[V] Licantropina
Inviato: martedì 19 maggio 2015, 0:53
Licantropina
di Fernando Nappo
I primi raggi di sole colpiscono l’uomo in volto, risvegliandolo. Strabuzza gli occhi, si guarda attorno. Alla vista delle sbarre comincia ad agitarsi, ansima, come se vestigia della bestia che è stata nella notte appena trascorsa alberghino ancora nel suo corpo. Poi si accorge di me: – Dove sono? - mi chiede, le mani serrate sulle sbarre che l’imprigionano, lo sguardo che vaga intorno, in cerca di una via di fuga.
– Misure per garantire la mia sicurezza, come ben sai - rispondo.
L’uomo mi guarda e digrigna i denti. – Liberami, e subito.
Sbava un po’, quando ringia il suo comando.
– Fra poco – rispondo. – Quando sarà il momento.
L’uomo dà una vigorosa scrollata alla sbarre, forse sperando in qualche residuo della forza belluina della notte precedente: – Chi sei? Come hai fatto a catturarmi?
Lo fisso negli occhi. – Non avrai risposte - dico. – Non ne meriti, nessuno di voi ne merita.
Mi volto e mi dirigo verso il tavolo.
Il respiro dell’uomo aumenta d’intensità, lo sento agitarsi.
Prendo la pastiglia e il bicchiere d’acqua e torno verso la gabbia.
– Che cosa mi vuoi dare? – dice l’uomo, indicando con un cenno la pastiglia che ho in mano. – Io non prendo quella roba!
Ignoro le sue rimostranze. Appoggio la pastiglia sulla punta della lingua, bevo un sorso d’acqua e la inghiotto.
L’uomo mi guarda in tralice, incuriosito.
Rimetto il bicchiere sul tavolo.
– Sei strano – mi dice – non capisco...
Sento un formicolio alla base del capo. Sono le prime avvisaglie. Dalla tasca dei pantaloni sfilo una chiave e la mostro al mio prigioniero. – Allontanati – dico.
L’uomo si sposta sul fondo della gabbia, non mi toglie gli occhi di dosso.
Apro le sbarre e gli faccio segno di uscire. – Tranquillo, non nascondo alcuna arma.
Infilo la mano sinistra in tasca: il prurito sta diventando insopportabile.
L’uomo si precipita verso il lato opposto della cantina, sale i tre gradini e cerca di aprire la porta. Si volta verso di me, lo sguardo un po’ meno strafottente.
– Che cosa...
M’ingobbisco un poco, stare ritto diventa più difficoltoso.
– L’effetto della licantropina è davvero considerevole – dico. Parlare si fa più difficile. – Non serve la luna piena, no... e non cancella i ricordi.
– Che cosa vuoi fare - dice l’uomo. – Lasciami andare... ti prego...
– L’ho sintetizzata io stesso, dal corpo del mostro che ha ucciso mia moglie... – ormai le mie parole sono suoni quasi inarticolati – ... e mia figlia – concludo in un rantolo.
Sento la bestia farsi strada dentro di me, e i peli spingere per trapassare ’epidermide.
L’uomo si appoggia alla parete, ansima pesantemente.
Ora ne percepisco anche l’odore, l’odore della paura.
E balzo.
di Fernando Nappo
I primi raggi di sole colpiscono l’uomo in volto, risvegliandolo. Strabuzza gli occhi, si guarda attorno. Alla vista delle sbarre comincia ad agitarsi, ansima, come se vestigia della bestia che è stata nella notte appena trascorsa alberghino ancora nel suo corpo. Poi si accorge di me: – Dove sono? - mi chiede, le mani serrate sulle sbarre che l’imprigionano, lo sguardo che vaga intorno, in cerca di una via di fuga.
– Misure per garantire la mia sicurezza, come ben sai - rispondo.
L’uomo mi guarda e digrigna i denti. – Liberami, e subito.
Sbava un po’, quando ringia il suo comando.
– Fra poco – rispondo. – Quando sarà il momento.
L’uomo dà una vigorosa scrollata alla sbarre, forse sperando in qualche residuo della forza belluina della notte precedente: – Chi sei? Come hai fatto a catturarmi?
Lo fisso negli occhi. – Non avrai risposte - dico. – Non ne meriti, nessuno di voi ne merita.
Mi volto e mi dirigo verso il tavolo.
Il respiro dell’uomo aumenta d’intensità, lo sento agitarsi.
Prendo la pastiglia e il bicchiere d’acqua e torno verso la gabbia.
– Che cosa mi vuoi dare? – dice l’uomo, indicando con un cenno la pastiglia che ho in mano. – Io non prendo quella roba!
Ignoro le sue rimostranze. Appoggio la pastiglia sulla punta della lingua, bevo un sorso d’acqua e la inghiotto.
L’uomo mi guarda in tralice, incuriosito.
Rimetto il bicchiere sul tavolo.
– Sei strano – mi dice – non capisco...
Sento un formicolio alla base del capo. Sono le prime avvisaglie. Dalla tasca dei pantaloni sfilo una chiave e la mostro al mio prigioniero. – Allontanati – dico.
L’uomo si sposta sul fondo della gabbia, non mi toglie gli occhi di dosso.
Apro le sbarre e gli faccio segno di uscire. – Tranquillo, non nascondo alcuna arma.
Infilo la mano sinistra in tasca: il prurito sta diventando insopportabile.
L’uomo si precipita verso il lato opposto della cantina, sale i tre gradini e cerca di aprire la porta. Si volta verso di me, lo sguardo un po’ meno strafottente.
– Che cosa...
M’ingobbisco un poco, stare ritto diventa più difficoltoso.
– L’effetto della licantropina è davvero considerevole – dico. Parlare si fa più difficile. – Non serve la luna piena, no... e non cancella i ricordi.
– Che cosa vuoi fare - dice l’uomo. – Lasciami andare... ti prego...
– L’ho sintetizzata io stesso, dal corpo del mostro che ha ucciso mia moglie... – ormai le mie parole sono suoni quasi inarticolati – ... e mia figlia – concludo in un rantolo.
Sento la bestia farsi strada dentro di me, e i peli spingere per trapassare ’epidermide.
L’uomo si appoggia alla parete, ansima pesantemente.
Ora ne percepisco anche l’odore, l’odore della paura.
E balzo.