Davide
Inviato: lunedì 19 marzo 2018, 23:18
«Come sta la piccola?»
«Tutta il papà. Buonanotte Franci, a domani. Ti amo».
Me la vedo sorridere imbarazzata, come al suo solito, mentre stringe quel nastro rosso che le comprai la prima volta che siamo usciti insieme. Mi risponde anch’io, lo sai con la sua voce da gatta. Chiudo la chiamata, metto il cellulare in carica e spengo la luce.
La testa mi pulsa. La bocca è impastata. Ho come l’impressione di aver dormito più del solito.
«Benvenuti ai nostri nuovi ospiti. Per favore allacciate le cinture, l’inizio del viaggio non è sempre piacevole per tutti».
Faccio molta fatica ad aprire gli occhi. Mi ritrovo seduto su un seggiolino comodo, ho la stessa sensazione sgradevole di un post sbornia.
Mi alzo e guardo intorno, ci sono persone di ogni età. Oddio, la maggior parte anziana. Pochissimi bambini. Qualcuno piange, altri sembrano sollevati. Mi dirigo ancora barcollando verso l’entrata del corridoio. Una bella ragazza in divisa dà alcune istruzioni. Mi vede arrivare e senza interrompersi mi indica di tornare a posto.
«Scusi» proseguo avvicinandomi «io non dovrei essere qua».
Mi guarda dolcemente e sorride. «Lo so, lo dite in tanti. Per favore si accomodi e si allacci subito le cinture».
«Non capisce, io devo scendere da qui».
«Ascolti» appoggia una mano sulla mia spalla, stringe le labbra, fa un sospiro. «Immagino che non sia facile per lei, così giovane…»
Non ce la faccio ad ascoltare e proseguo entrando in un altro corridoio uguale al precedente.
«Aspetti!» cerca di afferrarmi «non è ancora pronto!».
È strano, ho come la sensazione di essere sott’acqua. È come se guardassi tutto da una maschera: movimenti lenti, capelli che galleggiano e qualcosa fluttua intorno alle persone sedute. Vado avanti e rimango un attimo senza respiro. Parti del viso, delle mani, delle vesti, come logorate si sgretolano allontanandosi poco alla volta e lasciando intravedere le ossa al di sotto.
Non è altro che un incubo e questo, finalmente, mi dà sollievo. Ora mi sveglio…
Sono ancora qui, non riesco a uscire dal sogno.
Vado avanti, c’è un altro corridoio e proseguo. Ancora un altro, proseguo correndo e corro, corro, corro. Devo arrivare alla fine. Corro.
È inutile. È sempre uguale. Mi arrendo.
Mi sento appoggiare nuovamente la mano sulla spalla, mi volto, è ancora lei la giovane hostess: troppo compiacente, troppo stucchevole.
«A volte ci vuole tempo per accettare. Torniamo a posto, vedrà che non è così spiacevole come si è sempre pensato. È un viaggio…»
Mi legge incredulità negli occhi, impossibilità di capire e allora, smossa da qualcosa, mi indica l’oblò e mi affaccio.
Al di sotto una grande piazza gremita da migliaia di persone. Urlano, allo stesso modo di quando sono in campo. E poi la vedo nel suo cappotto nero, i capelli sciolti, i grandi occhiali da sole che indossa quando vuole riservatezza. Al polso il nastro rosso, l’unica nota di colore. La bocca ha una strana piega in giù.
«Fancesca! Francesca!» urlo e batto col pugno sul vetro. «Francesca… non mi lasciare».
Paola Rossini
«Tutta il papà. Buonanotte Franci, a domani. Ti amo».
Me la vedo sorridere imbarazzata, come al suo solito, mentre stringe quel nastro rosso che le comprai la prima volta che siamo usciti insieme. Mi risponde anch’io, lo sai con la sua voce da gatta. Chiudo la chiamata, metto il cellulare in carica e spengo la luce.
La testa mi pulsa. La bocca è impastata. Ho come l’impressione di aver dormito più del solito.
«Benvenuti ai nostri nuovi ospiti. Per favore allacciate le cinture, l’inizio del viaggio non è sempre piacevole per tutti».
Faccio molta fatica ad aprire gli occhi. Mi ritrovo seduto su un seggiolino comodo, ho la stessa sensazione sgradevole di un post sbornia.
Mi alzo e guardo intorno, ci sono persone di ogni età. Oddio, la maggior parte anziana. Pochissimi bambini. Qualcuno piange, altri sembrano sollevati. Mi dirigo ancora barcollando verso l’entrata del corridoio. Una bella ragazza in divisa dà alcune istruzioni. Mi vede arrivare e senza interrompersi mi indica di tornare a posto.
«Scusi» proseguo avvicinandomi «io non dovrei essere qua».
Mi guarda dolcemente e sorride. «Lo so, lo dite in tanti. Per favore si accomodi e si allacci subito le cinture».
«Non capisce, io devo scendere da qui».
«Ascolti» appoggia una mano sulla mia spalla, stringe le labbra, fa un sospiro. «Immagino che non sia facile per lei, così giovane…»
Non ce la faccio ad ascoltare e proseguo entrando in un altro corridoio uguale al precedente.
«Aspetti!» cerca di afferrarmi «non è ancora pronto!».
È strano, ho come la sensazione di essere sott’acqua. È come se guardassi tutto da una maschera: movimenti lenti, capelli che galleggiano e qualcosa fluttua intorno alle persone sedute. Vado avanti e rimango un attimo senza respiro. Parti del viso, delle mani, delle vesti, come logorate si sgretolano allontanandosi poco alla volta e lasciando intravedere le ossa al di sotto.
Non è altro che un incubo e questo, finalmente, mi dà sollievo. Ora mi sveglio…
Sono ancora qui, non riesco a uscire dal sogno.
Vado avanti, c’è un altro corridoio e proseguo. Ancora un altro, proseguo correndo e corro, corro, corro. Devo arrivare alla fine. Corro.
È inutile. È sempre uguale. Mi arrendo.
Mi sento appoggiare nuovamente la mano sulla spalla, mi volto, è ancora lei la giovane hostess: troppo compiacente, troppo stucchevole.
«A volte ci vuole tempo per accettare. Torniamo a posto, vedrà che non è così spiacevole come si è sempre pensato. È un viaggio…»
Mi legge incredulità negli occhi, impossibilità di capire e allora, smossa da qualcosa, mi indica l’oblò e mi affaccio.
Al di sotto una grande piazza gremita da migliaia di persone. Urlano, allo stesso modo di quando sono in campo. E poi la vedo nel suo cappotto nero, i capelli sciolti, i grandi occhiali da sole che indossa quando vuole riservatezza. Al polso il nastro rosso, l’unica nota di colore. La bocca ha una strana piega in giù.
«Fancesca! Francesca!» urlo e batto col pugno sul vetro. «Francesca… non mi lasciare».
Paola Rossini