“La stanza di Fred” - di Adriano Muzzi
Inviato: martedì 17 aprile 2018, 0:09
“Siete tutti dei bastardi!” Così avevo chiuso il mio anno scolastico. Bel modo, no? Non sono un disadattato, anzi; è solo che non sopporto le ingiustizie.
Il mio compagno Fred non è del tutto normale, lo so, ma non mi sembra un buon motivo per emarginarlo. Andrò a trovarlo e starò un po’ con lui.
Il sole mattutino di giugno già picchia forte e mi costringe a rallentare con lo skate, non voglio arrivare fradicio a casa del mio amico. Ah sì, non vi ho detto perché tutti lo sbeffeggiano: è ciccione, brufoloso e spara cavolate sulla sua stanza; tipo che ha delle collezioni di ossa e pelle umana, unghie di ragazze che usa per produrre opere d’arte e cose del genere. Non fate gli psicologi da quattro soldi, è facile pensare: “Dice così perché ha bisogno di attirare l’attenzione, bla, bla…”
La casa di Fred è una villa un po’ decrepita, stile gotico decadente. Una debole luce filtra da una finestra con delle tende scure.
Suono il campanello. Allo scatto del cancello spingo il battente di ferro arrugginito, che cigola come un vecchio sarcofago.
Fred prima mi fissa con la bocca semiaperta, poi dice: “Ehi, perché sei qui?”
“Volevo venirti a trovare per fare due chiacchiere.”
Mi squadra con gli occhi vitrei, un filo di saliva gli cola sul mento, poi si sblocca: “OK, entra.”
La casa è buia: delle candele sono appese alle pareti piene di quadri scuri.
“Ehi Fred, la tua casa sembra un museo, la prof sarebbe contenta di vederla!” gli dico sghignazzando. Nessuna risposta.
“Fred, ma ci sono i tuoi genitori?”
“Non stanno molto bene,” mi risponde ruotando la testa come Terminator.
Saliamo al piano di sopra; nel corridoio la carta da parati è scollata in molti punti e in altri ci sono dei graffi. “Fred, hai una tigre in casa?” gli chiedo, più per mio disagio che altro. Nessuna risposta.
Non fate facile battute, sì ho un po’ paura, ma voi sareste più coraggiosi di me?
“Ehi Fred, che facevi di bello?”
Lui mi fa cenno con il l’indice verso la scrivania. Certo, definirla scrivania è un complimento: un accumulo di roba accatastata. Mi avvicino: dentro una cornice ci sono degli oggetti piccoli che non riesco a definire, ma sembrano unghie…
“Fred, ma… ma cosa sono quelle cose?” La voce mi trema un po’.
“Sono petali di ragazze, una mia opera d’arte; sai tra qualche anno sarò famoso.”
“Ah, ecco!” Mi guardo intorno, per fortuna non vedo altre cose sinistre.
“Senti Fred, perché te ne stai sempre da solo? Lo sai che tutti ti considerano strano, dovresti provare a…”
“Sono fatto così,” mi interrompe lui, “e poi mi piace: penso, creo e nessuno mi può criticare!”
Fred si alza velocissimo, apre un cassetto e tira fuori un coltello da macellaio lungo quanto il mio avambraccio. Rimango paralizzato: nessun arto risponde ai miei comandi.
“Ehi Fred, metti via quel coltello, ci possiamo fare male!”
Fred non parla, gli occhi spalancati, il filo di bava che cola, il pugno serrato sul pugnale che si alza verso l’alto. Merda! La lama è a dieci centimetri dalla mia faccia. Urlo.
“Ehi, era solo uno scherzo,” mi dice ridendo; abbassa il coltello e apre la porta.
“Vieni, scendiamo in giardino a giocare a basket.”
Ancora tremo sulle gambe. Maledetti pregiudizi, ci ingannano ogni giorno: i politici e i preti li usano per muoverci come marionette. Stupido me.
Giocando mi riprendo. L’aria è calda ma piacevole; Fred gioca bene.
La palla rotola dietro dei cespugli, li aggiro per recuperarla. Cavolo, è andata sotto una pianta enorme. Mi chino, allungo la mano; sento una cosa dura, abbasso la testa per vedere: una scarpa da tennis affiora dalla terra. O meglio: una scarpa con attaccato un piede e una caviglia “piantata” nel prato. I genitori? Oh merda! Anzi, sono nella merda…
Il mio compagno Fred non è del tutto normale, lo so, ma non mi sembra un buon motivo per emarginarlo. Andrò a trovarlo e starò un po’ con lui.
Il sole mattutino di giugno già picchia forte e mi costringe a rallentare con lo skate, non voglio arrivare fradicio a casa del mio amico. Ah sì, non vi ho detto perché tutti lo sbeffeggiano: è ciccione, brufoloso e spara cavolate sulla sua stanza; tipo che ha delle collezioni di ossa e pelle umana, unghie di ragazze che usa per produrre opere d’arte e cose del genere. Non fate gli psicologi da quattro soldi, è facile pensare: “Dice così perché ha bisogno di attirare l’attenzione, bla, bla…”
La casa di Fred è una villa un po’ decrepita, stile gotico decadente. Una debole luce filtra da una finestra con delle tende scure.
Suono il campanello. Allo scatto del cancello spingo il battente di ferro arrugginito, che cigola come un vecchio sarcofago.
Fred prima mi fissa con la bocca semiaperta, poi dice: “Ehi, perché sei qui?”
“Volevo venirti a trovare per fare due chiacchiere.”
Mi squadra con gli occhi vitrei, un filo di saliva gli cola sul mento, poi si sblocca: “OK, entra.”
La casa è buia: delle candele sono appese alle pareti piene di quadri scuri.
“Ehi Fred, la tua casa sembra un museo, la prof sarebbe contenta di vederla!” gli dico sghignazzando. Nessuna risposta.
“Fred, ma ci sono i tuoi genitori?”
“Non stanno molto bene,” mi risponde ruotando la testa come Terminator.
Saliamo al piano di sopra; nel corridoio la carta da parati è scollata in molti punti e in altri ci sono dei graffi. “Fred, hai una tigre in casa?” gli chiedo, più per mio disagio che altro. Nessuna risposta.
Non fate facile battute, sì ho un po’ paura, ma voi sareste più coraggiosi di me?
“Ehi Fred, che facevi di bello?”
Lui mi fa cenno con il l’indice verso la scrivania. Certo, definirla scrivania è un complimento: un accumulo di roba accatastata. Mi avvicino: dentro una cornice ci sono degli oggetti piccoli che non riesco a definire, ma sembrano unghie…
“Fred, ma… ma cosa sono quelle cose?” La voce mi trema un po’.
“Sono petali di ragazze, una mia opera d’arte; sai tra qualche anno sarò famoso.”
“Ah, ecco!” Mi guardo intorno, per fortuna non vedo altre cose sinistre.
“Senti Fred, perché te ne stai sempre da solo? Lo sai che tutti ti considerano strano, dovresti provare a…”
“Sono fatto così,” mi interrompe lui, “e poi mi piace: penso, creo e nessuno mi può criticare!”
Fred si alza velocissimo, apre un cassetto e tira fuori un coltello da macellaio lungo quanto il mio avambraccio. Rimango paralizzato: nessun arto risponde ai miei comandi.
“Ehi Fred, metti via quel coltello, ci possiamo fare male!”
Fred non parla, gli occhi spalancati, il filo di bava che cola, il pugno serrato sul pugnale che si alza verso l’alto. Merda! La lama è a dieci centimetri dalla mia faccia. Urlo.
“Ehi, era solo uno scherzo,” mi dice ridendo; abbassa il coltello e apre la porta.
“Vieni, scendiamo in giardino a giocare a basket.”
Ancora tremo sulle gambe. Maledetti pregiudizi, ci ingannano ogni giorno: i politici e i preti li usano per muoverci come marionette. Stupido me.
Giocando mi riprendo. L’aria è calda ma piacevole; Fred gioca bene.
La palla rotola dietro dei cespugli, li aggiro per recuperarla. Cavolo, è andata sotto una pianta enorme. Mi chino, allungo la mano; sento una cosa dura, abbasso la testa per vedere: una scarpa da tennis affiora dalla terra. O meglio: una scarpa con attaccato un piede e una caviglia “piantata” nel prato. I genitori? Oh merda! Anzi, sono nella merda…