Deposito bruciato
Inviato: lunedì 21 maggio 2018, 22:58
Un'anziana signora svizzera parlava di chiese prive di sfarzo e architettonicamente vicino al suo gusto in Borgogna, i due si incontrarono davanti alla tomba di Bassani, cimitero ebraico a Ferrara.
Argine sinistro del Po, località Occhiobello, nebbia bassa, la vista si ferma al verde delle piante che muta in giallo, lo sconosciuto passeggiava pel sentiero verso il fiume, strada chiusa.
Notti insonni miste a incubi, lavori fisici e niente più, pressioni continue e costanti, l'unico mezzo per comunicare con il mondo e con se stesso, era un inciampo imbevuto di vino.
La sua vita era perduta, tutto bruciava, stava lì ad inalare monossido di azoto tra le fiamme quasi finte da tanto erano belle, rosse e gialle come tulipani e paglia, non una fantasia, solo un discount di incubi, disordinati come Monastyriaki durante il mercato.
La sua mano era congelata al limite dello spezzarsi, bluastra dal freddo, il sangue smise di circolare, era in ipotermia, stava fuori dal finestrino da mesi.
Urgevano molte necessità, doveva correre ai ripari, e riprendere il confronto con muri marmorei, un inizio, forse, lì era tutto spento, il deposito era dismesso, invaso da zanzare, rane e cicaleccio in lontananza, “Chi sa, in fondo qualcuno saprà, ci sarà certo passato!” borbottò lentamente, “Cazzo il pepe fa bruciare il culo maledizione!” urlò per farsi compagnia.
Provò ad annegarsi in una vasca troppo piccola, era disperato, e si scagionava con prove di coraggio, impossibili, e a quel punto la soglia del dolore si annienta, sotto poca acqua non puoi che respirarla, berla e avere indigestioni di vario tipo, “Ci vuole tanto cazzo?!” ridacchiò, desolato.
Cosa lo spinse a proseguire, ormai più niente, così iniziò a disegnare su pareti quelli che forse erano i suoi sogni, audaci, un omino seduto sul tetto del pianeta, “Mi fermo li al freddo, definitivamente, o forse torno indietro per toccare l'abisso opposto, con il mezzo, forse, che ormai sarà divenuto inutilizzabile per poter immergersi e poter stare anche solo per un secondo” fu il commento, osservando lo schizzo.
“Ma le coppie di vecchi ancora affiatati tra loro, come diavolo fanno?” si chiedeva con le orecchie in Iran, si muoveva tra la nebbia e lo sguardo verso il volo di un aeroplano solitario che scompare tra il verde brillante dell'erba bagnata, rifiuti e terra arsa.
Il deposito bruciò, gli mancò il fiato e i polmoni non seppero più dove prendere aria, il taccuino vuoto bruciò comunque, “che spreco, perlomeno se bruciasse qualcosa di intensamente vissuto almeno, qualcosa brucia ed è lungo, non svanisce istantaneamente” replicò con lo sguardo svuotato.
Stette lì a lungo crivellato di colpi, mentre marcivano le ferite e moriva dentro, lasciò che tutto andasse verso la fine. Si alcolizzò ancora una volta per non sentire dolore, questo fu parte del programma, il verme lavorava dentro e le mosche da fuori.
Tutto andò a ramengo, divenne un alcolista anonimo di quelli molesti, poveri, spietati, pericolante, un'anima dannata, “il negro di un negro” gridò “Maledizione posso mai essere il negro di un negro per Dio, nella tratta degli schiavi sono il loro servo” furibondo non conosceva più pietà.
Mattia Cervellin
Argine sinistro del Po, località Occhiobello, nebbia bassa, la vista si ferma al verde delle piante che muta in giallo, lo sconosciuto passeggiava pel sentiero verso il fiume, strada chiusa.
Notti insonni miste a incubi, lavori fisici e niente più, pressioni continue e costanti, l'unico mezzo per comunicare con il mondo e con se stesso, era un inciampo imbevuto di vino.
La sua vita era perduta, tutto bruciava, stava lì ad inalare monossido di azoto tra le fiamme quasi finte da tanto erano belle, rosse e gialle come tulipani e paglia, non una fantasia, solo un discount di incubi, disordinati come Monastyriaki durante il mercato.
La sua mano era congelata al limite dello spezzarsi, bluastra dal freddo, il sangue smise di circolare, era in ipotermia, stava fuori dal finestrino da mesi.
Urgevano molte necessità, doveva correre ai ripari, e riprendere il confronto con muri marmorei, un inizio, forse, lì era tutto spento, il deposito era dismesso, invaso da zanzare, rane e cicaleccio in lontananza, “Chi sa, in fondo qualcuno saprà, ci sarà certo passato!” borbottò lentamente, “Cazzo il pepe fa bruciare il culo maledizione!” urlò per farsi compagnia.
Provò ad annegarsi in una vasca troppo piccola, era disperato, e si scagionava con prove di coraggio, impossibili, e a quel punto la soglia del dolore si annienta, sotto poca acqua non puoi che respirarla, berla e avere indigestioni di vario tipo, “Ci vuole tanto cazzo?!” ridacchiò, desolato.
Cosa lo spinse a proseguire, ormai più niente, così iniziò a disegnare su pareti quelli che forse erano i suoi sogni, audaci, un omino seduto sul tetto del pianeta, “Mi fermo li al freddo, definitivamente, o forse torno indietro per toccare l'abisso opposto, con il mezzo, forse, che ormai sarà divenuto inutilizzabile per poter immergersi e poter stare anche solo per un secondo” fu il commento, osservando lo schizzo.
“Ma le coppie di vecchi ancora affiatati tra loro, come diavolo fanno?” si chiedeva con le orecchie in Iran, si muoveva tra la nebbia e lo sguardo verso il volo di un aeroplano solitario che scompare tra il verde brillante dell'erba bagnata, rifiuti e terra arsa.
Il deposito bruciò, gli mancò il fiato e i polmoni non seppero più dove prendere aria, il taccuino vuoto bruciò comunque, “che spreco, perlomeno se bruciasse qualcosa di intensamente vissuto almeno, qualcosa brucia ed è lungo, non svanisce istantaneamente” replicò con lo sguardo svuotato.
Stette lì a lungo crivellato di colpi, mentre marcivano le ferite e moriva dentro, lasciò che tutto andasse verso la fine. Si alcolizzò ancora una volta per non sentire dolore, questo fu parte del programma, il verme lavorava dentro e le mosche da fuori.
Tutto andò a ramengo, divenne un alcolista anonimo di quelli molesti, poveri, spietati, pericolante, un'anima dannata, “il negro di un negro” gridò “Maledizione posso mai essere il negro di un negro per Dio, nella tratta degli schiavi sono il loro servo” furibondo non conosceva più pietà.
Mattia Cervellin