freschezza dell’animo, una sensazione che non sapeva spiegare, ma che lo travolse. Completamente elettrizzato, abbassò lo sguardo verso il piazzale, alla ricerca della figura di suo padre. Purtroppo, non riusciva a vedere bene i dettagli, in mezzo alle luci caleidoscopiche che le insegne delle giostre sparavano in ogni direzione.
Toby prese a salutare forsennatamente, sperando che Eddie rispondesse al gesto e lui potesse vederlo. Per essere più visibile si mise in piedi, e agitò ancora di più le mani. Scivolò fuori dalla barra che doveva proteggerlo e si mise in ginocchio sul sedile: si sbracciò con tutte e due le mani, e in quel momento la cabina si rimise in movimento: la spinta, dolce, piccola, appena accennata, fu sufficiente. Sentì un piccolo capogiro e il suo corpo reagì spontaneamente, contorcendosi per riprendersi un equilibrio che non era più suo.
Neanche riuscì ad urlare, neanche riuscì a spaventarsi, tanto fu veloce la caduta verso il suolo. Sentì solo il vento che gli sferzava la faccia, l’odore dei popcorn, la musica dance sparata tutto volume, e sotto la puzza un po’ stantia dei gas di scarico.
E poi tutto fu spento da un tonfo indescrivibile, come di legna secca in una busta piena d’acqua. Si spensero tutte le luci e sparirono tutti i rumori. Non capì mai quanto tempo passò prima che qualcuno lo sollevasse da terra, di poco, e lo stringesse in un abbraccio. Aprì gli occhi, per scoprire che ne funzionava solo uno e vide sfocato suo padre, il volto rigato di lacrime, le guance sporche di sangue.
Cercò di dire qualcosa, ma fu solo un rantolo soffocato quello che riuscì a produrre, mentre i singhiozzi di Eddie diventavano più prorompenti. «Toby, amore mio, dimmi qualcosa, per favore. Non te ne andare! Devi…» si fermò un attimo, indeciso su cosa dire. «Domani, devi andare a scuola. La mamma ha detto che devi fare i compiti… E… E poi dobbiamo giocare insieme a Arcade Racing, no? Mi devi insegnare a fare l’ultima curva di quella pista… Ti prego!» e in quel momento, mentre suo padre cercava di dargli altre ragioni futili e importantissime per rimanere in vita, lui alzò una mano destra, dolcemente per accarezzare il volto del genitore disperato, per consolarlo, per dirgli che non andava da nessuna parte e che non lui avrebbe mai imparato a giocare a GT… ma si accorse dolorosamente che il suo braccio giaceva a due metri di distanza, in una pozza di sangue.
E allora, il suo sguardo si appannò e si cristallizzò senza vedere più niente.
Pochi minuti dopo, si svegliò e andò il salotto, pronto a giocare a Arcade Racing. C’era PowerEddie che voleva ancora una lezione.



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Wladimiro Borchi
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Re: Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Messaggio#2 » lunedì 19 marzo 2018, 15:43

Veramente bello!
Racconto commovente e scritto con la solita maestria.
Purtroppo, seppur si comprende che il figlio è intrappolato in una sorta di loop, che è l'unico modo per il padre di tenerlo in vita, dopo la tragedia di quattordici anni prima.
Non sono riuscito a capire... Come diavolo è successo?
Sicuramente sono io quello limitato di comprendonio, ma davvero non riesco a darmi una spiegazione razionale.
Tipo, il padre ha raccolto quel che restava del suo cervellino semispappolato e l'ha innestato in una sorta di computer organico che può unicamente gestire la partita a video giochi tramite chat?
Se il bello è che non si deve capire, nulla questio...
Se c'era qualcosa da capire, diccela, ti prego, in maniera più esplicita, quando potrai integrare il racconto.
IMBUTO!!!

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Eugene Fitzherbert
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Re: Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Messaggio#3 » lunedì 19 marzo 2018, 16:03

Wlad, grazie per i complimenti, veramente graditi.
Venendo al racconto, provo a chiarire questa cosa: in realtà il trait d'union tra il padre e il figlio è il salvataggio del gioco, quello con il record di Toby. Da lì, parte tutto ed è per quello che per il padre VINCERE significa cancellare il ricordo e la connessione con il ragazzino. Infatti nel monologo finale del papà, c'è questa frase:

Questo gioco è l’unica cosa che ci unisce, questo savegame è la sola cosa che ci tiene in contatto. Non posso vincere, altrimenti il gioco lo cancellerà


Ed è lo stesso savegame che sta usando da QUATTORDICI anni. L'idea è che a furia di far continuare questo contatto soprannaturale, la versione di TOBY strappata alla morte tende a deteriorarsi, proprio come i dati su un hard disk, fino a che il padre, stanco di sentire il figlio morire ogni volta e sempre prima, decide di vincere la gara e dargli la pace.
È una storia non solo sul lutto ma anche su quell'egoismo disperato che un genitore manifesterebbe per riavere il figlio morto per un incidente: Eddie ha portato all'eccesso questa situazione abusando di questo contatto con il figlio per quattordici, prima di capire che forse non stava facendo al cosa giusta.

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SalvatoreStefanelli
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Re: Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Messaggio#4 » lunedì 19 marzo 2018, 21:00

Una storia di un profondo legame, che nemmeno la morte può separare. Solo la volontà di lasciarlo andare.
Un dubbio è venuto anche a me, ho creduto quasi da subito (all'inizio pensavo che ci fosse una storia diversa, fatta di dolore ma un dolore diverso, di separazione famigliare e di anni che erano passati dove l'unico legame era il gioco - un po' quello che racconti ma con una base diversa) che fosse successo qualcosa d'irreparabile e che Toby fosse in coma. E, mano a mano che leggevo questa ultima convinzione si rafforzava. Ho dovuto leggere la tua risposta a Wladimiro per capire che il legame era solo "astrale" e che il padre stava facendo da solo un percorso verso la separazione della decisione finale. Detto questo, mi pare di aver visto un paio di refusi/errori nelle ultime riga del racconto. Un racconto emozionante e che devo elaborare meglio dentro, prima di decidere la mia classifica. Grazie per averlo scritto.

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Giovanni Gianni Del Giudice
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Re: Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Messaggio#5 » lunedì 19 marzo 2018, 23:12

Molto commovente. E assai ben scritto. Secondo me (ma è veramente un parere modesto) ci sono momenti un pò meno efficaci ma molti momenti di buona letteratura. Mi permetto un consiglio, anche se mi pare che tu non ne abbia bisogno: nei momenti di 'delirio' potresti osare addirittura di più, e dare ancora più sovrannaturalità alle visioni. Bravo.

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Giovanni Gianni Del Giudice
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Re: Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Messaggio#6 » martedì 20 marzo 2018, 9:11

Ah no scusa, ho riletto e mi sono reso conto che quelli che io chiamo erroneamente 'deliri' sono in realtà gli effetti visivi e sonori del gioco vero? Chiedo venia ma io da piccolo giocavo a Subbuteo © e non mi sono mai piacuti i videogiochi. Confermo i complimenti e rincaro. Bravo, è un bel racconto.

Roberto Masini
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Re: Arcade Racing HR - Tratto da una storia vera

Messaggio#7 » sabato 24 marzo 2018, 13:01

Un racconto toccante che centra parecchi temi: la morte e l'immortalità, l'amore paterno e l'amor filiale.
Eco diceva: Ogni testo è una macchina pigra che chiede al lettore di fare parte del proprio lavoro. Guai se un testo dicesse tutto quello che il suo destinatario dovrebbe capire: non finirebbe più..
Io avevo pensato che Toby fosse immerso in una specie di coma vigile. E già così la storia mi sembrava avvincente.
L'interpretazione autentica che ne hai dato ha aperto uno scenario più complicato e più struggente dove finalmente il padre decide di finire quel gioco che ancora lo legava al figlio.
Quando un racconto ha diverse chiavi di lettura, come si deduce dai commento precedenti, allora il suo livello è veramente eccellente!

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