La Signora della droga, di Francesco Nucera

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo novembre sveleremo il tema deciso da Angelo Frascella e Massimo Lunati. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Angelo Frascella e Massimo Lunati assegneranno la vittoria.
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ceranu
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La Signora della droga, di Francesco Nucera

Messaggio#1 » sabato 24 novembre 2018, 0:42

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La Signora della droga


«J, guarda l'orizzonte e dimmi cosa vedi.» Stefano sollevò la mano destra, il palmo a tagliare l'aria in una movimento circolare.
Il ragazzino, seduto al suo fianco, scattò sugli attenti, spalancò gli occhi e si sporse in avanti. Il cappello nero di lana, tirato fin sulle sopracciglia, gocciolava nebbia e il giubbotto rifletteva la luce gialla del lampione sotto cui erano appostati. Aveva il collo taurino pieno di tatuaggi, un pantalone con il cavallo a metà ginocchia e lo sguardo bovino.
Passarono alcuni istanti, J socchiuse le palpebre e si morse il labbro inferiore. Scosse la testa e si voltò verso il suo boss.
«Non vedo un cazzo, bro!»
«Già, ed è tutto quello che c'è rimasto…»
«Ma che dici, è per colpa della nebbia. Siamo a Milano, se vado a pisciare non riesco a vedermi nemmeno l'uccello.»
«Tu guardi solo ciò che vedi, ma oltre questo muro bianco non c'è più nulla per noi.»
«lo so che c'è altro. Ci sono le popolari di via Baroni, ci sono nato…»
«Continui a non capire, ma d'altronde non è il tuo compito pensare.»
Il ragazzo si accigliò e inclinò la testa di lato. «Bro, mi stai insultando?» chiese.
«Può mai il sole sorgere a ovest?»
«Non lo so. Mica sono io “Il Professore”» sentenziò J, dopo un lungo silenzio.
«Appunto, non farti domande se tanto non comprenderesti le risposte. È ora di andare.»
Stefano, che chiamavano Il Professore perché era l'unico nel giro ad aver frequentato almeno un anno d'università e a riuscire a calcolare la junta in caso di pagamento senza fattura, poggiò le Nike sull'asfalto, infilò indice e medio in bocca ed emise un lungo fischio.
Dal muro di nebbia sbucò un pitbull nero, un ramo lungo il doppio di lui in bocca e il collare di diamanti al collo.
«No Argo, quello non lo possiamo portare a casa!» sgridò l'animale che si fermò, abbassò il capo, serrò la mascella e spezzò il legno in due pezzi. Stefano sorrise, si chinò e carezzò il cane sull'imponente testa.
«Bravo il mio cucciolo, adesso andiamo a casa e ci mettiamo sul divano a guardare Narcos…» Fece un passo e una mano gli serrò il gomito.
«Bro, non possiamo andarcene: manca un'ora alla chiusura della piazza.» J, lo sguardo rivolto a terra per non sfidare ulteriormente il boss, mollò il braccio e fece un passo indietro.
Stefano inspirò profondamente e sbuffò una nuvola di condensa dal naso.
«Questa piazza è mia. Anzi, tutte le piazze di Gratosoglio Sud lo sono. Quindi decido quando e se aprirle.» Una vampata di calore gli salì dallo stomaco e gli infiammò il petto: all'improvviso aveva caldo. Portò la mano al collo, afferrò il laccio della zip e lo abbassò fino a metà petto. La pistola, infilata nella fondina sotto l'ascella, finalmente libera dalla pressione del giubbotto si staccò dal torace.
«Bro, tu hai ragione, ma stamattina alla riunione…» J si massaggiò la guancia. «Cleopatra ha detto che noi di Sud dovevamo…»
Stefano estrasse la pistola e, prima che il suo sottoposto potesse finire la frase, gli infilò la canna di metallo in bocca.
«Tu puoi nominare quella stronza?»
Il ragazzo, gli occhi a palla che supplicavano perdono, scosse la testa.
«Bravo. Qui chi comanda?»
«UUU…»
«Ottimo. Quindi ora dove andiamo?»
«Ha haha…»
«Vedi, con il ferro in bocca il tuo QI aumenta. Andiamo!» Rinfoderò la pistola, si chinò e raccolse una delle metà del ramo.
Argo, che aveva guardato la scena seduto a terra con la bocca spalancata, la lingua ciondolante e la coda in continuo movimento, scattò in piedi e si rimise a giocare con il legno.
Mentre lasciava la piazza, Stefano ripensò all'incontro con gli altri boss di quella mattina. Un nodo alla bocca dello stomaco tornò a fargli compagnia. Sapeva di aver preso la decisione giusta, era la decisione migliore per tutti, ma il suo orgoglio non era d'accordo.

***

Cleo, lo sguardo assorto, carezzava Salem, il suo Maine Coon bianco e nero che, sdraiato sulla scrivania, continuava a fare le fusa.
L'applauso che aveva chiuso l'assemblea quella mattina le riecheggiava ancora in testa. Aveva ottenuto ciò che voleva, eppure da quel giorno le responsabilità avrebbero potuto schiacciarla. Sbuffò e si stiracchiò sulla sedia girevole, abbandonò il collo all'indietro e fece oscillare il lunghi capelli neri.
Salem emise un miagolio di protesta e le saltò sulle ginocchia. Le zampe dietro sulle cosce e quelle davanti sul petto, affossò delicatamente le unghie attraverso i vestiti e sfregò la testa sul collo di lei.
Cleo si sollevò. «Almeno con te non devo mentire…» sussurrò ricominciando a carezzare l'animale.
Le fusa aumentarono d'intensità. Salem socchiuse gli occhi e ripartì all'assalto con una nuova testata.
«Però sei diventato troppo pesante» protestò la ragazza sporgendosi in avanti per indurlo a scendere. Dopo un attimo di titubanza, il gatto saltò sul pavimento producendo un tonfo pesante e, la coda orgogliosamente puntata verso l'alto, si incamminò verso la cucina.
«Eh no, caro il mio ciccione, non è l'ora della pappa!»
Strappata dai suoi pensieri, Cleo si alzò e camminò fino alla porta finestra. Scostò la tenda, girò la maniglia e fece scorrere l'anta verso sinistra. Una ventata d'aria fredda entrò in casa e si insinuò, attraverso i vestiti larghi, sulla sua pelle. Un brivido le attraversò la schiena procurandole una sensazione piacevole: la fece sentire viva.
Poggiò i piedi nudi sulle piastrelle umide del terrazzino e si incamminò verso la ringhiera. Afferrò un pacchetto di sigarette, ne estrasse una, umettò le labbra con la lingua e ci poggiò il filtro arancione. Frugò nelle tasche dei pantaloni e cavò fuori un accendino d'argento con inciso “C&S”. Lo soppesò un paio di volte, serrò la presa e, col pollice, fece girare la rotella. Una fiammella si animò ma, con la stessa velocità con cui era comparsa, cedette a una folata di vento. Ripeté l'operazione, questa volta con la sinistra a formare una conca di protezione, aspirò, la sigaretta richiamò a sé il fuoco e il tabacco crepitò.
Quando staccò le labbra dal filtro un rivolo di fumo le salì dall'angolo della bocca su fino all'occhio, costringendola a socchiuderlo.
Fece altri due passi, poggiò i gomiti sulla balaustra di metallo e guardò la strada. Sette piani sotto di lei, una densa distesa bianca copriva le auto lasciando scoperti i tettucci, lambiva i balconi dei piani più bassi e sembrava insinuarsi nei portoni.
«Signora…»
Quella voce strisciò nelle sue orecchie come il raschio delle unghie sulla lavagna. Si voltò e abbozzò un sorriso poco convinto.
«Quale verità sei venuto a rivelare?» chiese, mal celando l'insofferenza.
L'uomo allargò le labbra e mise in mostra una serie immacolata di denti lunghi e aguzzi, più simile a quelli degli animali che agli esseri umani. Il volto appuntito, le orecchie larghe e i capelli neri gli conferivano un aspetto tutt'altro che rassicurante.
«La rotonda del 126 è stata lasciata scoperta prima del tempo.»
Cleo sbuffò una nuvola di fumo e tornò a guardare la strada. «Per quanto?»
«Un'ora.»
«Bene» si limitò a rispondere la ragazza, portando la sigaretta alla bocca.
«Signora, se mi permette…»
«Posso esimermi dall'ascoltare i consigli di Snake?» Quell'uomo era un viscido e gli procurava ribrezzo la sola presenza. Ma era stato un uomo fidato di suo padre, al tempo del proibizionismo, e non c'era nessuno più bravo di lui nel suo lavoro.
«Sarebbe il caso di mandare immediatamente un messaggio al Professore, altrimenti gli altri potrebbero prenderla come un affronto, che lei in questo momento non si può permettere. Sa com'è, i Calabresi non vedono di buon occhio una donna al comando e hanno accettato la sua incoronazione solo per il rispetto che nutrono per la memoria di suo padre.»
Cleo si morse un labbro, fissò il filtro deformato tra l'indice e il medio della mano destra e annuì. «Si stava meglio quando le piazze erano di chi se le prendeva, da quando è subentrato il governo, con i suoi scagnozzi, è diventata una vera merda!» borbottò.
«Vado a fargli visita?» chiese l'uomo, avanzando di qualche passo.
«No, faccio io. Tu torna a casa, avrai pure una famiglia…»
Cleo si voltò, ma il terrazzo era deserto, di Snake erano rimaste solo le impronte sul pavimento umido.

***

Stefano si chiuse la porta di casa alle spalle, poggiò le chiavi nella ciotola sul muretto accanto all'ingresso, appese il giubbotto nel guardaroba e si sfilò le scarpe, riponendole nella scarpiera. Durante quello che era diventato da anni il suo rituale, Argo era entrato e uscito dalla cucina una dozzina di volte.
«Arrivo, arrivo…» disse al cane, che rispose con un guaito.
Entrò in cucina, aprì lo sportello della credenza e fissò i barattoli di vari gusti.
«Oggi selvaggina?» chiese dopo un attimo di titubanza.
Argo spostò con il muso la ciotola di metallo fino ai piedi del suo padrone.
«Lo prendo per un sì.»
Lo schiocco della latta che si deforma riecheggiò nella cucina, l'odore sempre uguale di cibo per cani gli penetrò su per le narici. Si chinò, spostando la testa di lato per allontanare l'olezzo, e rovesciò la carne dando il via al duello cane VS ciotola. A ogni affondo di Argo il contenitore di metallo strisciava sul pavimento allontanandosi dall'animale.
Movimenti sempre uguali, routine, rituali, consuetudini, o in qualsiasi modo si potessero chiamare, stavano gettando Stefano in un loop fatto di apatia disperata. Era andato alla riunione con la speranza che qualcosa potesse cambiare, invece era tutto disperatamente uguale: lei l'aveva degnato solo di uno sguardo sfuggente.
Per non cedere allo sconforto, aveva provato a uscire dagli schemi, era tornato in piazza come quando era pischello, ma quel tentativo si era trasformato in una condanna. Dopo meno di un'ora era ricaduto nella vecchia di routine, aveva evitato di calpestare le mattonelle smussate della “Rotonda”, aveva iniziato a giocherellare con le Buste che aveva in tasca, strizzato l'occhio ai ragazzini alla ricerca di un “tocco di fumo”, fatto lo scemo con le ragazzine carine e il duro con gli sbirri che gli avevano chiesto la licenza di vendita. Certo, almeno quello era cambiato, un tempo sarebbe dovuto scappare a gambe levate, ma quel singolo avvenimento non potevano sciogliere il nodo che gli attanagliava la gola.
Senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò seduto sul divano, rivolto verso il televisore, i piedi poggiati sul tavolino e il telecomando in mano: era diventato un automa.
Serrò la mascella, chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Nel buio delle palpebre serrate comparve l'ombra di un volto che allontanò immediatamente. Avrebbe voluto chiamarla, ma era passato così tanto tempo…
Mentre formulava quel pensiero si ritrovò in mano il cellulare, altro movimento automatico che l'aveva portato a sbloccarlo. Con il pollice sfiorò l'icona di WhatsApp che indicava ottantasei notifiche. Le ignorò tutte e corse verso il basso, alla ricerca dell'unico contatto che gli sarebbe interessato, salvato sotto una semplice “C”.
Non c'era, come sempre.
Strinse il pugno sinistro e con la mano destra scagliò lo Smartphone sulla poltrona accanto. Riafferrò il telecomando nel momento in cui Argo, uscito vincitore dalla battaglia con la ciotola che era arrivata in sala, saltò sul divano spalancando la bocca in uno sbadiglio che infestò l'ambiente con il tanfo di carne in scatola.
La bocca di Stefano si deformò in un ghigno rassegnato. Sollevò le spalle, scosse la testa e puntò il telecomando verso il televisore. Prima ancora che si accendesse, digitò una sequenza di numeri che l'avrebbe portato su Discovery Channel.
«Fanculo Narcos, stasera ce ne andiamo in qualche posto esotico» disse al primo bagliore dello schermo. L'entusiasmo si spense sulla panoramica fatta da un elicottero che volava su Milano.
«Cos'altro può andare stor…» fu interrotto dal rumore del citofono e dall'ululare eccitato di Argo.

***

Nascosta dal cappuccio della felpa tirato fin quasi agli occhi, Cleo s'infilò nel piccolo ascensore quadrato. Sollevò l'indice e schiacciò il tasto cilindrico nero con gli angoli smussati e un sei sbiadito dall'usura inciso sopra. Uno schiocco metallico precedette l'inizio della salita.
Mentre la cabina si inerpicava nella pancia di quel vecchio palazzo popolare di periferia, la ragazza si fregava le mani arrossate dal freddo. Avrebbe guardato Stefano negli occhi e poi?
Si erano già detti tutto tempo prima, un anno, forse di più. E lei aveva scelto per entrambi, perché sapeva che non c'era altra scelta.
Nati in quel quartiere di periferia, lei da un padre egiziano e lui napoletano, avevano vissuto insieme l'ascesa delle due famiglie e sembrava che nulla avrebbe potuto separarli, ma poi era arrivato il fato, travestito da Stato liberale, che aveva imposto una gerarchia precisa, e da lì le responsabilità prima di suo padre e ora sue. Non sarebbero più potuti stare insieme, le altre famiglie non avrebbero permesso una fusione di zone e ancor meno l'avrebbero permesso i Calabresi che facevano da garanti per il governo.
L'ascensore si bloccò di colpo con un sussulto e uno schiocco, simile a quello della partenza, che indicarono l'arrivo al piano.
Spalancò le due ante in legno e spinse la porta di metallo ma, prima che quest'ultima gli permettesse di uscire, una figura scura le saltò addosso obbligandola a fare due passi indietro.
«Anch'io sono felice di vederti, Argo!» Cleo, colpita al ginocchio dalle frustate della coda del pittbull, si chinò e grattò dietro le orecchie il cane che si appiattì a terra con la schiena contro il pavimento e le quattro zampe larghe.
«Lo sapevo che avrei dovuto prendere un “corso”…»
La voce di Stefano le carezzò i timpani.
«No, Argo è un cane bellissimo!» Cleo finì di massaggiare la pancia dell'animale e si rimise in piedi, a pochi passi dal Professore che, fermo sulla soglia di casa, la guardava dall'alto in basso.
Gli si parò davanti e bloccò l'istinto di saltargli al collo per abbracciarlo e baciarlo. Il corpo doveva avere una memoria tutta sua: ogni centimetro di lei lo bramava.
«Mi fai entrare?» chiese, sbucando dal cappuccio che rigettò sulle spalle coperte dal piumino rosa.
Stefano rimase immobile, gli occhi socchiusi e lo sguardo impenetrabile.
«Le regole sono sempre le stesse» disse, voltandosi e rientrando in casa.
Con i piedi ancora sullo zerbino fuori dall'ingresso, Cleo sfilò le scarpe tacco dodici, le prese in mano, entrò e le adagiò sul pavimento in corrispondenza dell'appendino che usò per la giacca.
L'appartamento era rimasto lo stesso di quando si frequentavano: ordinato e pulito con un arredamento essenziale. Da lì non poteva vedere le altre due stanze, ma era certo che in una ci avrebbe trovato il letto matrimoniale, il mobile Ikea, un comodino e un quadro che copriva la cassaforte con dentro armi, droga e contanti. Mentre nell'altra una panca da pesi, il tapis roulant e una brandina richiusa per gli ospiti che non avrebbe mai avuto.
«Sei venuta a festeggiare la tua vittoria, “Signora della droga”?»
«Sai perché sono qui…» Cleo slacciò la felpa, sfilò la Glock dalla fondina e la poggiò sul muretto, accanto al cestino delle chiavi.
«Ti sbagli, quella delle certezze adamantine sei sempre stata tu. Io sono quello dei dubbi, delle incertezze…»
Adorava il modo in cui Stefano la stuzzicava. In quelle situazioni, Cleo aveva sempre finto di arrabbiarsi ma le discussioni che ne nascevano erano tra i momenti che più le mancavano. L'accumulo di rabbia, la lite e poi lo sfogo sotto le lenzuola…
Soffocò un sorriso e scosse la testa. «Hai lasciato la piazza troppo presto, lo sai che hai degli orari da rispettare» disse, a mezza voce.
Stefano tornò a sedersi sul divano, sollevò i piedi e li poggiò sul tavolino. «Allora mandami gli sbirri la prossima volta» la schernì, facendo ripartire il documentario su Milano che stava guardando.
Cleo aprì la bocca per rispondere, ma si bloccò. A passi leggeri, lo raggiunse e si sistemò sul bracciolo su cui si era disteso il Professore. Allungò una mano, gli carezzò i capelli, scese fino alla guancia e, delicata, gli spostò il viso costringendolo a guardarla.
«Non siamo più due ragazzini che giocano a fare i grandi, protetti da Snake e dagli scagnozzi di tuo padre. Ora siamo noi ad avere delle responsabilità.» Cleo parlò d'un fiato, gli occhi fissi su quelli di lui, nella speranza di dimostrare quella fermezza che con gli altri le veniva spontanea.
Il Professore si voltò appena, premette le labbra sulla conca della mano di lei, tra il pollice e il polso, e le schioccò un bacio umido.
«Avremmo potuto dividerlo questo peso…» sussurrò.
Lo stomaco di Cleo si incendiò, gli occhi le si inondarono delle lacrime respinte troppe volte.
«Loro non l'avrebbero permesso…» Si ritrasse e incrociò le mani al petto, come per proteggersi.
Stefano si alzò, la raggiunse e la cinse in un abbraccio non ricambiato.
Lei respirò l'odore familiare di lui, il suo corpo ne percepì il calore e fremette. Sollevò il viso e i loro nasi si sfiorarono.
«Dovevo starti lontana, per proteggerti.»
«Allora hai fallito, perché io sono morto quel giorno…»
Il contatto tra le loro labbra cancellò il tempo, in un attimo tornarono indietro di un anno: C&S non si erano mai lasciati.

***

Snake, la maschera antigas in volto, scavalcò il cane, assopito sul pavimento. Aprì la porta della camera da letto e si avvicino ai due amanti, addormentati.
Cleopatra era sdraiata a pancia in giù sul Professore, il lenzuolo a coprirle le natiche.
Il sicario sollevò la pistola e infilò la canna del silenziatore nella bocca di lui, inclinandola leggermente verso sinistra, e premette il grilletto. La nuca del ragazzo esplose in mille frammenti.
Spostò l'arma e la puntò sul cranio di lei. Per fortuna i capelli le coprivano il volto: in quel momento era una delle tante.
Chiuse gli occhi e fece fuoco. Il cervello si spalmò sul petto del Professore, ma almeno non aveva sofferto. Il gas che aveva usato per addormentarli era stato un segno di riconoscenza nei confronti del suo precedente datore di lavoro.
Allargò il braccio di Stefano e lo fece penzolare oltre il materasso. Si chinò e adagiò la pistola usata in modo far ricadere la colpa su quell'amore impossibile.
Si rimise in piedi, prese il cellulare e fece partire una chiamata.
«Fatto?» chiese una voce con un forte accento calabrese dall'altra parte del telefono.
«Fatto» rispose Snake.
«Così ce lo insegniamo alle donne che devono stare in cucina!»
«Ci vediamo tra poco.» Chiuse la comunicazione e scosse la testa. Lavorava per quei porci da subito dopo la morte del padre di Cleopatra, ma non gli piacevano per nulla.
Allungò la mano e afferrò il pacchetto di sigarette sul comodino, ne sfilò una e la mise in bocca. Frugò in tasca, ma non trovò l'accendino. Fece un passo in avanti e calciò qualcosa, si chinò e, in penombra, riconobbe quello di Cleopatra.
Lo raccolse, sorrise e si accese la sigaretta.
«Salutami il papà» disse, uscendo dalla stanza.



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Wladimiro Borchi
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Re: La Signora della droga, di Francesco Nucera

Messaggio#2 » lunedì 26 novembre 2018, 9:33

Che dire, Francesco?
Bello come sempre.
Non c'è una parola di troppo, né un aggettivo in più.
I personaggi vengono fuori alla perfezione con tre pennellate a testa e la storia è lineare e ben costruita.
Snake diventa la trasposizione umana del serpente, nel viscido, del traditore e, seppur all'apparenza tirato, secondo me ti meriti il bonus relativo.
La scena di seduzione c'è, anche se lì avrei osato di più. Ma perché io sono un maialone!
Secondo me manca il bonus relativo a colui che compie un misfatto a scopi benefici (liberare il campo per i calabresi non mi pare azione meritevole).
Se l'ho bucato io, scusa e spiegamelo.
A rileggerci presto.
W
IMBUTO!!!

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ceranu
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Re: La Signora della droga, di Francesco Nucera

Messaggio#3 » lunedì 26 novembre 2018, 9:41

Ciao, grazie per i complimenti e per la lettura rapida :)
Secondo me manca il bonus relativo a colui che compie un misfatto a scopi benefici (liberare il campo per i calabresi non mi pare azione meritevole).

Colpa mia e della mia interpretazione di bene, male, nefandezza…
Qui siamo davanti a Cleo che lascia Stefano (cosa sbagliata) per fare il bene suo e delle famiglie (fine giusto). Però ci sta che sia tirato anche questo…
A presto. ;)

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Sonia Lippi
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Re: La Signora della droga, di Francesco Nucera

Messaggio#4 » mercoledì 28 novembre 2018, 14:30

ciao Francesco
Sai quanto mi piace leggerti, e anche questa volta il tuo racconto mi è piaciuto molto.
bello, triste e crudo come non saprò mai scriverne uno…(mi manca il coraggio e amo i finali positivi)
per me i bonus ci sono tutti e tre.
non riesco a trovare qualcosa da dirti per migliorarlo, personalmente lo ritengo già perfetto così.
a rileggerci
Sonia

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Paola B.
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Re: La Signora della droga, di Francesco Nucera

Messaggio#5 » sabato 1 dicembre 2018, 15:54

Ciao Ceranu,
Ho letto la storia più volte, perché ogni volta qualcosa di esterno o interno a me aveva la meglio e portava a distrarmi. Mi sono chiesta: come mai? Eppure è una lettura lineare, scorrevole. Poi ho capito. Premetto che qui subentrano i gusti personali del lettore.
Tu metti molta perizia nel descrivere i particolari, approfondisci, esponi punto per punto , a discapito però dello scorrere della vivacità della trama. Mi viene in mente il momento in cui Cleo si accende una sigaretta.

Poggiò i piedi nudi sulle piastrelle umide del terrazzino e si incamminò verso la ringhiera. Afferrò un pacchetto di sigarette, ne estrasse una, umettò le labbra con la lingua e ci poggiò il filtro arancione. Frugò nelle tasche dei pantaloni e cavò fuori un accendino d'argento con inciso “C&S”. Lo soppesò un paio di volte, serrò la presa e, col pollice, fece girare la rotella. Una fiammella si animò ma, con la stessa velocità con cui era comparsa, cedette a una folata di vento. Ripeté l'operazione, questa volta con la sinistra a formare una conca di protezione, aspirò, la sigaretta richiamò a sé il fuoco e il tabacco crepitò.
Quando staccò le labbra dal filtro un rivolo di fumo le salì dall'angolo della bocca su fino all'occhio, costringendola a socchiuderlo.


Io, qui al terzo rigo, ero già a pensare:”Cosa preparo stasera per cena?”.

Sinceramente mi aspettavo più azioni, tipo: quando Stefano dà da mangiare al cane è un altro momento piatto. Immaginavo Snake che lo sorprendeva in cucina, ti dirò: lo stavo aspettando, ora arriva, ora arriva…

Quando scrivi:

Nati in quel quartiere di periferia, lei da un padre egiziano e lui napoletano, avevano vissuto insieme l'ascesa delle due famiglie e sembrava che nulla avrebbe potuto separarli, ma poi era arrivato il fato, travestito da Stato liberale, che aveva imposto una gerarchia precisa, e da lì le responsabilità prima di suo padre e ora sue. Non sarebbero più potuti stare insieme, le altre famiglie non avrebbero permesso una fusione di zone e ancor meno l'avrebbero permesso i Calabresi che facevano da garanti per il governo.
Il volto appuntito, le orecchie larghe e i capelli neri gli conferivano un aspetto tutt'altro che rassicurante.
Quell'uomo era un viscido e gli procurava ribrezzo la sola presenza. Ma era stato un uomo fidato di suo padre, al tempo del proibizionismo, e non c'era nessuno più bravo di lui nel suo lavoro.


Qui, come mi hai fatto notare sul mio racconto, non c’è un problema della terza persona onnisciente? O un eccesso di tell?
Guarda non è una critica, io credo che ogni tanto ci voglia un approfondimento per far entrare meglio nella trama. (P.S. ripetizione di uomo).


Secondo me il personaggio di Snake avrebbe dovuto avere una risonanza maggiore, si poteva approfondire la sua psicologia. La rabbia provata perché sostituito dalla figlia del Boss. Sembra buttato lì per prendere il Bonus.
Il 1° punto è piuttosto stiracchiato: lasciarlo per non metterlo in pericolo è un’azione lodevole non spregevole.

Ciao alla prossima.

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ceranu
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Re: La Signora della droga, di Francesco Nucera

Messaggio#6 » sabato 1 dicembre 2018, 18:15

Ciao Paola, grazie per il commento.
Io, qui al terzo rigo, ero già a pensare:”Cosa preparo stasera per cena?”.

In effetti capita anche a me quando scrivo parti un po' prolisse. Normalmente sono più incisivo, ma in questo racconto avevo bisogno di un climax più introspettivo e ci sta che mi sia fatto prendere un po' la mano con il rischi di annoiare il lettore.
Qui, come mi hai fatto notare sul mio racconto, non c’è un problema della terza persona onnisciente? O un eccesso di tell?
Questo è il motivo per cui preferisco la "terza soggettiva" rispetto a quella "onnisciente": la libertà di esplorare il pensiero del singolo personaggio su cui ho puntato in quel paragrafo la "telecamera".
Poi ci sta, è tell tutto ciò che ti sembra forzato durante la lettura, che percepisci come una forzatura. Può essere Tell persino un dialogo.
Secondo me il personaggio di Snake avrebbe dovuto avere una risonanza maggiore, si poteva approfondire la sua psicologia. La rabbia provata perché sostituito dalla figlia del Boss. Sembra buttato lì per prendere il Bonus.

Snake non è arrabbiato, è semplicemente un sicario che ha cambiato datore di lavoro con la morte del padre di Cleo. Sicuramente è poco dettagliato, si muove sullo sfondo del racconto e rappresenta il potere dei soldi sui sentimenti.
Il 1° punto è piuttosto stiracchiato: lasciarlo per non metterlo in pericolo è un’azione lodevole non spregevole.

Qui posso risponderti come ho fatto con Wladimiro, il problema è la percezione del giusto e dello sbagliato. Per Stefano la scelta di Cleo era sbagliata, per lei era giusta. Quindi la tua obbiezione è più che lecita.
Ciao e alla prossima.

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