Semifinale Andrea Atzori

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo settembre sveleremo il tema deciso da Aislinn. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Aislinn assegnerà la vittoria.
Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Semifinale Andrea Atzori

Messaggio#1 » mercoledì 10 ottobre 2018, 0:25

Immagine

Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Né a Dio né al Diavolo.
In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti del girone Andrea Atzori hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR del loro girone un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi Eugene Fitzherbert e Alessandro Calvi possono sfruttare i tre giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: venerdì 12 ottobre alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 12 ottobre. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



Avatar utente
Eugene Fitzherbert
Messaggi: 486

Re: Semifinale Andrea Atzori

Messaggio#2 » venerdì 12 ottobre 2018, 12:00

Letheion
di Eugene Fitzherbert

A metà della scalinata del Massachusetts General Hospital, William Morton si sentì chiamare.
«Morton! Si lasci stringere la mano per lo splendido lavoro della scorsa settimana.» Il professor Peacock si affrettò a raggiungerlo a metà della scalinata con la mano tesa, un sorriso brillante incorniciato dal suo pizzetto caprino. «Il suo etere miracoloso è la rivoluzione che la Medicina attendeva da anni! Il paziente, Abbott, è stato anche dimesso in perfette condizioni, giusto?»
Morton strinse la mano del vecchio professore e annuì. «Era un po’ stordito, ma stava clinicamente bene quando è andato a casa. Spero che quello del 16 ottobre sia il primo di una serie di lunghi successi, Professore.»
«Può dirlo forte, ragazzo! E si aspetti presto un forte riconoscimento. Sa, sono nel consiglio di Harvard, e forse riusciamo a farla diventare dottore! Chissà!»
Morton era senza parole: da dentista a medico nell'arco di una settimana!
Peacock lo picchiò forte sulla spalla: «Stiamo preparando un altro intervento, nei prossimi giorni. Si tenga pronto: sarà lei l’ospite d’onore. Lei e il suo Etere.»
«Certamente, non vedo l’ora», disse Morton, deglutendo e distogliendo lo sguardo.
«Oh, avanti, William, non faccia il timido. Ci auguriamo che prima o poi ci sveli il suo ingrediente segreto. Si dice che l’ha portato qui dopo un viaggio a New York. E cosa mai c’è a New York che non possiamo avere a Boston?»
«Professor Peacock, sarò ben lieto di condividere la formula quando farò parte della vostra facoltà.»
«Ma naturalmente, Morton! Ah, ha sentito? Il Boston Journal ha chiamato la sua tecnica anestesia. Non le sembra un termine fantastico? Chissà se prenderà piede…»
Morton sorrise ancora. «Professor Peacock, se non le dispiace, ho del lavoro da fare a casa. Non voglio essere da meno da voi scienziati…»
«Ma certo, Morton. E mi scusi se l’ho trattenuta con qualche chiacchiera di troppo. Le faremo sapere della prossima settimana.»

Mi guardo intorno e sento l’angoscia montarmi dentro. Provo una rabbia senza fine, qualcosa che mi brucia dentro devastando ogni altro sentimento. La vista si annebbia, vedo cose che non esistono.
Guardo il pavimento e le assi di legno tremolano, perdono di consistenza, come se fossero fatte di materia impalpabile. Sembrano fatte di un liquido torbido.
Fumo nell'acqua! Sollevo lo sguardo: fuoco nel cielo. La mia mente vacilla: è la fine del mondo?
Il pavimento d’acqua è percorso da correnti scure: figure sinuose, dalle sembianze umane, si avvolgono su loro stesse e sembrano essere trasportate dai turbini inesorabili.
Sembrano urlare, sembrano soffrire. Sento le loro urla, strilla stridule senza senso. Poi le grida diventano Coro, un Coro demoniaco che si impossessa di me, che scrive a fuoco sulla mia anima.


Morton arrivò a casa quando ormai era buio.
Avvertì sua moglie che sarebbe andato nel suo Laboratorio per studiare. La giovane Elizabeth Whitman non fece domande e lasciò che suo marito si rintanasse nel suo regno segreto.
Il Laboratorio si trovava a qualche centinaio di metri dalla casa principale. Morton entrò e si richiuse la porta alle spalle. Si sedette al tavolo ingombro di alambicchi e provette, e si prese la testa con le mani.
«Dio santo, in che casino mi sono andato a ficcare!» disse ad alta voce alla stanza vuota. Si strofinò la faccia con le mani e sospirò. Con gesto tremante, tirò fuori una chiave e aprì l’ultimo cassetto della scrivania. Tirò fuori una bottiglietta piena appena per un quarto di un liquido biancastro e dalla consistenza quasi fumosa. Poi lentamente estrasse dal fondo un tomo rilegato in pelle, dagli angoli borchiati, un libro spesso che aveva attraversato i secoli. La copertina di pelle lisa non recava nessuna iscrizione, così come la costa. Sembrava più un raccoglitore di appunti che un vero e proprio testo eppure là dentro era racchiuso tutto il segreto del suo successo.
Aprì alla prima pagina:

MORPHEONOMICON
Paracelsus


De Somnio et exitu morte


Lì dentro c’era la ricetta per il suo Etere, con cui aveva addormentato il signor Abbott. Ma il libro in sé era un enigma: la prima parte, nonostante il latino e la terminologia arcaica, era stata comprensibile. Ma la seconda metà del trattato era scritta con un alfabeto sconosciuto, piena di figure inafferrabili, lettere e diagrammi che sembravano venire da un altro mondo.
C’era una sola persona che poteva, anzi doveva aiutarlo.
Con un sospiro stizzito, Morton strinse i pugni e urlò: «Allora, Chelsea, hai deciso cosa fare?»
Dal fondo della stanza, dietro una porta chiusa, giunsero i grugniti e le urla soffocate di un uomo.
«Sto per aprire, stupido idiota. Spero che ti sia deciso a dirmi tutto.»
Morton si diresse verso l’origine dei rumori. Sentiva il pavimento di legno vibrare ogni volta che quel coglione di Chelsea si dimenava. Il dentista aprì la porta del bugigattolo oscuro in cui un uomo imbavagliato e legato a una sedia si agitava in preda alla rabbia e alla disperazione.
Morton lo trascinò fuori dallo stanzino, avvicinandolo alla scrivania. Alla vista del tomo, il volto di Chelsea, scavato e rigato da rughe profonde, si infiammò cercando in ogni modo di divincolarsi, i tendini del collo tesi, le mani nodose che strattonavano le funi dietro la schiena.
Un suono gutturale emerse dalla gola riarsa, mentre saliva e sudore sporcavano il bavaglio stretto tra i denti gialli.

Sto cambiando.
Ho visto le acque ed esse mi sono entrate dentro. Il mio sangue non è più rosso, la mia carne non è più viva: sono un involucro. Ho immerso la faccia in quell’acqua turbolenta e fatta di fumo, ho assaggiato il gusto della morte, sono tornato al mondo che non ero io, sono entrato nel mondo con qualcun altro al posto mio.
Le mie braccia sono grigie, le vedo gonfiarsi. Stringo i pugni e la pelle si tende, le vene si gonfiano, i tendini tirano e poi la pelle si strappa: losanghe di carne pendono lasciando il muscolo stracciato, grigio e stopposo, morto.
Il Coro delle voci urla le sue canzoni e mi sembra di sentire la morte salire dentro di me, salire con me, essere ME. Il Coro canta di un uomo che è responsabile di tutto questo, canta che sono l’emissario, che devo correre, che devo prenderlo, portarlo con me. Il Fiume e le sue acque di fumo sono il luogo dove deve andare, la fine di tutto, il principio del dopo.
L’acqua è in me. E io sono movimento. Veloce, nella luce del sole che si spegne, corro, corro più che posso. Devo prendere l’uomo che ha fatto tutto questo.


Morton diede un violento ceffone a Chelsea. «Smettila di dimenarti, cretino. Devi decifrare il libro per me.» Morton rimase a fissare l’uomo legato, in attesa di un cenno. Per sottolineare quanto non gli piacesse aspettare, lo colpì nuovamente con il dorso della mano, forte. La testa del prigioniero scattò all'indietro e quando e ritornò al suo posto, Morton notò che l’occhio destro di Chelsea tumefatto andava chiudendosi.
«Rispondimi, maledetto. Io ti tolgo il bavaglio e tu mi aiuti a tradurre il Morpheonomicon. Va bene?»
Chelsea inspirò profondamente e poi annuì, lanciando odio dall'occhio aperto.
Morton con uno strattone gli liberò la bocca. «Paul Raymond Chelsea. Chi sei davvero? Me lo chiedo da quando ti ho conosciuto a New York. Potevi essere mio assistente e invece siamo arrivati a questo. Coglione.»
Chelsea sembrò non voler rispondere, in un primo momento. Respirava affannosamente, la bocca sanguinante per gli schiaffi. «Morirai per quello che hai fatto. Sarai dannato per sempre, Morton. Ti avevo detto che il Morpheonomicon non era un giocattolo e non poteva essere utilizzato per farci soldi. Le conoscenze contenute in quel testo sono il frutto di centinaia di anni di studi. Sono la summa totale della iatrochimica, un’arte che tu non potrai mai capire.»
Morton lo sputò. «Smettila con queste cazzate. È solo scienza, sostanze elementari che interagiscono, non c’è bisogno di metterci dentro tutta questa paccottiglia religiosa.»
«NON OSARE CHIAMARLA PACCOTTIGLIA RELIGIOSA! Incompetente, ignorante e inetto! Non osare leggere quel libro, non ne sei degno! Non sei neanche un medico, perdio!»
Morton si avvicinò e con tono ringhioso disse: «Non sono un medico? In realtà non lo sono ancora, povero illuso.»
L’espressione sorpresa deformò il volto ferito di Chelsea fino a farlo diventare quasi comico.
Morton scoppiò in una risata, soddisfatto di aver preso in contropiede quell’arrogante figlio di puttana. «Non l’hai ancora capito? Ho già iniziato a usare questo dannato libro, idiota. Proprio qualche giorno fa ho addormentato una persona con il tuo Etere: un successo clamoroso. Un’operazione senza dolore. È stato fantastico, inimmaginabile. Neanche quel borioso pallone gonfiato del chirurgo voleva crederci.»
Chelsea spalancò gli occhi in preda all’orrore. «Tu hai usato il mio distillato per addormentare un uomo?»
«Sì. Proprio come è scritto nelle prime pagine del libro. Ho usato una spugna intrisa di Etere. Un attimo e quell’Abbott sembrava morto. D’altronde, dormire è un po’ come morire, no?» e rise ancora.
«Sono stomacato dalla tua mancanza di rispetto per le conoscenze racchiuse in quel libro. Potresti diventare un medico, ma non lo sarai mai! Hai agito senza precauzioni, senza sapere dove stavi andando e se mai saresti stato in grado di tornare indietro. Non hai imparato nulla.» Chelsea scosse la testa, affranto. «Ti ricordi la storia dei polli, vero?»
Morton si spazientì per l’atteggiamento spocchioso di Chelsea: «Basta così, mi hai stancato.» gli diede un altro ceffone, più per sfogare la frustrazione di essere trattato come un idiota, come avevano sempre fatto quei tromboni di medici su ad Harvard. «Devi dirmi dove trovare l’ingrediente principale. Dove si trova l’Acqua Bianca? Devo produrre altro Etere. Ne ho bisogno!»
Chelsea lo guardò sdegnata. «Ricordati dei polli, ingrato. Porta rispetto per quello che c’è scritto nel libro.»
Ancora i polli. Come se si fosse acceso un interruttore nella mente di Morton, ricomparve la storia raccontata nel capitolo iniziale del Morpheonomicon, quella che aveva dato inizio a tutto.

15 gennaio 1531
Stamattina, è successa una cosa strana. Ho lasciato incustodita dell’acqua presa dal Pozzo Maledetto di San Castaldo. Per puro caso, il contenuto della bottiglia, dal colore grigiastro e fumoso, è caduto e si è mischiato con dell’acido fosforico, che stavo salificando per fare del salgemma antireumatico.
Per una strana alchimia mai vista prima, l’acqua grigia ha cambiato colore, diventando bianca, e sprigionando un odore medicinale.
Due dei miei polli più belli e sani hanno bevuto dal catino. Dopo pochi secondi, si sono allontanati barcollando, fino ad accasciarsi al suolo, esanimi. Li ho guardati e controllati, e con sorpresa ho notato che erano profondamente addormentati.
Dopo poche ore, i polli si sono svegliati e hanno iniziato a vagare in giro per l’aia, come ubriachi.

17 gennaio 1531
Ho dovuto abbattere i polli.
Dopo il loro sonno dovuto all’Acqua Bianca, la loro indole era completamente cambiata. Da animali mansueti quali erano sempre stati, si sono trasformati in feroci uccelli predatori assetati di sangue. I loro occhi, sempre accesi e vispi, somigliavano a un grumo appassito di carne morta. Sembravano animati solo da una brama di sangue.
Mi chiedo cosa abbiano mai visto nel loro sonno artificiale. Mi domando dove siano arrivati con la loro anima e se alla fine sono tornati indietro.
Questa sostanza è potentissima. L’intera pratica del Sonno Profondo merita di essere studiata a fondo. Ma per ora, terrò per me queste conoscenze troppo pericolose.


Morton ci aveva pensato spesso: Paracelso probabilmente aveva mal interpretato il comportamento dei volatili, animali comunque erratici e folli. D’altronde, non poteva perdere altro tempo, doveva sconvolgere quei baroni grassi e baffuti dell’Accademia di Medicina con qualcosa di mai visto prima. Avrebbe fatto di tutto per stare in mezzo a quei medici, per far vedere loro quanto valeva, che non era solo un cavadenti! E così, aveva addormentato Abbott, senza scrupoli.


Le strade sono rosse, come il sole che muore dietro di me. Il tempo passa, la bramosia aumenta. Devo prendere l’uomo che ha iniziato tutto questo, l’Uomo che Fugge, colui che non vuole smettere di vivere.
Corro, e sento che il mio bersaglio è vicino.
Più veloce.
Ho dormito nel sonno della morte per pochi minuti, ma è come se fosse per sempre, ho visto le acque, ho odorato la putrefazione delle anime e sono tornato indietro per portare con me chi non appartiene a questo mondo.
L’acqua grigia mi appartiene e io appartengo a lei. E anche l’Uomo che Fugge. Torneremo insieme all'acqua.


«Dimmi come fare altro Etere, dimmi dell’Acqua Bianca!» Morton continuava a incalzare l’uomo legato, cercando di farlo parlare. «Dimmi almeno cosa significano quei disegni del libro. Cosa diavolo è il Propof Oleum? Parla, dannazione!»
Morton era frustrato dall'atteggiamento di Chelsea, quel figlio di puttana che non voleva raccontargli i segreti del Morpheonomicon. Continuava a blaterare che doveva usare la sua Acqua Bianca per i suoi scopi idioti, che ora erano in pericolo e che era meglio che lo liberasse subito.
«Morton, il tizio a cui hai dato il mio distillato…»
«È Etere, Chelsea, niente di più.»
«Dimmi solo una cosa: è ancora in ospedale?»
«Abbott? E a te che interessa?»
«Santiddio, Morton, rispondi. È in ospedale?»
«No, certo che no. È stato mandato a casa dopo l’operazione.»
L’espressione di Chelsea cambiò radicalmente. Il suo sguardo orbo e sprezzante si riempì di terrore, la sua voce agitata e quasi singhiozzante. «Ti prego, liberami adesso e ti svelerò il segreto del libro. Anzi, te lo dico adesso: Paracelso, l’autore del Morpheonomicon, ha continuato a sviluppare le potenzialità dell’Acqua Bianca. Il Letheion, come lui lo chiamava, serviva a curare l’ultima delle malattie, la più grave, che colpisce inesorabilmente l’uomo. Vuoi sapere come?»
Morton rimase in attesa.
Chelsea, continuava ad agitarsi sulla sedia, guardandosi intorno, in preda a una forma incontenibile di terrore. L’occhio ancora aperto appariva febbrile, mentre tendeva allo spasimo le braccia dietro la schiena. «Il Letheion è un derivato dell’acqua del Fiume Lete, prelevata dal Pozzo Maledetto di San Gallo.»
«Ancora con queste stronzate religiose. E allora a cosa servirebbe questo tuo ritrovato di iatrochimica, il Letheion?»
«Se tu lo sapessi, verresti ricordato per sempre, e non solo come uno che addormenta la gente… Alla fine a chi importa di quello che ti mette a dormire?» Chelsea lo guardò quasi con sfida. «Tu vuoi di più, vero? Vuoi sapere il segreto del Letheion?»
«Inizia a dirmi perché la seconda parte del libro sembra scritta da un’altra persona? Perché è incomprensibile?»
«Paracelso decise che non tutti dovevano essere in grado di acquisire il sapere per creare l’unico estratto chimico in grado di ingannare addirittura la Morte stessa!»
Morton rimase senza parole, mentre l’altro uomo continuava la sua danza del terrore, impietrito per quello che aveva appena udito. Ingannare la morte: la malattia imbattibile finalmente sconfitta? Stentava a crederci, anzi, in realtà gli sembravano tutte stronzate.
«Lo sai cosa succede se somministri il mio Letheion senza le dovute precauzioni?» continuò Chelsea. «Il soggetto vede il Fiume Lete, vede i morti, vede la Morte e probabilmente quando si risveglia, in preda alle allucinazioni, proprio come i polli diventa violento. Si trasforma in un emissario di distruzione, come se la Morte stessa si fosse impossessato di lui. È questo il tuo addormentamento…»
«La vogliono chiamare Anestesia, a quanto pare…» disse distrattamente Morton, ripensando a Abbott e allo sguardo allucinato con cui aveva lasciato l’ospedale.
«Chiamala come diavolo vuoi, ma capisci che non è una cosa per tutti. Per comprendere la seconda metà del Morpheonomicon, per fare l’Anestesia, devi raggiungere un piano di conoscenza diverso da quello normale. Questo riesci a capirlo, gran testa di cazzo che non sei altro?» disse Chelsea, mentre con uno schiocco si liberava i polsi lividi e scorticati.
In quello stesso istante, la porta esplose in una miriade di schegge e una figura urlante fece irruzione nel Laboratorio di Morton.

La casa, il nascondiglio, il luogo maledetto.
Sento l’odore del mio stesso elemento, sento il responsabile dei miei sogni di morte, del mio viaggio oltre l’umano. Mi fermo, circondato dal buio: avverto anche l’Uomo che Fugge e il Coro lo vuole. L’Acqua grigia dentro di me ribolle e si agita in mille volute, come fumo irretito in una bottiglia. Il mio giorno è quasi compiuto, sono la mano che renderà libero il mondo dall’Uomo che Non Muore.
Il desiderio di uccidere, di assaporare il sangue mi trasforma: piccole zampe di millepiedi, verme demoniaco, dagli artigli taglienti spuntano dalle mie braccia, vibranti di morte. Io sono l’Uomo Scolopendra, il Laceratore, il Distruttore, il Purificatore.
Ascolto la voce del Coro e rilascio lo stesso canto urlante, mentre mi scaglio contro la porta.
Esplode e dentro lo vedo: l’Uomo che Fugge! L’UOMO CHE FUGGE!
Grido il suo nome, e il coro dentro di me fa lo stesso.


Morton si voltò verso la porta e vide Abbott precipitarsi nel Laboratorio. Non sembrava più lui, le mani levate al cielo, che si aprivano e si chiudevano, come vermi alla ricerca della preda. Indossava solo i calzoni laceri che portava il giorno aveva lasciato l’Ospedale.
La cosa che pietrificò Morton furono gli occhi: privi della luce che rende unico lo sguardo umano, incastonati nella faccia di Abbott c’erano due grumi di tessuto pulsante e grigiastro, che non appartenevano a questo mondo. E cos'era questo odore salmastro e aspro come l’acqua di un fiume riempito di cadaveri? Era Abbott a emanare questo odore dannato?
Morton si accorse che Chelsea si era alzato e si era lanciato verso la sua scrivania.
Abbott urlò ancora qualcosa di belluino e incomprensibile, poi pronunciò una parola che trafisse la mente di Morton: «PARACELSO, SEI MIO! Non puoi scappare!»
Paracelso?
E i pezzi del puzzle si incastrarono: Paul Raymond Chelsea. P. R. Chelsea: Paracelso. L’uomo che aveva rapito a New York dopo aver fallito la trattativa di un lavoro in società per creare una sostanza chimica che togliesse il dolore, era l’autore del MORPHEONOMICON, il libro segreto del Sonno e della Fuga dalla Morte. E dopo averla ingannata per anni, Morton l’aveva portato a un passo da lui.
Si girò verso il medico di un‘epoca passata, e lo vide prendere la bottiglietta di Letheion. Con un gesto veloce, ne fece stillare una goccia nell'occhio sinistro, accompagnando i gesti con oscure parole in latino. Poi provò velocemente ad aprirsi l’occhio destro. Ma era troppo gonfio e non ne voleva sapere mostrare la pupilla.
Per guadagnare un po’ di tempo, Morton si lanciò verso Abbott, afferrandolo alla vita.
Con la coda dell’occhio, vide Chelsea afferrare una provetta e frantumarla tra le dita. Con una scheggia mezza insanguinata, il vecchio si incise la palpebra. Il sangue sgorgò in un fiotto, e subito l’occhio si sgonfiò. Lo spalancò e ci versò dentro qualche goccia di Letheion, proprio mentre Morton veniva scagliato dall'altra parte della stanza.

Ecco l’Uomo Che Fugge, il maestro delle ombre, colui che non deve stare qui.
Tu mi appartieni, tu CI APPARTIENI!
Il Coro urla, il Coro sbraita, devo prenderlo, devo portarlo con me, devo liberarmi.
‘PARACELSO!’ Veloce verso di lui, ma l’altro, colui che mi ha addormentato, che mi ha fatto vedere l’altra parte, mi blocca. Perché? Io non voglio lui. Non adesso almeno. Dopo, forse, ma prima Paracelso, l’Uomo che mi ha sfidato e che mi è sfuggito. Deve essere mio anche il Libro che ha scritto: Il Morpheonomicon.
L’odore della dell’acqua bianca mi solletica le narici. Ma c’è qualcosa di diverso: è stata adulterata, modificata.
Vedo Paracelso, tendo le mani, ma l’Uomo del Sonno mi blocca. Lo spingo via. Paracelso si sta versando l’acqua sbagliata negli occhi.
Lo vedo, poi una fitta mi trafigge dietro le pupille. Paracelso svanisce in una nuvola di fumo, come sabbia in un fiume, come terra nel vento. Davanti a me c’è solo aria, sottile e impalpabile. Avverto qualcos’altro, ma non riesco a vederla…
Il coro urla, ulula, grida, mi lacera le orecchie, vuole sangue, vuole vendetta, vuole sfogarsi.
C’è l’Uomo del Sonno, è lui la vittima perfetta. Sarà sempre lui!
È MIO!


Morton, mezzo intontito per il volo, vide Abbott rimanere interdetto, come se all'improvviso non vedesse più la sua vittima. E con orrore, si rese conto che l’attenzione del folle era ora puntata su di lui.
Con un urlo, Abbott si scagliò contro il dentista, la bocca spalancata. «SEI MIO!» disse con una voce che non era umana e lo bloccò a terra.
Morton provò a divincolarsi, scalciando e dimenandosi, mentre con le mani cercava di tenere lontano da sé la faccia di Abbott, trasfigurata dalla rabbia, gli occhi disumani e spenti.
Sentì Paracelso dire: «Non lasciare mai che sia un dentista a fare il lavoro di un Medico!» mentre con un tonfo sordo colpiva Abbott con il Morpheonomicon. Il tomo arrivò di taglio sulla tempia, rendendo l’aggressore inoffensivo.
Morton si liberò, e chiamò Chelsea. «Aspetta! Non andartene!»
«Morton, non hai capito che cazzo hai combinato, vero? Purtroppo, quello che hai fatto avrà una grande risonanza; già vedo stuoli di persone che vorranno fare… come l’hai chiamata? Ah, sì: l’Anestesia! Beh, spero solo che riusciate a migliorare la formula, perché il mio Letheion per ora viene con me, insieme al Morpheonomicon. È troppo pericoloso. Ma come tutti i libri proibiti, prima o poi salterà fuori di nuovo e magari sarà la volta buona…»
E se ne andò, nella notte, lasciando a Morton, pieno di domande e con l’onere di essere il padre dell’anestesia.

Alessandro Calvi
Messaggi: 5

Re: Semifinale Andrea Atzori

Messaggio#3 » venerdì 12 ottobre 2018, 19:16

Ingolstadt, XIX secolo.

«Sono così vicino! Così… vicino! So che è qui, da qualche parte!»
Movimenti febbrili, invasati. L’uomo frugava tra tomi e pergamene in cerca di qualcosa. Il tavolo era ingombro di carte. Testi stampati, codici miniati, appunti, fogli volanti, pagine strappate da libri che non potevano uscire dalla biblioteca.
«Dannati, credono di sapere tutto! Ma gliela farò vedere io e…»
Il delirio solitario fu interrotto dal rumore di una porta che si apriva.
L’uomo interruppe un gesto a metà. Si girò. Chi poteva essere? Non aspettava visite.
«Ah, siete qui, amico mio! Meno male che vi ho trovato! Ho conosciuto una giovane straordinaria! Devo assolutamente presentarvela! Ho dovuto chiedere a mezza Ingolstadt prima di scoprire che avevate affittato questo posto. Sono giorni che non vi fate vedere in università, le lezioni…»
«Al diavolo le lezioni! Quegli imbecilli non capiscono niente. Stavo giusto dicendo che…»
L’uomo appena entrato si guardò attorno, cercando qualcun altro. Lo stanzone era ingombro di tavoli, strane apparecchiature, alambicchi, tubature e quella che sembrava una grossa vasca, mentre dal soffitto pendevano catene e ganci. A parte loro due, non c’era anima viva..
«Ah, lasciate perdere, Henry! Il fatto è che quelli non sanno niente. Niente! E pretendono di fare la morale agli altri su cosa sia giusto e cosa no, su cosa si può fare e cosa no! Vogliono imbrigliare la scienza, dettare regole al progresso. Ma il progresso non si può tenere a freno!»
«Di cosa state parlando?»
«Del futuro, amico mio! I professori dell’università non vedono un palmo oltre il loro naso! Ci fanno studiare su testi vecchi di anni, gli stessi su cui hanno studiato loro, i loro professori e chissà quanti prima. Sono troppo attaccati alle loro parrucche impomatate e alle loro cattedre per concepire che ci possa essere qualcosa là fuori che ignorano, qualcosa ancora da scoprire! E ciò che non si piega alla loro limitata visione della realtà deve essere bandito!»
«Io… non vi seguo. Dove è finito il vostro sogno di diventare medico? Siamo venuti qui per studiare medicina, e adesso guardatevi. Dite cose incomprensibili, avete gli occhi allucinati e cerchiati di nero, la pelle livida. Da quanto tempo non dormite e non mangiate? Da quanto non vedete la luce del sole?»
«Siete venuto a farmi la predica? Non ho tempo per questo! C’è una cosa che devo trovare. Adesso andate, amico mio, e non preoccupatevi. Sto benissimo e presto, presto starò ancora meglio! Vedrete!»
Senza aspettare risposta, spintonò fuori Henry e serrò la porta con un paletto. Poi tornò a frugare tra le carte.



Pavia, l’altro ieri.

«Ti dico che è originale.»
«E io ti ripeto che non è possibile. Senti, Mickey, basta che ci rifletti sopra un attimo…»
«So già qual è il tuo discorso, Paolo, l’avrò già sentito venti volte!»
«Vorrà dire che questa sarà la ventunesima, visto che le altre volte mi hai sentito, ma non mi hai ascoltato. Ragiona! Come puoi aver acquistato un suo diario, originale, risalente al 1800, su eBay! Fa ridere già solo a dirlo! È una delle scrittrici più conosciute di sempre, non c’è persona al mondo che non conosca il suo libro! Tutto quello che ha scritto e fatto è stato oggetto di studi! Ci manca solo di sapere quante volte andava in bagno!»
«Smettila di fare il Cerbero, ho capito. Sono un idiota e ho buttato più di duemila euro per un falso. Te l’ho detto, ho già sentito, anzi, ho già ascoltato la tua manfrina più e più volte. Ma i tuoi discorsi non cambiano che questo diario sia autentico. Puoi non crederci o sembrarti una follia, ma è originale! Ho studiato abbastanza la sua calligrafia per dirti che non mi sbaglio. O è vero, oppure è il miglior falso della storia. E poi, c’è sempre l’altra cosa.»
«Adesso sono io che non voglio sentirti. Quella tua teoria è perfino più folle dell’idea di trovare su eBay il diario sconosciuto di una scrittrice famosissima del 1800!»
«Sarà folle finché vuoi, ma il diario la conferma. Come te lo spieghi? Tra i suoi scritti ufficiali e le sue note biografiche, i riferimenti ci sono. Si tratta solo di unire i puntini senza lasciarsi spaventare dalle conclusioni.»
«Non dico che tu non sia un bravo ricercatore, ma cosa ti fa pensare di esser stato il primo? E se qualcun altro li avesse trovati e avesse scritto quel diario per prendere in giro la gente? Ci hai pensato?»
«Adesso non farmi ridere, questo sì che sarebbe assurdo, non ti pare?»
«Ma ti ascolti quando parli? A me sembra molto meno assurdo di tutto il resto! Il mondo dei collezionisti è pieno di falsi fatti a regola d’arte, capaci di superare anche la prova del carbonio 14. Certo, io l’avrei fatto pagare ben più di duemila euro!»
«Insomma, adesso non ho più solo la testa fra le nuvole, ma sono pure uno sprovveduto che si fa prendere in giro da falsi mediocri. Bella considerazione che hai di tuo fratello!»
«Non intendevo questo, quello che…»
«Quello che volevi dire è che hai da fare e devi andare.»
«Oh, insomma, Michele, non puoi…»
«Ciao!»
Sbatté la porta con più violenza di quanto intendesse.
Anche se era il minore, fin da piccoli Paolo era quello con la testa sulle spalle, quello che lo riportava con i piedi per terra. Ma quella volta gli avrebbe dimostrato che le sue non erano solo folli fantasie.
Accese lo stereo e nell’aria si diffusero le note di “The thing that should not be” dei Metallica.
Riaffondò il naso tra le pagine polverose e incartapecorite.


Dintorni di Ingolstadt, XIX secolo.

Il nuovo posto era decisamente meglio del magazzino.
Mentre lo visitava non smetteva di complimentarsi con sé stesso.
Si trattava del rudere di un vecchio castello o fortilizio, talmente vecchio e vetusto che buona parte della gente, giù in città, neanche si ricordava più della sua esistenza. Lì non avrebbe avuto bisogno di preoccuparsi di non far rumore o delle lamentele dei vicini.
Un’ala era crollata e i tetti erano quasi tutti sfondati. La vegetazione aveva già iniziato a riprendere possesso di quei luoghi e i muri erano circondati da un intrico di alberi talmente fitto da rendere l’edificio pressoché invisibile. Eppure molte stanze erano ancora agibili e il torrione era intatto, c’era spazio a sufficienza per fare quello che doveva. E, soprattutto, lì sarebbe stato lontano da sguardi indiscreti.
Svoltò l’angolo e si ritrovò in uno spazio per lui nuovo. Un piccolo giardino interno, cintato da mura, accanto al mastio principale. Fece ancora un paio di passi prima di inciampare in qualcosa. Forse una pietra caduta, ma si chinò per vedere meglio.
Con sorpresa si accorse che si trattava di una lapide.
Si guardò di nuovo attorno. Ora le dimensioni del posto, la posizione, le cunette che facevano capolino tra la vegetazione, assumevano tutt’altro significato. Aveva rinvenuto quello che doveva esser stato un cimitero, forse riservato ai membri della famiglia che lì abitava. Scoperta interessante, ma inutile: a lui serviva materia fresca, non intaccata dalla decomposizione, se possibile addirittura ancora calda.
Quel pensiero lo rese estremamente concentrato. Non aveva tempo da perdere andando a spasso. Aveva un lavoro da fare e il laboratorio non si sarebbe allestito da solo.
Si girò e tornò sui suoi passi.



Aeroporto di Malpensa, ieri.

«Che ci fai qui?»
«Indovina?»
«Non dirmi che vieni anche tu.»
«Esatto.»
«Ma…»
«Senti, Mickey, sarai anche uno stronzo che si è fatto turlupinare come un gonzo, ma sei mio fratello. E oltretutto nostra madre mi ucciderebbe se sapesse che ti ho lasciato andare da solo!»
«Io… sì, hai ragione, mi sono comportato come una merda. Sono contento che tu sia qui.»
«E poi non volevo perdermi la tua espressione, quando non troveremo niente!!!»
«E se invece trovassimo quello che penso, mi sentirai ripetere te l’avevo detto per tutto il viaggio di ritorno!»


Dintorni di Ingolstadt, XIX secolo.

Gli ci erano voluti giorni per avere tutto il materiale. Alla fine si era rivolto a diversi carrettieri per non attirare troppo l’attenzione e operare nel massimo anonimato.
«Quei miopi, boriosi, saccenti e ignoranti mi hanno dato del pazzo, dell’eretico. Bah! Sono diventati baroni dell’università grazie a sotterfugi e manovre politiche, non sono degni di farsi chiamare professori! Chissà cosa sarebbero stati capaci di fare se avessero visto i miei esperimenti.
Ma questo è il passato, finalmente ho completato le mie ricerche. Tutti i pezzi sono al posto giusto, devo solo mettermi all’opera.
No, no, è stata una scelta brillante, caro mio. Anzi, non mi capacito di non averci pensato prima. Questo posto è perfetto, qui finalmente potrò terminare il mio lavoro!»
L’isolamento aveva incentivato una tendenza che aveva sempre avuto: quella di parlare da solo. Se un tempo era stata un vezzo in cui inciampava solo nei momenti di particolare concentrazione, un modo per fare ordine tra i suoi pensieri, ormai vi indulgeva costantemente.
«Bene, bene. Ormai ho tutto quello che mi serve… e spazio a sufficienza. Dunque, questo potrebbe andare lì e… no, meglio in quest’angolo. La caldaia nel bugigattolo, mentre la vasca là in fondo. Qui dovrebbero passare i condotti e…»
Non si era reso conto, però, di quanto avrebbe potuto essere impegnativo assemblare da solo il laboratorio.
Gli ci vollero quasi due settimane di fatiche, muscoli indolenziti e ripensamenti.
Ma infine tutto fu pronto.
Poteva iniziare.



Dintorni di Ingolstadt, oggi.

I due si stavano inerpicando su un pendio, nel mezzo del bosco, da diverse ore. Non c’era un sentiero e dovevano inventarsi una strada tra i pini e gli abeti, stando attenti a non scivolare sulle radici. Nonostante si fossero muniti di scarponi e piccozze, la salita non era facile e la fatica si faceva sentire.
«Ma sei sicuro che sia la strada giusta? Qui non c’è niente!»
«Sì, più o meno. Non è che nel diario abbia messo longitudine e latitudine, eh! Ha solo descritto a grandi linee la zona. E poi sono passati duecento anni, credo che i paraggi siano un po’ cambiati!»
«Quindi stiamo cercando il classico ago nel pagliaio? Tra l’altro un ago che neanche esiste!»
«Adesso non ricominciare!»
«Certo che ricomincio! Perché io già mi immagino le scuse che inventerai: il posto c’era, solo che non l’abbiamo trovato, magari era pochi metri più in là! tutto pur di non ammettere che ti sbagliavi! E quando…
Mickey?»
Nessuna risposta. Suo fratello non era più in vista.
«Ehi, dove sei finito? Michele, rispondi!»
Scavallato l’ultimo dosso, anche Paolo rimase senza parole.
Di fronte a loro, semi sommersi dalla vegetazione, i resti di un vecchio edificio, forse un castello. Poco più avanti, sulla sinistra, un torrione, quello invece quasi intatto.
«Beh? Che mi dici adesso?»
«Ecco…»
«Dai, vieni!»
«Aspetta! E se fosse pericolante? Non so se…»
«Non sono arrivato fin qui per non entrare! Se vuoi, resta lì ad aspettarmi!»


XIX secolo.

«Come mi avete trovato? Chi è questa donna?»
«Lei è la ragazza di cui vi avevo parlato, ricordate? Comunque non importa, è con me. E io sono vostro amico! Vostro padre mi ha scritto più e più volte, le ultime lettere che gli avete inviato lo hanno spaventato, teme per la vostra sanità mentale. Non potevo lasciarvi preda della follia. Ci ho messo settimane a rintracciarvi in questo posto dimenticato da Dio! Ma cosa pensavate di fare? Vivete come un eremita! In nome della nostra vecchia amicizia, vi prego, Victor, tornate a Ingolstadt con noi.»
«Impossibile, Henry! Non mi fermerò ora che sono così vicino.»
«Non potete restare qui, e se vi succedesse qualcosa? Morireste da solo, dimenticato da tutti, non avete neanche un cavallo per scendere in città.»
«Quindi nessuno sa che sono qui? Ah, meno male…»
«Ma cosa state dicendo?»
«Zitto! Non dite altro, Henry. In realtà sono contento che voi siate qui. Sì, sì, ecco, avrei dovuto pensarci io. Un esperimento rivoluzionario ha bisogno di testimoni, certo, altrimenti potrebbero non credermi!»
«Mio Dio, Victor, straparlate!»
«Vi ho detto di fare silenzio! Non ho tempo per voi, adesso. È quasi pronto, devo solo terminare alcune cose. Mettetevi lì e non intralciatemi, sarete testimoni di qualcosa che cambierà la storia dell’umanità!»
Con gesti febbrili iniziò a correre in giro abbassando leve, girando manopole, dando la spinta a dei volani. Dopo poco sembrò che tutto l’edificio si fosse messo in moto. Le mura emettevano una leggera vibrazione, mentre dal soffitto cadevano fili di polvere.
Henry e la ragazza si guardarono attorno, combattuti tra il desiderio di aiutare l’amico, la curiosità e il terrore che potesse crollare tutto.
«Seguitemi, da questa parte, sta per iniziare…»



Oggi.

Michele scavalcò alcune pietre e penetrò nel perimetro dell’edificio, Paolo lo seguì.
Ciò che restava dei muri, non superava il metro e mezzo d’altezza. Alberi e cespugli erano cresciuti ovunque, rendendo difficile distinguere interni ed esterni.
Dopo circa dieci minuti, i due fratelli si fermarono e si sedettero su delle pietre.
«Mickey, arrenditi, qui non c’è niente. Non si sentono neanche gli uccelli o altri animali e questo mi dà i brividi. Torniamo indietro?»
Lo sguardo di Michele cadde sul torrione.
Forse c’era ancora una speranza.

Victor li condusse in un’ampia stanza circolare. Una scala correva lungo il muro e si perdeva nelle tenebre. Le pareti erano ricoperte di tubature, mentre il centro era occupato da quella che sembrava una cisterna. Un enorme contenitore color del rame, rivettato come per resistere a una grandissima pressione.
«Ecco, fermatevi lì!»
La vibrazione sembrò aumentare, mentre dai volani iniziarono a scaturire archi elettrici.
Henry e la ragazza si fecero indietro, spaventati.


Michele girò intorno al torrione in cerca di un ingresso.
Trovò quasi subito la porta, ma era ostruita da un muro che ci era crollato contro.
Forse, però…
Si mise carponi e provò a strisciarci sotto. Era stretto, ma ci passava.
«Dai, Paolo, vieni. Non è difficile.»
«Sì, sì, arrivo, un attimo! Chissà cosa mi è venuto in mente di venirti dietro… Merda!»
«Checc’è?»
«Sono incastrato. Non vado più né avanti né indietro. Credo sia lo zaino, deve essersi impigliato.»
«Prova a spingere, ce la fai? Dammi le mani, io ti tiro e tu spingi!»
«Sì, mi sembra che qualcosa stia cedendo.»
«Dai forza!»
CRACK!
Paolo ritrasse i piedi appena prima che un altro pezzo di muro cedesse e chiudesse quell’unico passaggio sotto pietre pesanti più di duecento chili.
Michele diede una mano al fratello a tirarsi su e lo abbracciò di slancio.
Paolo era impolverato, ma illeso.
Di lì non si passava, per uscire dovevano cercare un’altra via.

Ormai vibrava tutto.
Archi elettrici riempivano l’aria e correvano dalle pareti alla struttura al centro.
«Sì! Così! Ecco!!!»
Henry e la ragazza erano atterriti di fronte a quello spettacolo.
«Ci siamo! GUARDATE COME L’UOMO SCONFIGGE LA MORTE!»
Victor corse verso la cisterna e iniziò a scalarla. Gli archi elettrici correvano sul suo corpo, come accarezzandolo, ma dove lo toccavano lasciavano piccole bruciature. Lui però non sembrava farci caso.
Arrivato in cima si mise in piedi sul bordo, le mani alzate, come un antico sacerdote mentre evocava le divinità.
Quasi in risposta, l’edificio iniziò a vibrare con ancora più violenza, sembrava sul punto di spaccarsi in mille pezzi.
«Sorgi! Te lo ordino come tuo creatore! SORGI!!!»


Il buio era quasi completo.
Per fortuna entrambi avevano portato delle torce elettriche.
Michele accese la sua e iniziò a inoltrarsi in quell’ambiente.
Gli bastò un rapido sventagliare della luce per capire che aveva fatto centro.
Strane apparecchiature riempivano le pareti. Tubature correvano ovunque e convergevano verso il centro. Verso una grossa struttura di metallo.
Sì, cazzo, sì!
Aveva ragione lui! Il diario era autentico! Non un falso!
E confermava la sua teoria. Mary Shelley non si era inventava la vicenda di Frankenstein, ma aveva assistito realmente a un esperimento simile a quello nel libro.
Era una scoperta eccezionale!
Certo, l’esperimento doveva essere stato un fallimento, ma era bastato per dare l’idea alla scrittrice.
E se, invece, avesse funzionato? Se davvero avessero riportato in vita il mostro?
Si diede dell’imbecille: qualsiasi cosa avessero combinato lì dentro erano passati duecento anni!

Dalla vasca emerse una mano.
Era troppo grande per essere umana.
Ma a ben vedere lo era davvero, anzi erano più mani.
Ogni dito era composto da due, tre dita fuse insieme.
Si vide ogni singolo muscolo, ogni singolo tendine contrarsi dietro alle pelli. La forza doveva essere spaventosa, perché la presa iniziò a segnare il metallo.
Una seconda mano, anche più orrenda, si affiancò alla prima. Poi la creatura si sollevò.
Aveva forma antropomorfa e doveva essere alta quasi tre metri, perché in piedi superava con tutte le spalle il bordo della struttura.
«Sì, sì, SÌÌÌÌÌÌÌ!!! ORA I PROFESSORONI DELL’UNIVERSITÀ NON POTRANNO PIÙ CHIAMARMI PAZZO! SONO LORO I PAZZI PER NON AVERMI ASCOLTATO! IO, VICTOR FRANKENSTEIN, HO SCONFITTO LA MORTE!!!»


Doveva documentare tutto, ce n’era abbastanza per diventare famosi!
Mentre Paolo si guardava attorno, Michele si fermò per frugare nello zaino e prendere la reflex digitale.
Quel posto così buio necessitava il giusto settaggio. Inavvertitamente urtò un tubo e il suono rimbombò per tutto il torrione. L’eco si proiettò fino al tetto e tornò indietro come un tuono.
I due fratelli si guardarono attorno terrorizzati, col timore di crolli imminenti.
Invece, un altro suono sembrò rispondere dall’interno della cisterna.
Un rumore gorgogliante, che Michele non riusciva ad associare a nulla di conosciuto.

Un rombo fece tremare la terra.
Solo il crollo di una parte dell’edificio poteva averlo provocato.
Henry e la ragazza caddero in ginocchio, mentre Victor fu sbalzato giù dal bordo.
«Dobbiamo andarcene, Victor! Qui sta per crollare tutto!»
In tutta risposta, la creatura si issò fuori dalla cisterna.
In soli due passi fu di fronte a Henry. Lui non fece neanche a tempo a rialzarsi che quella lo afferrò per la gola e iniziò a sollevarlo.
Lo tenne così per qualche istante, girando l’enorme testa, come per osservarlo con ciascuno dei tanti occhi. Il corpo era un coacervo di arti, muscoli, organi, tutti fusi insieme in maniera caotica.
Poi, come avesse preso una decisione, la creatura afferrò il braccio sinistro di Henry e tirò.
La forza e la violenza impressa furono impressionanti. Ossa, tendini, muscoli, pelle e tessuti vennero strappati come niente. Il sangue prese a zampillare dal moncone della spalla come da una fontana.
A quella vista, la donna lanciò un grido e fece la cosa più sensata: fuggì.
Continuò a correre fino a che le urla di Henry non furono coperte dal rumore del crollo dell’edificio.


La cosa iniziò a riversarsi fuori dalla cisterna.
Non aveva una forma definita e al contempo ne aveva tante insieme contemporaneamente. Le torce non riuscivano a inquadrarla tutta, se ne vedevano solo dei particolari. Qui una mano che emergeva dalla massa, là le costole di una gabbia toracica, uno, due, dieci volti! Non solo parti umane, ma anche animali. Una coda, la schiena di un serpente, zampe di topi e mille altre cose non identificate.
Infine occhi, di tutte le forme e dimensioni, occhi che li fissavano.
La cosa scattò verso Paolo con eccezionale velocità.
Protese le sue mani, le sue zampe e tutte le sue appendici e lo afferrò.
Paolo urlò, mentre la creatura iniziava a smembrarlo. Gli rimosse la pelle, strappandola a brandelli, esponendo le fasce muscolari sottostanti, i tendini e il bianco delle ossa. Ancora vivo, i suoi occhi, lattiginosi globi senza più palpebre, furono testimoni inermi di ciò che gli stava succedendo. Poi, un pezzo alla volta, la cosa lo assimilò, rendendolo parte di lei.
Michele era congelato dal terrore, mentre nelle orecchie ancora gli rimbombava la voce di suo fratello, anche dopo che si era spento l’ultimo eco.
Un lampo di comprensione gli attraversò il cervello.
Quella creatura non era sopravvissuta cibandosi, bensì assimilando gli altri animali, per questo non ce n’era nei dintorni. Incapace di morire, continuava ad accumulare altre forme di vita dentro di sé.
Michele avrebbe voluto gridare, ma lo fece la creatura per lui.
Lo fece con decine di gole e di voci differenti. Indicibile, orrenda cacofonia di suoni, di versi, di ringhi e richiami vomitata direttamente dall’inferno.
La mente di Michele vacillò.
Si guardò attorno in cerca di una via di fuga. Ma non c’era modo di uscire di lì!
Indietreggiò, poi si voltò e cominciò a correre.
La creatura scattò all’inseguimento.
L’unica speranza era salire.
Imboccò i gradini due a due, divorando le scale.
Ma la cosa, là dietro, non aveva bisogno degli scalini. Si afferrava con tutti i suoi arti, le sue mani, le sue zampe, a ogni minima sporgenza delle pareti.
Ed era veloce. Terribilmente, mortalmente veloce.
Mentre lui era stanco.
L’adrenalina lottava nel suo corpo con l’acido lattico. Le gambe iniziavano a fargli male, a farsi pesanti, mentre quella cosa era sempre più vicina.
Improvvisamente, vide uno spiraglio di luce.
Moltiplicò gli sforzi e sbucò all’aperto, evitando proprio all’ultimo che la creatura gli ghermisse una caviglia.
Era fuori!
Non si era reso conto di essere salito tanto.
La sommità del torrione superava di venti o trenta metri le cime degli alberi.
Dietro di lui, la cosa aveva iniziato a infilarsi nel pertugio. Si comprimeva, si stringeva, spingeva e ne fuoriusciva un pezzo per volta. Lentamente ma inesorabilmente.
Cosa poteva fare?
Era impossibile scendere lungo la parete esterna: le pietre erano troppo lisce e scivolose; se ci avesse provato quella cosa gli sarebbe stata subito addosso.
Qualsiasi cosa fosse successa, non voleva finire come suo fratello. Non voleva diventare parte di quell’abominio!
C’era un’unica soluzione.
E in fondo se lo meritava, era tutta colpa sua.
Si guardò alle spalle un’ultima volta. Sperò solo che nessuno li venisse a cercare.
Poi fece un passo nel vuoto.

Avatar utente
Spartaco
Messaggi: 997

Re: Semifinale Andrea Atzori

Messaggio#4 » martedì 16 ottobre 2018, 22:06

Ecco a voi il giudizio di Andrea Atzori:

Commenti

Letheion: bel soggetto davvero. Sviluppato meglio, avrebbe sicuramente avuto una marcia in più sul concorrente. Intrigante, originale, riuscito. Non ho apprezzato la scelta di sacrificarlo sull’altare del pulp, cosa che ne ha sminuito il fascino, virando su un effetto commedia reso stucchevole anche dal costante alterco nei dialoghi, poco realistici nel complesso, e appesantiti da turpiloquio non necessario e dai punti esclamativi. Interessante il capovolgimento prospettico dell’identità di William Morton, ma la nuova personalità è una maschera di teatro, statica, che suggerisce un atteggiamento già dalle prime parole di esordio e non riserba più alcuna profondità. Era Paracelso il jolly che poteva essere vincente, ma non lo è stato. Forse, se si fosse optato per una divisione in scene più piccole e serrate per dare un senso di progressione della trama, anziché puntare su un grosso interrogatorio dentro la stessa stanza – con le parti salienti raccontate a voce da due contendenti anziché veramente mostrate al lettore – il racconto avrebbe funzionato meglio. Bisogna stare attenti ai dialoghi. Se questi sono solo un modo colorito di fornire informazioni al lettore, be’, meglio decisamente far tacere i personaggi e cercare un’altra via, altrimenti i personaggi appariranno non come persone, ma come marionette dell’autore. Riguardo allo stile, non male. Pulito e asciutto al punto giusto. Peccato.

The Thing that Shuld Not Be: anche qui, all’inizio, i dialoghi sono quasi caricaturali. Botta e risposta a chi fa la battutina più sagace, in una discussione che non è spontanea, ma che ha i cartelli in sovraimpressione con le informazioni base che servono alla trama per partire con il piede giusto. Fortunatamente, grazie anche a una divisione in scene svelta e concisa, la trama ingrana davvero, tanto che si sorvola sulle imperfezioni. Il soggetto, appena si capisce l’allusione chiara, accende la scintilla nel lettore, e l’autore è bravo a mischiare ulteriormente le carte. Inaspettata la morte di Paolo (passare dai siparietti fraterni allo smembramento, be’, ha avuto un perché) e anche la mutazione polimorfa di Frankenstein, molto lovecraftiana, che per un momento mi ha suggerito risvolti peggiori… (e se nell’ammasso di carne fosse spuntato il viso di Mary Shelley? Sorpresa!). Insomma, avvincente sino all’ultima riga. Forse lessicalmente meno incisivo rispetto al suo avversario, ma nel complesso un racconto migliore. Avanti in finale.

Accede alla finale: The Thing that Shuld Not Be

Avatar utente
Wladimiro Borchi
Messaggi: 258

Re: Semifinale Andrea Atzori

Messaggio#5 » mercoledì 17 ottobre 2018, 8:45

Complimenti al finalista...
Ma allora Eugene può essere anche battuto...
ZAN ZAN ZAN ZAN!!!
IMBUTO!!!

Torna a “La Sfida a Né a Dio né al Diavolo”

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 1 ospite