Storia di periferia
Inviato: martedì 22 gennaio 2019, 15:56
«Luna! Vieni tesoro andiamo!» Dissi accovacciandomi sulle ginocchia e aprendo le braccia.
Il cane, una pit bull marrone con focatura nera sul muso, mi raggiunse di corsa e si gettò fra le mie braccia leccandomi il viso.
Sorrisi.
Adoravo ricevere le sue attenzioni al rientro dall’università, prima di portarla al parco.
Le misi la pettorina, agganciai il moschettone e le presi il muso fra le mani grattandola dietro le orecchie.
Era una bella giornata di ottobre, tiepida e luminosa.
Mentre passeggiavo con il mio cane, pensavo che con il sole diventa bella anche una zona di periferia come la Rustica.
I cassonetti erano pieni di immondizia e il marciapiede sembrava un percorso di guerra, ma le persone sorridevano avvolte in quella luce particolare del primo pomeriggio.
Passai davanti al centro commerciale.
Con la coda dell’occhio vidi i soliti tre individui che chiacchieravano bevendo birra seduti sopra un muretto.
«Abbella, me lo vendi quer cane? l’hai fatto ammansì che pare ‘n agnellino, nelle mano mia si infoierebbe come un leone GRRRR!» e poi uno scoppio di risa.
«Sei monotono.» Risposi sbuffando e tirando dritta.
Ogni pomeriggio si ripeteva quel teatrino, ogni giorno sempre uguale.
Giunsi sullo stradone che porta al parco e Luna iniziò a tirare il guinzaglio, non vedeva l’ora di arrivare.
«Buona piccoletta! Oggi è venerdì e ci fermiamo a cena dalla nostra amica, sei contenta?»
Luna rallentò il passo e mi leccò la mano, sembrava aver capito.
Arrivate, la lasciai libera nell’area cani e mi sedetti su una panchina.
Mi guardai attorno cercando Tiziana.
«Strano, di solito è lei la prima ad arrivare.»
Luna fece qualche giro del parco di corsa, poi venne da me posandomi il muso fra le mani.
«Ti annoi tesoro? Vedrai che fra poco arriverà Tizy con i tuoi amici,» le dissi accarezzandola sulla testa e tirandole una pallina.
Controllai l’ora, erano le 15.30.
Tiziana aveva mezz’ora di ritardo, non era da lei.
Un misto di ansia e preoccupazione iniziarono a pervadermi, «mica sarà tornato quello stronzo a cercarla,» pensai sfilandomi il cellulare dalla tasca per inviarle un messaggio.
Poi in preda all’agitazione la chiamai.
Dopo quattro squilli partì la segreteria.
Sentii il battito cardiaco aumentare.
«Sta calma Vanessa, è successo altre volte che non ti rispondesse, vedrai che a breve ti richiama».
Tenni il cellulare in mano guardando fissa il display.
Mille pensieri si affacciarono alla mente.
Rividi le immagini del suo labbro spaccato e degli occhi gonfi, dei molteplici lividi che avevo curato con un unguento all’arnica, del suo sguardo sofferente e tristissimo, del suo contegno e della sua rassegnazione quando aprì la porta in quelle condizioni.
«Chi ti ha fatto questo?» Le chiesi inorridita.
«Gabriele, il mio ex,» mi rispose con un filo di voce facendomi entrare.
«Cazzo Tizy lo devi denunciare! Hai chiamato la polizia?» La mia voce tremava.
«Non posso, peggiorerei la situazione e poi non fregherebbe un cazzo a nessuno.» Disse sedendosi con una smorfia di dolore su una sedia della cucina.
«Perché dici così? A me frega eccome! Ti voglio bene, sei mia amica e ho voglia di fargliela pagare a quello stronzo».
Lei mi guardò con un misto di affetto e terrore, «sei proprio una colombella, ingenua e candida. Possibile che non ti sei accorta di nulla?»
Un suono di notifica mi riportò al presente, sperai che fosse un suo messaggio, aprii whatsapp ma rimasi delusa.
Provai di nuovo a chiamarla, ma dopo quattro squilli rispose ancora la segreteria, un brivido mi passò dietro la schiena.
presi Luna per la pettorina e le riagganciai il guinzaglio.
«Andiamo» le dissi, alzandomi di scatto dalla panchina.
Mentre attraversavo il parco per arrivare a casa di Tiziana cercavo di tranquillizzarmi.
«Sono pazza a pensare che le sia successo qualcosa, è una donna adulta che ne ha passate tante!» Ripetevo guardandomi attorno sperando di vederla arrivare.
Prima di sbucare di fronte al suo palazzo sentii in lontananza dei cani abbaiare e vidi tra gli alberi flash di luci blu.
Mi sentii avvampare e iniziai a correre.
Arrivata alla fine del parco, davanti il cancello del suo condominio, c’era un ambulanza e tre macchine dei carabinieri.
Guardai in alto; al primo piano c’era l’appartamento di Tiziana, i cani erano in balcone e sembravano impazziti, abbaiavano e giravano su se stessi.
«Cazzo» dissi fra i denti, le lacrime mi invasero gli occhi, offuscandomi la vista.
Luna iniziò ad agitarsi e ad abbaiare, mi sedetti sulla terra e l’ abbracciai.
«Calmati tesoro, calmati,» le dissi accarezzandola, «i tuoi amici sono sul terrazzo li vedi? Tutto apposto, stai tranquilla.»
Ma io non stavo tranquilla per niente, mi sciugai le lacrime e attraversai la strada dirigendomi verso i due carabinieri che stavano parlando alla radio.
«Salve, scusate se vi disturbo, posso sapere cosa è successo?» chiesi con voce tremante.
Mi guardarono entrambi con un espressione contrita.
«Lei abita nel palazzo?» mi chiese quello più anziano squadrandomi dalla testa ai piedi.
«No in verità ci abita una mia amica, sono preoccupata perché…»
«Signorina per cortesia se ne vada, se non è del palazzo non può entrare e non siamo tenuti a darle informazioni.”
«Capisco ma qui ci abita una mia carissima ami..»
«Signorina ci può abitare anche sua nonna, per cortesia si allontani, non c’è nulla da vedere. Se vuole può aspettare la sua amica laggiù, all’inizio del parco. Ora per favore si allontani, ci faccia lavorare in serenità.»
Non replicai, riattraversai la strada e mi sedetti per terra al limitare del parco.
Alzai la testa.
Tutte le finestre del palazzo erano chiuse, nessuno che faceva capolino per curiosare.
«Stronzi» pensai, «come arrivano i carabinieri vi cagate addosso. Avete la coscienza sporca eh? Bastardi.»
Davanti a me la scena non cambiava, i carabinieri parlavano costantemente alla radio, ma non riuscivo a capire cosa fosse successo.
Pensai al giorno che avevo conosciuto quella che poi era diventata la mia migliore amica, era stato proprio in quel parco.
Per giorni ci eravamo scrutate da lontano.
Vedevo la sua figura alta, slanciata ed elegante appoggiata sempre allo stesso albero, sempre con un fazzoletto legato al collo, oggi giallo, ieri rosso, domani blu, in tono con il suo abbigliamento.
I nostri cani giocavano assieme ma noi stavamo sempre a debita distanza.
Poi un giorno, mentre seduta per terra cercavo di leggere un libro, percepii un cambiamento del paesaggio e alzando gli occhi la osservai incantata mentre si avvicinava con passo lento, cadenzato, sensuale.
«Ciao sono Tiziana», disse con voce roca e bassa porgendomi la mano.
«Piacere Vanessa», risposi stringendole le dita e facendo leva per alzarmi da terra.
Ricordo che da vicino mi dette subito una sensazione di sicurezza.
«Che bella» pensai.
In realtà nulla nel suo viso era perfetto: era lungo, quasi mascolino, con una bocca fine e due meravigliosi occhi neri profondi come pozzi, i capelli color ebano erano mossi e lunghi, li portava sciolti e le conferivano al contempo un aria selvaggia ed elegante.
Da quel giorno diventammo inseparabili: io una ventitreenne universitaria, lei una quarantacinquenne commessa in un negozio di abbigliamento maschile.
Alzai nuovamente la testa verso il suo terrazzo, i cani sembravano più calmi.
«Forse sta parlando con i carabinieri» pensai, «magari gli sbirri sono qui per lo spacciatore del secondo piano e le stanno facendo qualche domanda, per questo non mi risponde!» stavo quasi per convincermi, quando vidi i barellieri dell’ambulanza scendere con in mano la valigetta del primo soccorso e la tuta sporca di sangue.
«Porco cazzo», imprecai, attraversando di corsa la strada.
«Per favore ditemi che cazzo sta succedendo! Temo per una mia amica che abita qui e che ha già subìto aggressioni,» gridai verso i carabinieri e i barellieri.
«Signorina stia tranquilla, nessuna donna è morta, la sua amica stà sicuramente bene, ora per favore si allontani, nessuno di noi è tenuto a darle spiegazioni, se ne vada.»
Stringendo i pugni e serrando le labbra me ne tornai al mio posto d’osservazione, non me ne sarei andata per nulla al mondo.
Le parole dei carabinieri mi rimbombavano in testa, «nessuna donna è morta, la sua amica stà sicuramente bene».
Lo speravo. Ma cosa volevano dire con quella frase? Che comunque qualcuno era morto?
Seduta a gambe incrociate, massacravo la carne ai lati dell’unghia del mio pollice destro.
Luna poggiò il muso sulla mia coscia sinistra e incominciai ad accarezzarla meccanicamente.
«Nessuna donna è morta, nessuna donna è morta, nessuna donna è morta» continuavo a ripetermi come un mantra.
Una colomba si posò per un attimo sul balcone di Tiziana strappandomi un sorriso.
«Sei una colombella, ingenua, candida e bella», cantilenava spesso quando voleva prendermi in giro e farmi capire che ero troppo "pulita" per quel quartiere.
Tornai con la mente al giorno in cui Gabriele l’aveva malmenata: la sua cucina con le pareti appena dipinte di giallo, i quadri di legno, i fiori finti dentro un grande vaso sul tavolo e lei seduta, sofferente, decisa a non voler denunciare l’aggressione.
«sei proprio una colombella, ingenua e candida. Possibile che non ti sei accorta di nulla?»
«Di cosa mi sarei dovuta accorgere? Che lui è uno stronzo? Non capisco perché ti continua a tormentare. Mi hai detto che ha un’altra donna no? Perché continua a cercare te?»
Un sorriso amaro le distese le labbra.
«Perché la donna che ha adesso non lo fa guadagnare quanto lo facevo guadagnare io.»
Sgranai gli occhi, «in che senso?»
«Non ti sei mai chiesta perché porto sempre un fazzoletto al collo? Perché cerco sempre di parlare con un tono basso? Non ti sei accorta che la mia voce è roca?»
La guardai con terrore, «cazzo Tizy, che hai fatto al collo? Ti hanno ferito? E chi è stato?»
La mia voce era concitata e preoccupata.
«Niente di tutto quello che pensi,» disse togliendosi il fazzoletto dal collo e scoprendo un pomo d’Adamo più sporgente del normale, «sono un uomo, mi chiamo Luigi e quando stavo con Gabriele mi prostituivo. Lui era il mio protettore.»
«Nessuna donna è morta, nessuna donna è morta, nessuna donna è morta,» continuai a cantilenare.
«Già, nessuna donna è morta. Ma Tiziana è un uomo.» Dissi ad alta voce.
Mi guardai attorno, un capannello di gente si era riunita sul ciglio della strada al limitare del parco, molti avevano cani a guinzaglio, alcuni li conoscevo.
Mi alzai in piedi e incrociai lo sguardo di Mara, una signora anziana amica di Tiziana che incontravamo al parco tutti i pomeriggi con il suo barboncino.
Mi sorrise mestamente e si avvicinò.
«Vanessa, so cosa stai pensando ma non ti preoccupare, sono sicura che non le è successo nulla. Qualche tempo fa mi confidò che Gabriele è partito per il Brasile. La sua nuova fiamma è di quelle parti, quindi credo che non sia ancora tornato.»
Mi passai una mano tra i capelli e con voce insicura domandai, «perché allora non risponde al telefono? Perché non si affaccia al terrazzo? Perché non mi manda un messaggio per dire che sta bene?»
Mara alzò le spalle e abbassò lo sguardo, poi aggiunse «ci sono i carabinieri, e nessuno si affaccia al terrazzo o alla finestra in questo quartiere, ognuno si fa i fatti propri. Appena vanno via vedrai che trambusto. Se ne parlerà per mesi.»
Poi si abbassò per fare una carezza a Luna che stava accanto a me senza fiatare ne muoversi, come se la tristezza e la preoccupazione avesse travolto anche lei.
«E se Gabriele fosse tornato? Se il Brasile non gli fosse piaciuto? Se la sua nuova fiamma lo avesse piantato? Mara, sai anche tu che vita d’inferno ha fatto Tiziana, sembra quasi che non riesca a scrollarsi di dosso il passato. Non sto tranquilla.»
Mara mi passò un braccio dietro la schiena e appoggiò la testa sulla mia spalla, «non sto tranquilla nemmeno io in verità,» disse stringendomi a sé.
Ci abbracciammo, poi la sentii sussultare, la guardai in faccia e vidi i suoi occhi riprendere vita.
«Ascoltami bene Vanessa, sai che dietro questo palazzo c’è un parcheggio. Conosci la macchina di Gabriele, va a controllare che non ci sia. Ti aspetto qui con le piccole.» Disse prendendomi il guinzaglio dalle mani.
Non me lo feci ripetere, attraversai la strada e costeggiai il muro fino ad arrivare al parcheggio sul retro.
Le auto non erano molte ma quelle poche posteggiate erano quasi tutte di colore grigio, come la macchina di Gabriele.
Sospirai, cercando con lo sguardo una punto; ne contai due.
Mi avvicinai alla prima, l’ansia mi attanagliava la gola e non mi faceva quasi respirare, ma mi accorsi subito che non poteva essere l'auto di quel bastardo.
Il cuore mi batteva all’impazzata mentre mi avviavo a controllare la seconda.
Quando mi accorsi che non corrispondeva a quella che cercavo esultai.
«Quello stronzo è sempre in Brasile per fortuna, o comunque non è qui!» sentii l’ansia allentare la morsa e ripresi a respirare.
Mi passai le mani sul viso, poi mi girai per tornare da Mara.
Mentre attraversavo il parcheggio mi sentivo sollevata, «sicuramente Tizy sta bene. Chissà quanto mi prenderà in giro per essermi preoccupata così tanto.»
Accennai un sorriso che pochi istanti dopo si trasformò in una smorfia.
Parcheggiata lungo il marciapiede, quasi nascosta tra i bidoni dell’immondizia, c’era un'altra punto grigia.
Ebbi un tuffo al cuore.
Mi avvicinai, pregando che non fosse la sua.
Sul lunotto posteriore spiccavano due adesivi a forma di scudetto.
Li lessi ad alta voce quasi a scongiurare ciò che già sapevo: «le religioni sono state inventate perché non esisteva ancora l’A.S.Roma.» e «Il cuore di Dio è giallorosso.»
Non contenta feci il giro della macchina e guardai dentro.
Sul cruscotto, un adesivo trasparente metteva in evidenza la scritta «Francesco Totti è il mio capitano».
Fui pervasa da una rabbia violenta e iniziai a bombardare l’auto di calci e pugni, «bastardo figlio di una merda, l’hai uccisa vero?» Urlavo mentre sfogavo il mio dolore sulla carrozzeria.
Poi mi accasciai addosso alla macchina singhiozzando, per un tempo incalcolabile.
Mentre piangevo, i ricordi più intimi della nostra amicizia si accalcavano facendomi pulsare le tempie.
Pensai a quando mi aveva confessato di essere stata violentata più volte dal marito della sua tata,
«avevo cinque anni e non capivo perché mi facesse quelle cose. Mi convinsi di essere una femmina, in fondo i maschi amano le femmine, e allora visto che quel bastardo era un maschio, io sicuramente ero una femmina».
Oppure quando mi raccontò di aver detto ai suoi genitori della violenza subita,
«non devi dire bugie Luigi, non si accusano le persone solo perché non ti piacciono. Non vogliamo più sentirti dire certe cose capito?»
O quando fu cacciato di casa,
«mio figlio è un frocio, un femminiello, un culattone. Mi vergogno ad essere tuo padre, vattene finocchio di merda.»
Pensai a quando mi spiegò di essere stata licenziata dal negozio di moda in cui lavorava perché aveva intrapreso il percorso per cambiare sesso, della sua difficoltà a trovare un lavoro, della felicità nell’accorgersi di essere amata da Gabriele e dalla delusione bruciante quando la spinse con la violenza a prostituirsi.
Pensai alla forza che aveva avuto nel cercare in ogni modo di cambiare vita, alla sua determinazione per trovare un nuovo lavoro e dei nuovi amici che accettassero la sua condizione.
Ricordai le mille volte che mi aveva consigliata, la sua saggezza, la sua maturità, a quello sprazzo di felicità che ogni tanto gli invadeva gli occhi quando passavamo le sere assieme a ridere come matte.
«Lo uccido! Giuro che lo uccido.» Urlai al cielo.
Mi asciugai rabbiosamente gli occhi e tornai verso il parco.
Mara mi vide e si coprì il viso con le mani.
Aveva capito.
Ci abbracciammo, «non la farà franca credimi!» Le sussurrai all’orecchio.
«Non fare cazzate» mi rispose di rimando.
In quel momento vedemmo arrivare la macchina della polizia mortuaria, mi sganciai dal suo abbraccio, «chissà dove la porteranno, chissà se informeranno i suoi familiari.»
«Certo che si, anche se l’hanno rinnegata è sempre una loro figlia, anzi il loro primogenito». Disse Mara soffiandosi il naso e asciugandosi le lacrime.
Vedemmo l’ambulanza allontanarsi e gli addetti della polizia mortuaria entrare dentro l’atrio del palazzo con una barella e un sacco arancione.
Vidi alcuni carabinieri salire sulle rispettive auto.
«Ora porteranno fuori quel bastardo» dissi a denti stretti, guardandomi attorno e raccogliendo una grossa pietra da terra.
Attraversai la strada.
Mi posizionai tra due macchine lampeggianti, cercando di non dare nell’occhio.
Il mio intento era quello di scagliare la pietra in testa a Gabriele sperando di fargli più male possibile, fregandomene delle conseguenze.
Dal portone spalancato vidi scendere dalle scale tre persone.
Soppesai il sasso con la mano destra, cercando di trasferire in quell’oggetto tutto il mio odio.
Appena varcarono il portone, portai il braccio dietro la testa, pronta a lanciare il mio rudimentale proiettile.
Il cuore mi martellava in petto, avevo le labbra serrate e una gran voglia di urlare.
Presi la mira e trattenni il fiato e mentre stavo per dare sfogo alla mia rabbia, il braccio si paralizzò e ricadde lungo il corpo.
In mezzo alle forze dell’ordine c’era Tiziana, con gli occhi pesti, la bocca spaccata e un braccio fasciato sporco di sangue, legato attorno al collo.
Mi vide e il suo viso si rasserenò, o almeno così mi parve visto la maschera informe che era diventato.
Disse qualcosa ai carabinieri che annuirono.
L’accompagnarono verso di me che la guardavo incredula, come se fosse un fantasma.
«Lui è morto.» Parlava lenta con un filo di voce, tremava e io con lei.
«Non hanno dubbi che sia stata legittima difesa» sussurrò indicando la sua faccia «visto come mi ha ridotto!…Stai tranquilla torno presto. Forse anche domani, ma fino ad allora puoi occuparti dei miei cani?»
Sonia Lippi
Il cane, una pit bull marrone con focatura nera sul muso, mi raggiunse di corsa e si gettò fra le mie braccia leccandomi il viso.
Sorrisi.
Adoravo ricevere le sue attenzioni al rientro dall’università, prima di portarla al parco.
Le misi la pettorina, agganciai il moschettone e le presi il muso fra le mani grattandola dietro le orecchie.
Era una bella giornata di ottobre, tiepida e luminosa.
Mentre passeggiavo con il mio cane, pensavo che con il sole diventa bella anche una zona di periferia come la Rustica.
I cassonetti erano pieni di immondizia e il marciapiede sembrava un percorso di guerra, ma le persone sorridevano avvolte in quella luce particolare del primo pomeriggio.
Passai davanti al centro commerciale.
Con la coda dell’occhio vidi i soliti tre individui che chiacchieravano bevendo birra seduti sopra un muretto.
«Abbella, me lo vendi quer cane? l’hai fatto ammansì che pare ‘n agnellino, nelle mano mia si infoierebbe come un leone GRRRR!» e poi uno scoppio di risa.
«Sei monotono.» Risposi sbuffando e tirando dritta.
Ogni pomeriggio si ripeteva quel teatrino, ogni giorno sempre uguale.
Giunsi sullo stradone che porta al parco e Luna iniziò a tirare il guinzaglio, non vedeva l’ora di arrivare.
«Buona piccoletta! Oggi è venerdì e ci fermiamo a cena dalla nostra amica, sei contenta?»
Luna rallentò il passo e mi leccò la mano, sembrava aver capito.
Arrivate, la lasciai libera nell’area cani e mi sedetti su una panchina.
Mi guardai attorno cercando Tiziana.
«Strano, di solito è lei la prima ad arrivare.»
Luna fece qualche giro del parco di corsa, poi venne da me posandomi il muso fra le mani.
«Ti annoi tesoro? Vedrai che fra poco arriverà Tizy con i tuoi amici,» le dissi accarezzandola sulla testa e tirandole una pallina.
Controllai l’ora, erano le 15.30.
Tiziana aveva mezz’ora di ritardo, non era da lei.
Un misto di ansia e preoccupazione iniziarono a pervadermi, «mica sarà tornato quello stronzo a cercarla,» pensai sfilandomi il cellulare dalla tasca per inviarle un messaggio.
Poi in preda all’agitazione la chiamai.
Dopo quattro squilli partì la segreteria.
Sentii il battito cardiaco aumentare.
«Sta calma Vanessa, è successo altre volte che non ti rispondesse, vedrai che a breve ti richiama».
Tenni il cellulare in mano guardando fissa il display.
Mille pensieri si affacciarono alla mente.
Rividi le immagini del suo labbro spaccato e degli occhi gonfi, dei molteplici lividi che avevo curato con un unguento all’arnica, del suo sguardo sofferente e tristissimo, del suo contegno e della sua rassegnazione quando aprì la porta in quelle condizioni.
«Chi ti ha fatto questo?» Le chiesi inorridita.
«Gabriele, il mio ex,» mi rispose con un filo di voce facendomi entrare.
«Cazzo Tizy lo devi denunciare! Hai chiamato la polizia?» La mia voce tremava.
«Non posso, peggiorerei la situazione e poi non fregherebbe un cazzo a nessuno.» Disse sedendosi con una smorfia di dolore su una sedia della cucina.
«Perché dici così? A me frega eccome! Ti voglio bene, sei mia amica e ho voglia di fargliela pagare a quello stronzo».
Lei mi guardò con un misto di affetto e terrore, «sei proprio una colombella, ingenua e candida. Possibile che non ti sei accorta di nulla?»
Un suono di notifica mi riportò al presente, sperai che fosse un suo messaggio, aprii whatsapp ma rimasi delusa.
Provai di nuovo a chiamarla, ma dopo quattro squilli rispose ancora la segreteria, un brivido mi passò dietro la schiena.
presi Luna per la pettorina e le riagganciai il guinzaglio.
«Andiamo» le dissi, alzandomi di scatto dalla panchina.
Mentre attraversavo il parco per arrivare a casa di Tiziana cercavo di tranquillizzarmi.
«Sono pazza a pensare che le sia successo qualcosa, è una donna adulta che ne ha passate tante!» Ripetevo guardandomi attorno sperando di vederla arrivare.
Prima di sbucare di fronte al suo palazzo sentii in lontananza dei cani abbaiare e vidi tra gli alberi flash di luci blu.
Mi sentii avvampare e iniziai a correre.
Arrivata alla fine del parco, davanti il cancello del suo condominio, c’era un ambulanza e tre macchine dei carabinieri.
Guardai in alto; al primo piano c’era l’appartamento di Tiziana, i cani erano in balcone e sembravano impazziti, abbaiavano e giravano su se stessi.
«Cazzo» dissi fra i denti, le lacrime mi invasero gli occhi, offuscandomi la vista.
Luna iniziò ad agitarsi e ad abbaiare, mi sedetti sulla terra e l’ abbracciai.
«Calmati tesoro, calmati,» le dissi accarezzandola, «i tuoi amici sono sul terrazzo li vedi? Tutto apposto, stai tranquilla.»
Ma io non stavo tranquilla per niente, mi sciugai le lacrime e attraversai la strada dirigendomi verso i due carabinieri che stavano parlando alla radio.
«Salve, scusate se vi disturbo, posso sapere cosa è successo?» chiesi con voce tremante.
Mi guardarono entrambi con un espressione contrita.
«Lei abita nel palazzo?» mi chiese quello più anziano squadrandomi dalla testa ai piedi.
«No in verità ci abita una mia amica, sono preoccupata perché…»
«Signorina per cortesia se ne vada, se non è del palazzo non può entrare e non siamo tenuti a darle informazioni.”
«Capisco ma qui ci abita una mia carissima ami..»
«Signorina ci può abitare anche sua nonna, per cortesia si allontani, non c’è nulla da vedere. Se vuole può aspettare la sua amica laggiù, all’inizio del parco. Ora per favore si allontani, ci faccia lavorare in serenità.»
Non replicai, riattraversai la strada e mi sedetti per terra al limitare del parco.
Alzai la testa.
Tutte le finestre del palazzo erano chiuse, nessuno che faceva capolino per curiosare.
«Stronzi» pensai, «come arrivano i carabinieri vi cagate addosso. Avete la coscienza sporca eh? Bastardi.»
Davanti a me la scena non cambiava, i carabinieri parlavano costantemente alla radio, ma non riuscivo a capire cosa fosse successo.
Pensai al giorno che avevo conosciuto quella che poi era diventata la mia migliore amica, era stato proprio in quel parco.
Per giorni ci eravamo scrutate da lontano.
Vedevo la sua figura alta, slanciata ed elegante appoggiata sempre allo stesso albero, sempre con un fazzoletto legato al collo, oggi giallo, ieri rosso, domani blu, in tono con il suo abbigliamento.
I nostri cani giocavano assieme ma noi stavamo sempre a debita distanza.
Poi un giorno, mentre seduta per terra cercavo di leggere un libro, percepii un cambiamento del paesaggio e alzando gli occhi la osservai incantata mentre si avvicinava con passo lento, cadenzato, sensuale.
«Ciao sono Tiziana», disse con voce roca e bassa porgendomi la mano.
«Piacere Vanessa», risposi stringendole le dita e facendo leva per alzarmi da terra.
Ricordo che da vicino mi dette subito una sensazione di sicurezza.
«Che bella» pensai.
In realtà nulla nel suo viso era perfetto: era lungo, quasi mascolino, con una bocca fine e due meravigliosi occhi neri profondi come pozzi, i capelli color ebano erano mossi e lunghi, li portava sciolti e le conferivano al contempo un aria selvaggia ed elegante.
Da quel giorno diventammo inseparabili: io una ventitreenne universitaria, lei una quarantacinquenne commessa in un negozio di abbigliamento maschile.
Alzai nuovamente la testa verso il suo terrazzo, i cani sembravano più calmi.
«Forse sta parlando con i carabinieri» pensai, «magari gli sbirri sono qui per lo spacciatore del secondo piano e le stanno facendo qualche domanda, per questo non mi risponde!» stavo quasi per convincermi, quando vidi i barellieri dell’ambulanza scendere con in mano la valigetta del primo soccorso e la tuta sporca di sangue.
«Porco cazzo», imprecai, attraversando di corsa la strada.
«Per favore ditemi che cazzo sta succedendo! Temo per una mia amica che abita qui e che ha già subìto aggressioni,» gridai verso i carabinieri e i barellieri.
«Signorina stia tranquilla, nessuna donna è morta, la sua amica stà sicuramente bene, ora per favore si allontani, nessuno di noi è tenuto a darle spiegazioni, se ne vada.»
Stringendo i pugni e serrando le labbra me ne tornai al mio posto d’osservazione, non me ne sarei andata per nulla al mondo.
Le parole dei carabinieri mi rimbombavano in testa, «nessuna donna è morta, la sua amica stà sicuramente bene».
Lo speravo. Ma cosa volevano dire con quella frase? Che comunque qualcuno era morto?
Seduta a gambe incrociate, massacravo la carne ai lati dell’unghia del mio pollice destro.
Luna poggiò il muso sulla mia coscia sinistra e incominciai ad accarezzarla meccanicamente.
«Nessuna donna è morta, nessuna donna è morta, nessuna donna è morta» continuavo a ripetermi come un mantra.
Una colomba si posò per un attimo sul balcone di Tiziana strappandomi un sorriso.
«Sei una colombella, ingenua, candida e bella», cantilenava spesso quando voleva prendermi in giro e farmi capire che ero troppo "pulita" per quel quartiere.
Tornai con la mente al giorno in cui Gabriele l’aveva malmenata: la sua cucina con le pareti appena dipinte di giallo, i quadri di legno, i fiori finti dentro un grande vaso sul tavolo e lei seduta, sofferente, decisa a non voler denunciare l’aggressione.
«sei proprio una colombella, ingenua e candida. Possibile che non ti sei accorta di nulla?»
«Di cosa mi sarei dovuta accorgere? Che lui è uno stronzo? Non capisco perché ti continua a tormentare. Mi hai detto che ha un’altra donna no? Perché continua a cercare te?»
Un sorriso amaro le distese le labbra.
«Perché la donna che ha adesso non lo fa guadagnare quanto lo facevo guadagnare io.»
Sgranai gli occhi, «in che senso?»
«Non ti sei mai chiesta perché porto sempre un fazzoletto al collo? Perché cerco sempre di parlare con un tono basso? Non ti sei accorta che la mia voce è roca?»
La guardai con terrore, «cazzo Tizy, che hai fatto al collo? Ti hanno ferito? E chi è stato?»
La mia voce era concitata e preoccupata.
«Niente di tutto quello che pensi,» disse togliendosi il fazzoletto dal collo e scoprendo un pomo d’Adamo più sporgente del normale, «sono un uomo, mi chiamo Luigi e quando stavo con Gabriele mi prostituivo. Lui era il mio protettore.»
«Nessuna donna è morta, nessuna donna è morta, nessuna donna è morta,» continuai a cantilenare.
«Già, nessuna donna è morta. Ma Tiziana è un uomo.» Dissi ad alta voce.
Mi guardai attorno, un capannello di gente si era riunita sul ciglio della strada al limitare del parco, molti avevano cani a guinzaglio, alcuni li conoscevo.
Mi alzai in piedi e incrociai lo sguardo di Mara, una signora anziana amica di Tiziana che incontravamo al parco tutti i pomeriggi con il suo barboncino.
Mi sorrise mestamente e si avvicinò.
«Vanessa, so cosa stai pensando ma non ti preoccupare, sono sicura che non le è successo nulla. Qualche tempo fa mi confidò che Gabriele è partito per il Brasile. La sua nuova fiamma è di quelle parti, quindi credo che non sia ancora tornato.»
Mi passai una mano tra i capelli e con voce insicura domandai, «perché allora non risponde al telefono? Perché non si affaccia al terrazzo? Perché non mi manda un messaggio per dire che sta bene?»
Mara alzò le spalle e abbassò lo sguardo, poi aggiunse «ci sono i carabinieri, e nessuno si affaccia al terrazzo o alla finestra in questo quartiere, ognuno si fa i fatti propri. Appena vanno via vedrai che trambusto. Se ne parlerà per mesi.»
Poi si abbassò per fare una carezza a Luna che stava accanto a me senza fiatare ne muoversi, come se la tristezza e la preoccupazione avesse travolto anche lei.
«E se Gabriele fosse tornato? Se il Brasile non gli fosse piaciuto? Se la sua nuova fiamma lo avesse piantato? Mara, sai anche tu che vita d’inferno ha fatto Tiziana, sembra quasi che non riesca a scrollarsi di dosso il passato. Non sto tranquilla.»
Mara mi passò un braccio dietro la schiena e appoggiò la testa sulla mia spalla, «non sto tranquilla nemmeno io in verità,» disse stringendomi a sé.
Ci abbracciammo, poi la sentii sussultare, la guardai in faccia e vidi i suoi occhi riprendere vita.
«Ascoltami bene Vanessa, sai che dietro questo palazzo c’è un parcheggio. Conosci la macchina di Gabriele, va a controllare che non ci sia. Ti aspetto qui con le piccole.» Disse prendendomi il guinzaglio dalle mani.
Non me lo feci ripetere, attraversai la strada e costeggiai il muro fino ad arrivare al parcheggio sul retro.
Le auto non erano molte ma quelle poche posteggiate erano quasi tutte di colore grigio, come la macchina di Gabriele.
Sospirai, cercando con lo sguardo una punto; ne contai due.
Mi avvicinai alla prima, l’ansia mi attanagliava la gola e non mi faceva quasi respirare, ma mi accorsi subito che non poteva essere l'auto di quel bastardo.
Il cuore mi batteva all’impazzata mentre mi avviavo a controllare la seconda.
Quando mi accorsi che non corrispondeva a quella che cercavo esultai.
«Quello stronzo è sempre in Brasile per fortuna, o comunque non è qui!» sentii l’ansia allentare la morsa e ripresi a respirare.
Mi passai le mani sul viso, poi mi girai per tornare da Mara.
Mentre attraversavo il parcheggio mi sentivo sollevata, «sicuramente Tizy sta bene. Chissà quanto mi prenderà in giro per essermi preoccupata così tanto.»
Accennai un sorriso che pochi istanti dopo si trasformò in una smorfia.
Parcheggiata lungo il marciapiede, quasi nascosta tra i bidoni dell’immondizia, c’era un'altra punto grigia.
Ebbi un tuffo al cuore.
Mi avvicinai, pregando che non fosse la sua.
Sul lunotto posteriore spiccavano due adesivi a forma di scudetto.
Li lessi ad alta voce quasi a scongiurare ciò che già sapevo: «le religioni sono state inventate perché non esisteva ancora l’A.S.Roma.» e «Il cuore di Dio è giallorosso.»
Non contenta feci il giro della macchina e guardai dentro.
Sul cruscotto, un adesivo trasparente metteva in evidenza la scritta «Francesco Totti è il mio capitano».
Fui pervasa da una rabbia violenta e iniziai a bombardare l’auto di calci e pugni, «bastardo figlio di una merda, l’hai uccisa vero?» Urlavo mentre sfogavo il mio dolore sulla carrozzeria.
Poi mi accasciai addosso alla macchina singhiozzando, per un tempo incalcolabile.
Mentre piangevo, i ricordi più intimi della nostra amicizia si accalcavano facendomi pulsare le tempie.
Pensai a quando mi aveva confessato di essere stata violentata più volte dal marito della sua tata,
«avevo cinque anni e non capivo perché mi facesse quelle cose. Mi convinsi di essere una femmina, in fondo i maschi amano le femmine, e allora visto che quel bastardo era un maschio, io sicuramente ero una femmina».
Oppure quando mi raccontò di aver detto ai suoi genitori della violenza subita,
«non devi dire bugie Luigi, non si accusano le persone solo perché non ti piacciono. Non vogliamo più sentirti dire certe cose capito?»
O quando fu cacciato di casa,
«mio figlio è un frocio, un femminiello, un culattone. Mi vergogno ad essere tuo padre, vattene finocchio di merda.»
Pensai a quando mi spiegò di essere stata licenziata dal negozio di moda in cui lavorava perché aveva intrapreso il percorso per cambiare sesso, della sua difficoltà a trovare un lavoro, della felicità nell’accorgersi di essere amata da Gabriele e dalla delusione bruciante quando la spinse con la violenza a prostituirsi.
Pensai alla forza che aveva avuto nel cercare in ogni modo di cambiare vita, alla sua determinazione per trovare un nuovo lavoro e dei nuovi amici che accettassero la sua condizione.
Ricordai le mille volte che mi aveva consigliata, la sua saggezza, la sua maturità, a quello sprazzo di felicità che ogni tanto gli invadeva gli occhi quando passavamo le sere assieme a ridere come matte.
«Lo uccido! Giuro che lo uccido.» Urlai al cielo.
Mi asciugai rabbiosamente gli occhi e tornai verso il parco.
Mara mi vide e si coprì il viso con le mani.
Aveva capito.
Ci abbracciammo, «non la farà franca credimi!» Le sussurrai all’orecchio.
«Non fare cazzate» mi rispose di rimando.
In quel momento vedemmo arrivare la macchina della polizia mortuaria, mi sganciai dal suo abbraccio, «chissà dove la porteranno, chissà se informeranno i suoi familiari.»
«Certo che si, anche se l’hanno rinnegata è sempre una loro figlia, anzi il loro primogenito». Disse Mara soffiandosi il naso e asciugandosi le lacrime.
Vedemmo l’ambulanza allontanarsi e gli addetti della polizia mortuaria entrare dentro l’atrio del palazzo con una barella e un sacco arancione.
Vidi alcuni carabinieri salire sulle rispettive auto.
«Ora porteranno fuori quel bastardo» dissi a denti stretti, guardandomi attorno e raccogliendo una grossa pietra da terra.
Attraversai la strada.
Mi posizionai tra due macchine lampeggianti, cercando di non dare nell’occhio.
Il mio intento era quello di scagliare la pietra in testa a Gabriele sperando di fargli più male possibile, fregandomene delle conseguenze.
Dal portone spalancato vidi scendere dalle scale tre persone.
Soppesai il sasso con la mano destra, cercando di trasferire in quell’oggetto tutto il mio odio.
Appena varcarono il portone, portai il braccio dietro la testa, pronta a lanciare il mio rudimentale proiettile.
Il cuore mi martellava in petto, avevo le labbra serrate e una gran voglia di urlare.
Presi la mira e trattenni il fiato e mentre stavo per dare sfogo alla mia rabbia, il braccio si paralizzò e ricadde lungo il corpo.
In mezzo alle forze dell’ordine c’era Tiziana, con gli occhi pesti, la bocca spaccata e un braccio fasciato sporco di sangue, legato attorno al collo.
Mi vide e il suo viso si rasserenò, o almeno così mi parve visto la maschera informe che era diventato.
Disse qualcosa ai carabinieri che annuirono.
L’accompagnarono verso di me che la guardavo incredula, come se fosse un fantasma.
«Lui è morto.» Parlava lenta con un filo di voce, tremava e io con lei.
«Non hanno dubbi che sia stata legittima difesa» sussurrò indicando la sua faccia «visto come mi ha ridotto!…Stai tranquilla torno presto. Forse anche domani, ma fino ad allora puoi occuparti dei miei cani?»
Sonia Lippi