Ego te absolvo, di annalisa mancini
Inviato: sabato 26 maggio 2018, 17:54
Prese in mano il telefono e subito lo ripose come fosse la famigerata patata bollente.
Attesa.
Leggera contrazione al plesso solare.
Attesa.
Crampo leggermente indeciso.
Attesa.
Crampo, deciso, vigoroso, netto. Finalmente.
La giornata trascorreva, per la maggior parte del tempo, in modo tranquillo, raccolta e accolta nella scatola delle cose da fare, da dire, essere, pensare,gestire, la maggior parte del tempo, almeno; a volte, semplicemente la bocca dell' inferno si apriva e semplicemente tutto ardeva.
Quando succedeva ne rimaneva atterrita ed entusiasta,vittima di una se stessa così vorace da imporle una rivoluzione del sangue che la faceva sentire indiata ed insieme fagocitata dalla terra l'inferno dentro il paradiso.
Lo aveva conosciuto per caso: una necessità impellente, l'imposibilità di far altrimenti, l'usuale, candida gentilezza nel chiedere ad uno sconosciuto un aiuto per un problema improvviso su una strada qualunque di quella città né bella né brutta, in un giorno né bello né brutto, come spesso sono i giorni della catastrofe di una vita,
o di due.
Attesa. Malessere. Crampo. Sudorazione. Spasmi. Dolore. Angoscia. Tutti sintomi uguali nel tempo, precisi nel manifestarsi, affidabili come professionisti che mai tradiscono la scaletta d'apparizione; dopo un anno quando il suo spacciatore tardava la consegna del suo speciale pane quotidiano, lei iniziava il Calvario.
Lui la aiutò quel giorno con la naturalezza con cui si avvicinano due fronti temporaleschi, nulla pareva essere accaduto, nulla.
Poche parole lisce come l'acqua, l'imbarazzo appena percettibile dietro le frasi di rito, uno sguardo bizzarramente sospeso al comiato, la benedizione dei ringraziamenti fatti di cuore, la testa involontariamente un poco china di chi li riceveva e taceva, ora sopraffato.
Ormai la droga le scorreva a fiumi nelle vene, corpo e sangue fin'ora puri, infettati dal desiderio, dalla dipendenza che non le dave requie e le dava invece la certezza di non volere requie, mai più.
Nei giorni buoni, quando il cellulare squillava all'ora solita e lo spacciatore era puntuale, il mondo non subiva grossi scossoni: parlava, si muoveva, gestiva, pensava come fosse ancora tutto normale; poi c'erano i giorni migliori, quando la dose veniva recapitata a mano senza incertezze, senza intoppi, senza se e senza ma e quelli erano i giorni del giubilo, delle Osanna nell'alto dei cieli
il paradisso dentro l'inferno.
Come fu che si reincontrarono, se non per caso? Ma il caso è spesso troppo a caso per essere credibile. Qualche parola su quel solo e unico ricordo condiviso, un passamano veloce e impercettibile di una prima dose di una sostanza nuova e letale. Vittima e carnefice? No, mai, piuttosto vittima e vittima. O carnefice e carnefice.
La terza volta c'era già il dolo, il caso cercato, l'occassione creata, l'attesa specifica nel luogo valutato; l'imbarazzo scemava, un altro ricordo condiviso buono per parlare di nulla, la stonata vacuità degli abiti che li raccontavano celandoli.
I giorni peggiori in assoluto erano quelli in cui lo spacciatore si lasciava spaventare dal suo stato o dalla propria paura e velatamente, titubante le chiedeva di smetterla, le diceva che forse sarebbe stato meglio, per l'anima di entrambi, rallentare, valutare, cercare di affrontare il fatto che non sarebbe potuto essere il suo fornitore per sempre: era stanco, era triste, si vergognava anche a volte, di averle fatto quello che le aveva fatto, di essersi lasciato fare quello che lei gli aveva fatto; lei allora con le buone o con le cattive lo riconduceva a più miti consigli, lo faceva tornare a sé e lo festeggiava ogni volta come fosse il figliol prodigo ritornato.
Paradiso e inferno che scendevano a patti.
Lui le procurò un cellulare, lei imparò quando chiamarlo quando tacere e quando sopportare fino a sentirsi le ginocchia come spezzate da una mazza ed il costato deflorato da una punta di lancia.
Un giorno lui le disse stanco: “Non possiamo continuare così Beatrice, ci stiamo uccidendo, sono un uomo sposato, e tu...”
“ Io sono una suora...una sposa del Signore, ma tu sei la mia droga, la pace del mio spirito nella transustanziazione reale del mio corpo e del mio sangue nel tuo . L'anima mia che cammina fuori dal mio corpo.”
Attesa.
Leggera contrazione al plesso solare.
Attesa.
Crampo leggermente indeciso.
Attesa.
Crampo, deciso, vigoroso, netto. Finalmente.
La giornata trascorreva, per la maggior parte del tempo, in modo tranquillo, raccolta e accolta nella scatola delle cose da fare, da dire, essere, pensare,gestire, la maggior parte del tempo, almeno; a volte, semplicemente la bocca dell' inferno si apriva e semplicemente tutto ardeva.
Quando succedeva ne rimaneva atterrita ed entusiasta,vittima di una se stessa così vorace da imporle una rivoluzione del sangue che la faceva sentire indiata ed insieme fagocitata dalla terra l'inferno dentro il paradiso.
Lo aveva conosciuto per caso: una necessità impellente, l'imposibilità di far altrimenti, l'usuale, candida gentilezza nel chiedere ad uno sconosciuto un aiuto per un problema improvviso su una strada qualunque di quella città né bella né brutta, in un giorno né bello né brutto, come spesso sono i giorni della catastrofe di una vita,
o di due.
Attesa. Malessere. Crampo. Sudorazione. Spasmi. Dolore. Angoscia. Tutti sintomi uguali nel tempo, precisi nel manifestarsi, affidabili come professionisti che mai tradiscono la scaletta d'apparizione; dopo un anno quando il suo spacciatore tardava la consegna del suo speciale pane quotidiano, lei iniziava il Calvario.
Lui la aiutò quel giorno con la naturalezza con cui si avvicinano due fronti temporaleschi, nulla pareva essere accaduto, nulla.
Poche parole lisce come l'acqua, l'imbarazzo appena percettibile dietro le frasi di rito, uno sguardo bizzarramente sospeso al comiato, la benedizione dei ringraziamenti fatti di cuore, la testa involontariamente un poco china di chi li riceveva e taceva, ora sopraffato.
Ormai la droga le scorreva a fiumi nelle vene, corpo e sangue fin'ora puri, infettati dal desiderio, dalla dipendenza che non le dave requie e le dava invece la certezza di non volere requie, mai più.
Nei giorni buoni, quando il cellulare squillava all'ora solita e lo spacciatore era puntuale, il mondo non subiva grossi scossoni: parlava, si muoveva, gestiva, pensava come fosse ancora tutto normale; poi c'erano i giorni migliori, quando la dose veniva recapitata a mano senza incertezze, senza intoppi, senza se e senza ma e quelli erano i giorni del giubilo, delle Osanna nell'alto dei cieli
il paradisso dentro l'inferno.
Come fu che si reincontrarono, se non per caso? Ma il caso è spesso troppo a caso per essere credibile. Qualche parola su quel solo e unico ricordo condiviso, un passamano veloce e impercettibile di una prima dose di una sostanza nuova e letale. Vittima e carnefice? No, mai, piuttosto vittima e vittima. O carnefice e carnefice.
La terza volta c'era già il dolo, il caso cercato, l'occassione creata, l'attesa specifica nel luogo valutato; l'imbarazzo scemava, un altro ricordo condiviso buono per parlare di nulla, la stonata vacuità degli abiti che li raccontavano celandoli.
I giorni peggiori in assoluto erano quelli in cui lo spacciatore si lasciava spaventare dal suo stato o dalla propria paura e velatamente, titubante le chiedeva di smetterla, le diceva che forse sarebbe stato meglio, per l'anima di entrambi, rallentare, valutare, cercare di affrontare il fatto che non sarebbe potuto essere il suo fornitore per sempre: era stanco, era triste, si vergognava anche a volte, di averle fatto quello che le aveva fatto, di essersi lasciato fare quello che lei gli aveva fatto; lei allora con le buone o con le cattive lo riconduceva a più miti consigli, lo faceva tornare a sé e lo festeggiava ogni volta come fosse il figliol prodigo ritornato.
Paradiso e inferno che scendevano a patti.
Lui le procurò un cellulare, lei imparò quando chiamarlo quando tacere e quando sopportare fino a sentirsi le ginocchia come spezzate da una mazza ed il costato deflorato da una punta di lancia.
Un giorno lui le disse stanco: “Non possiamo continuare così Beatrice, ci stiamo uccidendo, sono un uomo sposato, e tu...”
“ Io sono una suora...una sposa del Signore, ma tu sei la mia droga, la pace del mio spirito nella transustanziazione reale del mio corpo e del mio sangue nel tuo . L'anima mia che cammina fuori dal mio corpo.”