Vagar in Lontananza
Inviato: martedì 18 dicembre 2018, 0:15
Vagar in Lontananza
di corpo e di distanza.
Vagar con meditata
ragion di esser affranta.
Spesso il Capitano sussurrava al vento queste parole. Io ero l’unico a sentirlo. Mi acquattavo al buio al di sotto della prua, un’abitudine presa per stare lontano dai compagni che, giù a prora, giocavano a dadi. A volte, dalla poppa, arrivavano le melodie malinconiche dell’ocarina di Giannetto.
Quella sera c’era silenzio, gli schiamazzi si erano acquietati e io mi ero addormentato sotto un meraviglioso mare brulicante di stupendi pesci lanterna. Ci stavamo addentrando nelle langhe dell’ Orsa Maggiore per fare tappa a Mizar.
«Julio! Che fai ancora qui? Scendi in coperta che la brezza è nemica delle articolazioni»
Mi rialzai di istinto.
«Sì, Capitano. Scusi Capitano».
Mi voltai subito con gli occhi gonfi dal sonno e un brivido lungo la schiena.
«Fermo, fammi compagnia ancora un po’»
Non mi aspettavo queste parole dal capitano, io ero l’ultimo dei suoi uomini. In piena attività sarei stato dalla parte opposta di dove si trovava lui. Mi stupii che conoscesse il mio nome.
«Sento la tua presenza ogni volta che la nave si quieta. Per me è diventata una carezza velata dopo una giornata di estenuante vagare».
Sopra di noi una balena sbuffò acqua che risplendeva la luce delle stelle. Era sempre affascinante rimanere spettatori di quell’artificio. Poi come se fosse desiderosa di stupirci ancora un po’ emise il suo canto, che riecheggiò delicato nel silenzio dell’Infinito.
«Se mi è permesso Capitano, perché il nostro viaggio è interminabile? Sembra che non sopraggiunga mai a una meta».
Abbassai lo sguardo per timore di essermi spinto oltre al mio ruolo di mezza marinaio. La voce del capitano non ebbe disprezzo nel rispondermi, vi lessi una nota velata di malinconia.
«Meta».
Sospirò l’aria rarefatta dell’Infinito.
«Il giorno in cui arriveremo alla meta, sarà il giorno che decreterà la mia morte. Sogni che si sgretolano al mattino, rugiada che si asciuga alle prime luci dell’alba. Siamo effimeri. Viviamo in Lontananza perché non appena toccheremo terra svaniremo».
Ripensandoci non l’avevo mai visto scendere dalla sua nave.
Non ebbi più occasione di parlare con lui. Le sue parole mi toccarono dentro e capii che io non ero fatto per vivere su Lontananza. Scesi a Mizar e mi trovai un lavoro comune, una casa e più avanti mi costruii una famiglia. Con me ho sempre un cannocchiale, perché dopotutto il mare rimarrà una particella della mia essenza, e ogni volta che la stella Polare si affievolisce lo osservo. Il mio sguardo vaga tra le sue bellissime creature e poi cerco Lontananza, il veliero che mi ha reso parte dell’Infinito.
Paola Rossini
di corpo e di distanza.
Vagar con meditata
ragion di esser affranta.
Spesso il Capitano sussurrava al vento queste parole. Io ero l’unico a sentirlo. Mi acquattavo al buio al di sotto della prua, un’abitudine presa per stare lontano dai compagni che, giù a prora, giocavano a dadi. A volte, dalla poppa, arrivavano le melodie malinconiche dell’ocarina di Giannetto.
Quella sera c’era silenzio, gli schiamazzi si erano acquietati e io mi ero addormentato sotto un meraviglioso mare brulicante di stupendi pesci lanterna. Ci stavamo addentrando nelle langhe dell’ Orsa Maggiore per fare tappa a Mizar.
«Julio! Che fai ancora qui? Scendi in coperta che la brezza è nemica delle articolazioni»
Mi rialzai di istinto.
«Sì, Capitano. Scusi Capitano».
Mi voltai subito con gli occhi gonfi dal sonno e un brivido lungo la schiena.
«Fermo, fammi compagnia ancora un po’»
Non mi aspettavo queste parole dal capitano, io ero l’ultimo dei suoi uomini. In piena attività sarei stato dalla parte opposta di dove si trovava lui. Mi stupii che conoscesse il mio nome.
«Sento la tua presenza ogni volta che la nave si quieta. Per me è diventata una carezza velata dopo una giornata di estenuante vagare».
Sopra di noi una balena sbuffò acqua che risplendeva la luce delle stelle. Era sempre affascinante rimanere spettatori di quell’artificio. Poi come se fosse desiderosa di stupirci ancora un po’ emise il suo canto, che riecheggiò delicato nel silenzio dell’Infinito.
«Se mi è permesso Capitano, perché il nostro viaggio è interminabile? Sembra che non sopraggiunga mai a una meta».
Abbassai lo sguardo per timore di essermi spinto oltre al mio ruolo di mezza marinaio. La voce del capitano non ebbe disprezzo nel rispondermi, vi lessi una nota velata di malinconia.
«Meta».
Sospirò l’aria rarefatta dell’Infinito.
«Il giorno in cui arriveremo alla meta, sarà il giorno che decreterà la mia morte. Sogni che si sgretolano al mattino, rugiada che si asciuga alle prime luci dell’alba. Siamo effimeri. Viviamo in Lontananza perché non appena toccheremo terra svaniremo».
Ripensandoci non l’avevo mai visto scendere dalla sua nave.
Non ebbi più occasione di parlare con lui. Le sue parole mi toccarono dentro e capii che io non ero fatto per vivere su Lontananza. Scesi a Mizar e mi trovai un lavoro comune, una casa e più avanti mi costruii una famiglia. Con me ho sempre un cannocchiale, perché dopotutto il mare rimarrà una particella della mia essenza, e ogni volta che la stella Polare si affievolisce lo osservo. Il mio sguardo vaga tra le sue bellissime creature e poi cerco Lontananza, il veliero che mi ha reso parte dell’Infinito.
Paola Rossini