DORA
Inviato: domenica 27 gennaio 2019, 19:14
DORA
Di Eugene Fitzherbert
1.
«Teha, sei sicura di quello che fai? Sei mancata per un intero pomeriggio e ora torni con quest’idea.» Giorgio non nascondeva l’espressione preoccupata che gli oscurava il viso.
Teha rispose convinta: «Devo andare, G. Devo aiutare la bambina.»
«Questa bambina, Dora, chi è? Non l’abbiamo neanche vista.»
«Sta sempre nascosta. L’ho incontrata ieri mentre fuggiva da un palazzo diroccato. Era mezza nuda e aveva i marchi, Giorgio, sulla schiena, sulle spalle, sulla pancia. Sai cosa significa.» Involontariamente Teha rabbrividì, portandosi una mano alla spalla, tastando gli innesti metallici da Schiava del Dolore che aveva. Anche per lei era iniziato con i tatuaggi, l’intervento di installazione e poi l’inferno.
«Se vuoi che questa ragazzina non faccia la tua stessa vita, non è meglio rimanere qui con noi? Come abbiamo accolto te, qualche giorno fa, può rimanere anche lei.» Lui a Trinitapoli aiutava tutti i disperati vittime di un mondo marcio e moribondo, di cui erano rimaste solo macerie fumanti.
«No, Giorgio. Dora continua a ripetere: Zio Dario e Via delle Croci. È lì che vuole tornare. E io devo portarla. Sento che è la cosa più giusta da fare.»
« Mi pare così strano. Sei appena arrivata, fuggita dalla tua vita dolorosa e ora… questo. Non mi piace.»
«So che devo farlo. Da quando ho visto il visino di Dora, i suoi occhi ormai spenti, i marchi sulla pelle. Non potevo lasciarla stare lì. È talmente traumatizzata che riesce a ripetere solo quelle parole…»
«Sì, Zio Dario e Via delle Croci. E tu vorresti arrivare a Via delle Croci. Lo sai che è pericoloso, no?»
«Lo so. E tu conosci la strada, vero?»
Giorgio rimase un po’ in silenzio, poi, rassegnato aggiunse: «Alla fine qui non sei prigioniera.»
2.
Per un giorno e mezzo avevano percorso un bel po’ di strada senza avere intoppi. Erano arrivati nel punto più critico e su quello Giorgio era stato chiarissimo: «State alla larga dalla città dei Mutanti del Cemento. Allungate verso nord e girate intorno alla discarica.»
«E come riconosciamo la città?»
«Il nome è Foggia. Dopo quella, c’è un’area semidesertica, con i resti di un paese disabitato, Lucera, mi pare, o Nucera. Da lì superate il confine, sarete alla Via delle Croci, in Molise.» Teha ricordava che le aveva guardata come due condannate a morte. «Il Molise non esiste, è solo un’invenzione geografica. Quella è terra di nessuno. Se sei lì, è come se non fossi da nessuna parte. Non c’è nessuna regola, nessuno che ti possa sentire, o che possa venire in tuo aiuto. È quello che vuoi?»
Lei non aveva risposto.
Quel pomeriggio avevano superato la Discarica e avevano visto le indicazioni per Foggia. «Ora dobbiamo stare nascoste. Allungheremo un po’, ma non preoccuparti ti porterò da Zio Dario.»
Dora, con lo sguardo apatico, aveva mormorato: «Zio Dario. Via delle Croci.»
A sera, avevano deciso di accamparsi, per trovare riparo dalle esalazioni che arrivavano dalla Discarica. Durante tutto il tragitto, Teha aveva studiato Dora, sperando di carpire quello che la ragazzina di dodici anni poteva aver passato per essersi ridotta in quelle condizioni. Sapeva che era facile finire vittima delle barbarie in quella Puglia devastata. Dora era distrutta: non parlava se non per ripetere sempre quelle parole, e la luce nei suoi occhi era quasi inesistente, come avesse già deciso di essere morta.
Teha sperava con tutto il cuore che riportarla da suo Zio Dario l’aiutasse in qualche modo. Ma soprattutto sentiva che fare quella traversata avrebbe aiutato lei. Non si sentiva così determinata da quando aveva deciso di scappare da Léon, per non essere più una Schiava del Dolore.
«Dora, siamo a buon punto. Non sei contenta?»
«Zio Dario.»
«Sì, certo. Stiamo andando da lui. Domattina ho bisogno del tuo aiuto per procurarci dell’acqua. Te la senti?»
«Via delle Croci, Zio Dario.»
Teha era un po’ esasperata. «Va bene. Sì. Domani però dobbiamo controllare un pozzo qua vicino. Io mi avvicino e tu fai la guardia. ok?»
«Zio Dario. Zio! Dario!»
Forse Teha stava riponendo troppa fiducia nella ragazzina, ma avevano bisogno dell’acqua anche se voleva dire uscire allo scoperto. Probabilmente stava scommettendo la sua vita su una bambina traumatizzata.
«Via delle Croci!» esclamò Dora, come se avesse capito che stava pensando a lei. Poi si accasciò su un fianco e si mise a dormire.
Teha si avvicinò alla ragazzina e le accarezzò una ciocca di capelli. Ogni volta che la toccava aveva una spiacevole sensazione, ma era qualcosa di passeggero. Anche adesso, la ciocca sembrò quasi fuori fuoco, irreale e poi prese la normale consistenza dei capelli.
«Povera Dora. Quei segni che ti ritrovi sulla pelle, io li conosco benissimo. Sono il preludio all’inferno. Anche io ho iniziato così: dopo pochi giorni dai Marchi, sono arrivati i chirurghi e mi hanno installato questi innesti.» E scrollò le spalle per verificare che fossero tutti al loro posto. «Un sistema di produzione di droga: mi hanno trasformato in una fabbrica di endomorfina, derivata dall’endorfina.»
I suoi ricordi tornarono a qualche tempo prima, a prima che fuggisse, quando la stavano addestrando a fare quello per cui l’avevano creata: c’era un uomo, si chiamava Léon, crudele e spietato che aveva messo le cose in chiaro, un’espressione che significava che prima l’aveva picchiata, poi l’aveva violentata e poi le aveva parlato. Era sempre così, quando metteva le cose in chiaro. «Ora che ho la tua attenzione, puttana, ti dico quello che devi fare. È semplicissimo.» E la colpì ancora al volto.
Lei singhiozzò, coprendosi il volto con le mani, mentre il sistema di tubi sottopelle si attivava con un ronzio sinistro. Dopo pochi secondi, sentì in mezzo alle gambe una sensazione di umido.
«Brava!» esultò Léon. E le diede un altro schiaffo.
Il liquido aumentò.
«Vedi? Questo è quello che devi fare. Farti picchiare, tutte le volte che un cliente lo vuole, senza mai tirarti indietro. Perché ogni volta che qualcuno ti procura dolore…» altro schiaffo. «Tu sbrodoli. E quella è droga, tesoro mio, la migliore endomorfina che corpo umano possa produrre. Il sistema che hai dentro è all’avanguardia, il top.»
Teha continuava a singhiozzare, tenendosi la mano sul volto, seduta nuda in un lago di umori.
«Oh, beh, non è finita qui, ovviamente. Sei pur sempre una puttana, quindi dopo, ti scoperanno. Così va la vita, no?» Léon rise. «E così ora sei titolare, Teha. Vedi di non deludere il tuo allenatore!» E continuò a ridere.
Ecco da cosa era fuggita, Teha, non poteva lasciare Dora in balia di questo destino. Doveva portarla da Zio Dario, a Via delle Croci, fosse l’ultima cosa che faceva.
3.
La mattina successiva, arrivarono al pozzo, vicino a una catapecchia.
«Tu sta qui, vado a vedere.»
Teha si mosse veloce. La casupola di lamiere era ingombra di spazzatura, un materasso coperto di macchie scure e i resti di un fuoco. Chiunque aveva vissuto lì, sembrava essere andato via da tempo.
Tirò un sospiro di sollievo e si diresse verso il pozzo. Sul fondo vide baluginare dell’acqua. Si voltò verso Dora per richiamare la sua attenzione. Lei era lì immobile dove l’aveva lasciata, a fissare un punto perso in lontananza. Teha agitò una mano, e in quel momento da dietro una roccia emerse un uomo dalla pelle grigia, deformata da croste chitinose. Gli occhi erano delle pietre infiammate e guizzanti e sembrava annusare l’aria per saggiarne la consistenza. La mano destra era solo un moncherino scheggiato, le dita sgretolate come pietre farinose.
Un Mutante del Cemento.
Il mostro ruggì, un suono secco e pastoso come il passaggio di rocce dentro una clessidra d’osso. In due balzi fu su Teha e la scaraventò al suolo, immobilizzandola.
Teha cominciò a ruotare la testa a destra a sinistra per cercare Dora, per chiederle aiuto, per sapere se poteva contare su di lei, o per farla fuggire.
Il mostro le teneva la braccia ferme sotto le ginocchia e quando le aprì il poncho emise un grugnito di vittoria: «FEMMINA!» urlò trionfante. La scoprì del tutto.
Il passato, che Teha sperava di essersi lasciato indietro, la raggiunse con la potenza di un treno in corsa. Oh dio, no, non con questo coso!
«DORA!» urlò con quanto fiato aveva in gola. La vide a pochi passi da lei, immobile, in piedi, la solita espressione stolida sul volto.
Infastidito dalle sue urla, il mostro le sferrò un ceffone in faccia, spaccandole il labbro.
Il dolore esplose come un vecchio amico e il sistema di innesti che aveva sulla schiena si mise al lavoro, sintetizzando l'endomorfina. Teha si sentì inondare le sue parti basse, una sensazione appiccicosa e disgustosa. «No, no!» disse, mentre su di lei quell'essere era pronto a finire il lavoro. Le stava divaricando le gambe a forza, con la mano integra nodosa e tagliente per le croste di cemento. «Dora, per l’amor di dio, aiutami!» Ma la ragazza rimase ferma, senza neanche sbattere gli occhi.
Il mutante la penetrò, e Teha strinse gli occhi, spremendo fuori le lacrime amare che stava versando, ingoiando il sangue che le colava dal labbro ferito. Il dolore continuava a farle produrre droga. Si accorse che il mostro ne era particolarmente sensibile: stava ansimando, gli occhi rivolti al cielo, in estasi. Ebbe un’idea.
Strinse i denti, furiosa, e incastrò il mignolo nel terreno. Spinse con il braccio per quanto le permetteva la morsa con cui era bloccata a terra.
Fu sufficiente: con un schiocco sordo che avvertì fino al gomito, il dito si ruppe e un’ondata di dolore la travolse.
Il suo corpo reagì di conseguenza, buttando nel sangue vagonate di endorfine. Il sistema di sintesi fece il resto: in un lago di secrezioni, il mutante assorbì una quantità immane di droga che nell’arco di pochi istanti raggiunse il suo cervello già scarsamente funzionante. Fu un attimo, e Teha lo vide rigirare gli occhi all’indietro, le pupille strette come due spilli, e poi accasciarsi esanime.
Overdose.
La donna si scalzò il mutante di dosso e prese a massaggiarsi la mano, il mignolo che sporgeva in posizione innaturale. Léon lo diceva sempre ai suoi clienti: niente ossa rotta o è peggio per voi!
4.
Dopo aver recuperato l’acqua, Teha e Dora proseguirono. Il mutante che avevano incontrato era sicuramente un solitario. Con un branco, non ce l’avrebbero mai fatta.
«Perché non mi hai aiutato?» chiese Teha.
Nessuna risposta.
«Ti avevo chiesto di fare la guardia. Se fossi morta, cosa ne sarebbe stato di te?»
Nessuna risposta.
«E perché non ti ha sentito? Non ti ha attaccato?» Alla fine le chiese: «Chi sei?»
«Zio Dario, Via delle Croci.»
«Sì, sì, ok. Ti ci porto. Spero solo che questo Zio ti possa aiutare.» Teha, snervata, sentiva ancora il bisogno di riportare la bambina dai suoi parenti, quasi una necessità fisica.
Oltre la terra desertica tra i resti di Lucera (e non Nucera), superarono il confine. Fu come oltrepassare una specie di membrana, non tanto fisica quanto mentale: l’idea stessa del Molise era velenosa, un purgatorio malato, Terra di Nessuno infestata da esseri umani e derelitti.
Teha cominciava ad avere paura, perché da quel momento in poi potevano solo seguire la Via delle Croci: non c’erano strade secondarie o vie alternative. Sperava che in quella landa vivessero anche persone normali, poveri disperati che cercavano di sbarcare il lunario, e tra quelli ci fosse lo Zio Dario.
«La Via delle Croci porta a un qualche villaggio?»
«Zio Dario.»
Teha voleva prenderla a schiaffi.
L’aria, più rarefatta odorosa di vegetazione morta e carne putrefatta, li accolse all’inizio della Via delle Croci, uno dei peggiori manufatti umani.
«Non ho mai visto niente del genere.»
Teha lasciò correre lo sguardo. Ai bordi della strada, c’erano alberi marcescenti e rachitici, cespugli agonici e terra bruciata, ma il vero orrore era a terra. L’asfalto era stato sostituito da esseri umani morti sulle croci e poi incastrati gli uni agli altri, ancora inchiodati al loro supplizio. Il patchwork di cadaveri era stato ricoperto di resina trasparente, solidificata a fare da manto stradale.
«È come camminare sui morti.» disse Teha con un filo di voce.
Fece l’errore di guardare giù e due occhi vitrei, sbarrati in un’espressione di dolore ricambiarono il suo sguardo.
A Teha scappò un singhiozzo, mentre muoveva i passi attraverso questo cimitero a vista.
Dora sembrava insensibile: si muoveva apatica come sempre, spedita, in un’unica direzione. Non abbassava lo sguardo, non sembrava distratta dalla storia di morte sotto i suoi piedi. «Via delle Croci.» continuava a ripetere, anche ora che erano arrivate.
«Siamo qui, Dora. Non sei contenta? Tra un po’ sarai da tuo zio e questa storia sarà finita.»
Proseguirono e quando incontravano zone di asfalto sbrecciato che lasciavano emergere i corpi decomposti, Teha accelerava il passo per lasciarsi l’orrore alle spalle.
Dietro una curva a gomito, c’era un furgoncino di traverso sulla strada. «Ci sono due uomini. Dora, li conosci?»
«Zio Dario!» Esclamò Dora. «Via delle Croci! Zio Dario!» sembrava essersi animata un po’ di più.
Teha prese coraggio e avanzò il più lentamente possibile, sperando che uno dei due fosse davvero Zio Dario.
«E tu chi cazzo sei?» esplose la voce di quello con il cappello, mentre l’altro più giovane con l’orecchino faceva il giro del veicolo.
«Sto scortando questa bambina. Dora. Sto cercando Zio Dario.» urlò Teha alzando le mani per far vedere che era disarmata.
I due si guardarono. «Quale bambin-» disse Orecchino, ma Cappello gli diede una gomitata.
«Ah, Dora è con te! La… la bambina, sì.»
«Cerca Zio Dario. Lo conoscete?»
Orecchino sembrava disorientato.
Cappello invece era più a suo agio. « Conosciamo Dario, certo. Venga.»
Dora nel frattempo sembrava più arzilla, continuava a ripetere «Zio Dario Zio Dario Zio Dario», a pochi passi da lei.
Teha notò le mazze chiodate, ma Cappello le sorrise: «Siamo pur sempre in Molise, no? Lei e la bambina potete avvicinarvi.»
«Ma quale bambina del cazzo?» sussurrò Orecchino.
«E sta zitto, coglione.» lo apostrofò Cappello. «Venga, signora. La scorteremo da Dario. E vieni anche tu Dora.» E a quelle parole sorrise…
Ma lo fece dall'altra parte rispetto a dove si trovava la bambina. «Che cazz…» Teha avvertì qualcosa di sbagliato.
«Prendila!» ordinò Cappello e Orecchino scattò verso di lei. «E non la danneggiare!»
Teha si girò, inciampò nel terreno vetrificato e finì con la faccia a terra. Orecchino le fu addosso e la tirò su. La portò verso Cappello. Teha vide Dora ferma davanti a lei che fissava la strada, la sentiva ripetere ancora «Zio Dario zio Dario zio Dario».
Il tizio con il cappello si avvicinò sorridendo. «Bentornata, tesoro. Respira questo.» e le schiacciò sulla bocca un fazzoletto umido.
Tornata? Lei o Dora?
Dopo pochi istanti, svenne.
5.
«Ehi, come ti chiami?»
Una voce sconosciuta che arrivava da lontano la richiamava alla realtà. Non era quella di Dora.
Thea spalancò gli occhi. «DORA!»
In un attimo fu sveglia.
Era rinchiusa in una gabbia di metallo, nuda. Si tastò il corpo e le dita che seguivano la carta geografica di dolore che le sue cicatrici disegnavano su ogni centimetro quadrato della sua pelle: bruciature di sigarette, segni da taglio, elettrocuzione, morsi graffi.
«Siamo ridotte maluccio.» si intromise nuovamente la voce.
Si girò e vide una donna sdentata dai capelli grigi e la pelle raggrinzita nella cella accanto. Anche lei aveva degli innesti che solcavano i lati del collo e arrivavano alle guance.
«Chi sei? Dov’è Dora?»
«Sono Kara, al suo sevizio, signora.» e scoppiò a ridere, una risata gracchiante al limite della follia. «E se cerchi Dora, prima dimmi: cos'è per te Dora?»
«È una bambina che ho incontrato pochi giorni fa. La dovevo riportare a casa.»
«Per te era una bambina. Che carina. Ma non eri tu che portavi a casa Dora, piccola mia. Credi davvero che non l’avessero previsto?»
«Chi?»
«Chiunque ha immaginato di montare questi affari sulla nostra schiena. Chiunque ha deciso che eravamo buone per essere picchiate e stuprate con il solo scopo di produrre droga. Un tempo, per gli uomini le donne erano una droga. Ora noi siamo diventate l’essenza stessa di quella metafora, siamo la personificazione di un modo di dire, piccola mia.»
«Ma anche tu sei una ragazza…» Poteva ben vedere il corpo rinsecchito di Kara, un monumento vivente alla fantasia torturatrice degli uomini. Come il suo.
«Oh, se sono una ‘ragazza rubinetto’? Che la picchi e si bagna?» rise nuovamente in quel modo polveroso. «Beh, lo sono stata per molto tempo, ma ora la parte migliore di me è cambiata. Si diventa secche dopo un po’. Ora sono esperta solo con la bocca. Devi vedere come sbavo, un san Bernardo idrofobo che secerne sintoamfetamine.» I suoi occhi erano velati da una disperazione senza fine.
« dov’è Dora?»
Kara si avvicinò alle sbarre che la separavano da Teha. «Tesoro mio, non hai davvero capito? Non sei tu che hai portato Dora a casa, ma è lei che ti ha riportato all’Inferno. Credevi davvero che non avessero pensato che potevamo fuggire? Oh sì! E hanno ideato il sistema più bastardo del mondo per non doverci neanche cercare.»
Teha non capiva.
«Quel sistema si chiama D.O.R.A.: Dispositivo Occulto di Ritorno Automatico. Dora non esiste, è un programma che ti fotte il cervello e ti convince a tornare qui, sulla Via delle Croci e neanche te ne accorgi! Per te era una bambina? Poteva essere un oggetto, una lettera di un lontano parente… qualunque cosa.»
Teha rivisse i fatti dei giorni precedenti: la comparsa di Dora, di cui nessuno pareva accorgersi. L’episodio con il Mutante del Cemento. I due al posto di blocco. E ancor di più, l’impellenza ingiustificata con cui voleva a tutti i costi portare a termine la missione.
«Vedo che stai realizzando come ti hanno fottuto, no? Adesso Léon sta decidendo come mettere le cose in chiaro. Preparati a qualcosa di coreografico.»
Teha cominciò ad avere paura: il peggio doveva ancora venire. «No. Kara, non posso sopportare ancora una volta tutto quello che mi hanno fatto. Preferisco morire.»
«Oh oh, non puoi, bambina mia. Quell'aggeggio, che è il tuo nuovo giogo, non te lo permetterebbe. Sei una schiava, non puoi prendere decisioni. Sei condannata.»
«Ci deve essere un modo per sfuggire a tutto questo.» Se non trovava una soluzione, sarebbe impazzita per quello che volevano farle. Si bloccò.
«Che cosa butti fuori dalla bocca?»
«Io? Sintoamfetamine. Non chiedermi l’effetto, perché io sono protetta dalle mie stesse droghe e tu dalle tue.»
Teha si avvicinò alle sbarre. «Ascolta, Kara.» Le sbarre erano larghe abbastanza da far passare appena il naso e la bocca. «C’è un modo per salvarmi»
«Oh no, non c’è, bambina mia.»
«E invece sì. Se non posso scappare con il corpo, allora mi brucio la mente. Non sentirò niente, sarà come se non esistessi.»
«Oh ho, certo, provaci. Come farai?»
«Oh, lo scoprirai presto. Mi spiace.»
L’altra la guardò perplessa, e poi spaventata quando Teha le afferrò il braccio attraverso le sbarre e lo portò dalla sua parte. Lo strinse e l’espressione di Kara si colorì di sofferenza. Un filo di bava cominciò a colarle sul mento.
Teha le prese la testa e gliela tirò verso le sbarre. Avvicinò anche la sua cercò di bere la bava che stava colando fuori dalla bocca della vecchia.
Teha chiuse gli occhi e spezzò il braccio di Kara in mezzo alle sbarre. La donna dall’altra parte gorgogliò. L’impennata tremenda del dolore da frattura aveva inondato le fauci di Kara di bava. Teha ne stava bevendo quanto più possibile. Nonostante il sapore viscido e rancido, rimase attaccata alla faccia di Kara.
Voleva l’overdose di sintoamfetamina e, con un ultimo scampolo di lucidità, morse le labbra di Kara e ne bevve anche il sangue.
Continuò fin quando ne ebbe le forze, e alla fine, con un suono schioccante si staccò. Avvertì distrattamente i singhiozzi di Kara che si accasciava dall’altra parte cercando di ritirare il braccio fratturato, scolando saliva sul petto vecchio e nudo.
Teha si librò in aria e volteggiò nella stanza, sorridendo al suo corpo.
Niente poteva farle male. Neanche gli uomini che erano entrati e che cercavano di risvegliarla a schiaffi e calci. Non sentiva niente.
E il sistema di produzione di Endomorfina rimaneva silente.
Era solo un guscio vuoto, inservibile.
Aveva vinto.
Di Eugene Fitzherbert
1.
«Teha, sei sicura di quello che fai? Sei mancata per un intero pomeriggio e ora torni con quest’idea.» Giorgio non nascondeva l’espressione preoccupata che gli oscurava il viso.
Teha rispose convinta: «Devo andare, G. Devo aiutare la bambina.»
«Questa bambina, Dora, chi è? Non l’abbiamo neanche vista.»
«Sta sempre nascosta. L’ho incontrata ieri mentre fuggiva da un palazzo diroccato. Era mezza nuda e aveva i marchi, Giorgio, sulla schiena, sulle spalle, sulla pancia. Sai cosa significa.» Involontariamente Teha rabbrividì, portandosi una mano alla spalla, tastando gli innesti metallici da Schiava del Dolore che aveva. Anche per lei era iniziato con i tatuaggi, l’intervento di installazione e poi l’inferno.
«Se vuoi che questa ragazzina non faccia la tua stessa vita, non è meglio rimanere qui con noi? Come abbiamo accolto te, qualche giorno fa, può rimanere anche lei.» Lui a Trinitapoli aiutava tutti i disperati vittime di un mondo marcio e moribondo, di cui erano rimaste solo macerie fumanti.
«No, Giorgio. Dora continua a ripetere: Zio Dario e Via delle Croci. È lì che vuole tornare. E io devo portarla. Sento che è la cosa più giusta da fare.»
« Mi pare così strano. Sei appena arrivata, fuggita dalla tua vita dolorosa e ora… questo. Non mi piace.»
«So che devo farlo. Da quando ho visto il visino di Dora, i suoi occhi ormai spenti, i marchi sulla pelle. Non potevo lasciarla stare lì. È talmente traumatizzata che riesce a ripetere solo quelle parole…»
«Sì, Zio Dario e Via delle Croci. E tu vorresti arrivare a Via delle Croci. Lo sai che è pericoloso, no?»
«Lo so. E tu conosci la strada, vero?»
Giorgio rimase un po’ in silenzio, poi, rassegnato aggiunse: «Alla fine qui non sei prigioniera.»
2.
Per un giorno e mezzo avevano percorso un bel po’ di strada senza avere intoppi. Erano arrivati nel punto più critico e su quello Giorgio era stato chiarissimo: «State alla larga dalla città dei Mutanti del Cemento. Allungate verso nord e girate intorno alla discarica.»
«E come riconosciamo la città?»
«Il nome è Foggia. Dopo quella, c’è un’area semidesertica, con i resti di un paese disabitato, Lucera, mi pare, o Nucera. Da lì superate il confine, sarete alla Via delle Croci, in Molise.» Teha ricordava che le aveva guardata come due condannate a morte. «Il Molise non esiste, è solo un’invenzione geografica. Quella è terra di nessuno. Se sei lì, è come se non fossi da nessuna parte. Non c’è nessuna regola, nessuno che ti possa sentire, o che possa venire in tuo aiuto. È quello che vuoi?»
Lei non aveva risposto.
Quel pomeriggio avevano superato la Discarica e avevano visto le indicazioni per Foggia. «Ora dobbiamo stare nascoste. Allungheremo un po’, ma non preoccuparti ti porterò da Zio Dario.»
Dora, con lo sguardo apatico, aveva mormorato: «Zio Dario. Via delle Croci.»
A sera, avevano deciso di accamparsi, per trovare riparo dalle esalazioni che arrivavano dalla Discarica. Durante tutto il tragitto, Teha aveva studiato Dora, sperando di carpire quello che la ragazzina di dodici anni poteva aver passato per essersi ridotta in quelle condizioni. Sapeva che era facile finire vittima delle barbarie in quella Puglia devastata. Dora era distrutta: non parlava se non per ripetere sempre quelle parole, e la luce nei suoi occhi era quasi inesistente, come avesse già deciso di essere morta.
Teha sperava con tutto il cuore che riportarla da suo Zio Dario l’aiutasse in qualche modo. Ma soprattutto sentiva che fare quella traversata avrebbe aiutato lei. Non si sentiva così determinata da quando aveva deciso di scappare da Léon, per non essere più una Schiava del Dolore.
«Dora, siamo a buon punto. Non sei contenta?»
«Zio Dario.»
«Sì, certo. Stiamo andando da lui. Domattina ho bisogno del tuo aiuto per procurarci dell’acqua. Te la senti?»
«Via delle Croci, Zio Dario.»
Teha era un po’ esasperata. «Va bene. Sì. Domani però dobbiamo controllare un pozzo qua vicino. Io mi avvicino e tu fai la guardia. ok?»
«Zio Dario. Zio! Dario!»
Forse Teha stava riponendo troppa fiducia nella ragazzina, ma avevano bisogno dell’acqua anche se voleva dire uscire allo scoperto. Probabilmente stava scommettendo la sua vita su una bambina traumatizzata.
«Via delle Croci!» esclamò Dora, come se avesse capito che stava pensando a lei. Poi si accasciò su un fianco e si mise a dormire.
Teha si avvicinò alla ragazzina e le accarezzò una ciocca di capelli. Ogni volta che la toccava aveva una spiacevole sensazione, ma era qualcosa di passeggero. Anche adesso, la ciocca sembrò quasi fuori fuoco, irreale e poi prese la normale consistenza dei capelli.
«Povera Dora. Quei segni che ti ritrovi sulla pelle, io li conosco benissimo. Sono il preludio all’inferno. Anche io ho iniziato così: dopo pochi giorni dai Marchi, sono arrivati i chirurghi e mi hanno installato questi innesti.» E scrollò le spalle per verificare che fossero tutti al loro posto. «Un sistema di produzione di droga: mi hanno trasformato in una fabbrica di endomorfina, derivata dall’endorfina.»
I suoi ricordi tornarono a qualche tempo prima, a prima che fuggisse, quando la stavano addestrando a fare quello per cui l’avevano creata: c’era un uomo, si chiamava Léon, crudele e spietato che aveva messo le cose in chiaro, un’espressione che significava che prima l’aveva picchiata, poi l’aveva violentata e poi le aveva parlato. Era sempre così, quando metteva le cose in chiaro. «Ora che ho la tua attenzione, puttana, ti dico quello che devi fare. È semplicissimo.» E la colpì ancora al volto.
Lei singhiozzò, coprendosi il volto con le mani, mentre il sistema di tubi sottopelle si attivava con un ronzio sinistro. Dopo pochi secondi, sentì in mezzo alle gambe una sensazione di umido.
«Brava!» esultò Léon. E le diede un altro schiaffo.
Il liquido aumentò.
«Vedi? Questo è quello che devi fare. Farti picchiare, tutte le volte che un cliente lo vuole, senza mai tirarti indietro. Perché ogni volta che qualcuno ti procura dolore…» altro schiaffo. «Tu sbrodoli. E quella è droga, tesoro mio, la migliore endomorfina che corpo umano possa produrre. Il sistema che hai dentro è all’avanguardia, il top.»
Teha continuava a singhiozzare, tenendosi la mano sul volto, seduta nuda in un lago di umori.
«Oh, beh, non è finita qui, ovviamente. Sei pur sempre una puttana, quindi dopo, ti scoperanno. Così va la vita, no?» Léon rise. «E così ora sei titolare, Teha. Vedi di non deludere il tuo allenatore!» E continuò a ridere.
Ecco da cosa era fuggita, Teha, non poteva lasciare Dora in balia di questo destino. Doveva portarla da Zio Dario, a Via delle Croci, fosse l’ultima cosa che faceva.
3.
La mattina successiva, arrivarono al pozzo, vicino a una catapecchia.
«Tu sta qui, vado a vedere.»
Teha si mosse veloce. La casupola di lamiere era ingombra di spazzatura, un materasso coperto di macchie scure e i resti di un fuoco. Chiunque aveva vissuto lì, sembrava essere andato via da tempo.
Tirò un sospiro di sollievo e si diresse verso il pozzo. Sul fondo vide baluginare dell’acqua. Si voltò verso Dora per richiamare la sua attenzione. Lei era lì immobile dove l’aveva lasciata, a fissare un punto perso in lontananza. Teha agitò una mano, e in quel momento da dietro una roccia emerse un uomo dalla pelle grigia, deformata da croste chitinose. Gli occhi erano delle pietre infiammate e guizzanti e sembrava annusare l’aria per saggiarne la consistenza. La mano destra era solo un moncherino scheggiato, le dita sgretolate come pietre farinose.
Un Mutante del Cemento.
Il mostro ruggì, un suono secco e pastoso come il passaggio di rocce dentro una clessidra d’osso. In due balzi fu su Teha e la scaraventò al suolo, immobilizzandola.
Teha cominciò a ruotare la testa a destra a sinistra per cercare Dora, per chiederle aiuto, per sapere se poteva contare su di lei, o per farla fuggire.
Il mostro le teneva la braccia ferme sotto le ginocchia e quando le aprì il poncho emise un grugnito di vittoria: «FEMMINA!» urlò trionfante. La scoprì del tutto.
Il passato, che Teha sperava di essersi lasciato indietro, la raggiunse con la potenza di un treno in corsa. Oh dio, no, non con questo coso!
«DORA!» urlò con quanto fiato aveva in gola. La vide a pochi passi da lei, immobile, in piedi, la solita espressione stolida sul volto.
Infastidito dalle sue urla, il mostro le sferrò un ceffone in faccia, spaccandole il labbro.
Il dolore esplose come un vecchio amico e il sistema di innesti che aveva sulla schiena si mise al lavoro, sintetizzando l'endomorfina. Teha si sentì inondare le sue parti basse, una sensazione appiccicosa e disgustosa. «No, no!» disse, mentre su di lei quell'essere era pronto a finire il lavoro. Le stava divaricando le gambe a forza, con la mano integra nodosa e tagliente per le croste di cemento. «Dora, per l’amor di dio, aiutami!» Ma la ragazza rimase ferma, senza neanche sbattere gli occhi.
Il mutante la penetrò, e Teha strinse gli occhi, spremendo fuori le lacrime amare che stava versando, ingoiando il sangue che le colava dal labbro ferito. Il dolore continuava a farle produrre droga. Si accorse che il mostro ne era particolarmente sensibile: stava ansimando, gli occhi rivolti al cielo, in estasi. Ebbe un’idea.
Strinse i denti, furiosa, e incastrò il mignolo nel terreno. Spinse con il braccio per quanto le permetteva la morsa con cui era bloccata a terra.
Fu sufficiente: con un schiocco sordo che avvertì fino al gomito, il dito si ruppe e un’ondata di dolore la travolse.
Il suo corpo reagì di conseguenza, buttando nel sangue vagonate di endorfine. Il sistema di sintesi fece il resto: in un lago di secrezioni, il mutante assorbì una quantità immane di droga che nell’arco di pochi istanti raggiunse il suo cervello già scarsamente funzionante. Fu un attimo, e Teha lo vide rigirare gli occhi all’indietro, le pupille strette come due spilli, e poi accasciarsi esanime.
Overdose.
La donna si scalzò il mutante di dosso e prese a massaggiarsi la mano, il mignolo che sporgeva in posizione innaturale. Léon lo diceva sempre ai suoi clienti: niente ossa rotta o è peggio per voi!
4.
Dopo aver recuperato l’acqua, Teha e Dora proseguirono. Il mutante che avevano incontrato era sicuramente un solitario. Con un branco, non ce l’avrebbero mai fatta.
«Perché non mi hai aiutato?» chiese Teha.
Nessuna risposta.
«Ti avevo chiesto di fare la guardia. Se fossi morta, cosa ne sarebbe stato di te?»
Nessuna risposta.
«E perché non ti ha sentito? Non ti ha attaccato?» Alla fine le chiese: «Chi sei?»
«Zio Dario, Via delle Croci.»
«Sì, sì, ok. Ti ci porto. Spero solo che questo Zio ti possa aiutare.» Teha, snervata, sentiva ancora il bisogno di riportare la bambina dai suoi parenti, quasi una necessità fisica.
Oltre la terra desertica tra i resti di Lucera (e non Nucera), superarono il confine. Fu come oltrepassare una specie di membrana, non tanto fisica quanto mentale: l’idea stessa del Molise era velenosa, un purgatorio malato, Terra di Nessuno infestata da esseri umani e derelitti.
Teha cominciava ad avere paura, perché da quel momento in poi potevano solo seguire la Via delle Croci: non c’erano strade secondarie o vie alternative. Sperava che in quella landa vivessero anche persone normali, poveri disperati che cercavano di sbarcare il lunario, e tra quelli ci fosse lo Zio Dario.
«La Via delle Croci porta a un qualche villaggio?»
«Zio Dario.»
Teha voleva prenderla a schiaffi.
L’aria, più rarefatta odorosa di vegetazione morta e carne putrefatta, li accolse all’inizio della Via delle Croci, uno dei peggiori manufatti umani.
«Non ho mai visto niente del genere.»
Teha lasciò correre lo sguardo. Ai bordi della strada, c’erano alberi marcescenti e rachitici, cespugli agonici e terra bruciata, ma il vero orrore era a terra. L’asfalto era stato sostituito da esseri umani morti sulle croci e poi incastrati gli uni agli altri, ancora inchiodati al loro supplizio. Il patchwork di cadaveri era stato ricoperto di resina trasparente, solidificata a fare da manto stradale.
«È come camminare sui morti.» disse Teha con un filo di voce.
Fece l’errore di guardare giù e due occhi vitrei, sbarrati in un’espressione di dolore ricambiarono il suo sguardo.
A Teha scappò un singhiozzo, mentre muoveva i passi attraverso questo cimitero a vista.
Dora sembrava insensibile: si muoveva apatica come sempre, spedita, in un’unica direzione. Non abbassava lo sguardo, non sembrava distratta dalla storia di morte sotto i suoi piedi. «Via delle Croci.» continuava a ripetere, anche ora che erano arrivate.
«Siamo qui, Dora. Non sei contenta? Tra un po’ sarai da tuo zio e questa storia sarà finita.»
Proseguirono e quando incontravano zone di asfalto sbrecciato che lasciavano emergere i corpi decomposti, Teha accelerava il passo per lasciarsi l’orrore alle spalle.
Dietro una curva a gomito, c’era un furgoncino di traverso sulla strada. «Ci sono due uomini. Dora, li conosci?»
«Zio Dario!» Esclamò Dora. «Via delle Croci! Zio Dario!» sembrava essersi animata un po’ di più.
Teha prese coraggio e avanzò il più lentamente possibile, sperando che uno dei due fosse davvero Zio Dario.
«E tu chi cazzo sei?» esplose la voce di quello con il cappello, mentre l’altro più giovane con l’orecchino faceva il giro del veicolo.
«Sto scortando questa bambina. Dora. Sto cercando Zio Dario.» urlò Teha alzando le mani per far vedere che era disarmata.
I due si guardarono. «Quale bambin-» disse Orecchino, ma Cappello gli diede una gomitata.
«Ah, Dora è con te! La… la bambina, sì.»
«Cerca Zio Dario. Lo conoscete?»
Orecchino sembrava disorientato.
Cappello invece era più a suo agio. « Conosciamo Dario, certo. Venga.»
Dora nel frattempo sembrava più arzilla, continuava a ripetere «Zio Dario Zio Dario Zio Dario», a pochi passi da lei.
Teha notò le mazze chiodate, ma Cappello le sorrise: «Siamo pur sempre in Molise, no? Lei e la bambina potete avvicinarvi.»
«Ma quale bambina del cazzo?» sussurrò Orecchino.
«E sta zitto, coglione.» lo apostrofò Cappello. «Venga, signora. La scorteremo da Dario. E vieni anche tu Dora.» E a quelle parole sorrise…
Ma lo fece dall'altra parte rispetto a dove si trovava la bambina. «Che cazz…» Teha avvertì qualcosa di sbagliato.
«Prendila!» ordinò Cappello e Orecchino scattò verso di lei. «E non la danneggiare!»
Teha si girò, inciampò nel terreno vetrificato e finì con la faccia a terra. Orecchino le fu addosso e la tirò su. La portò verso Cappello. Teha vide Dora ferma davanti a lei che fissava la strada, la sentiva ripetere ancora «Zio Dario zio Dario zio Dario».
Il tizio con il cappello si avvicinò sorridendo. «Bentornata, tesoro. Respira questo.» e le schiacciò sulla bocca un fazzoletto umido.
Tornata? Lei o Dora?
Dopo pochi istanti, svenne.
5.
«Ehi, come ti chiami?»
Una voce sconosciuta che arrivava da lontano la richiamava alla realtà. Non era quella di Dora.
Thea spalancò gli occhi. «DORA!»
In un attimo fu sveglia.
Era rinchiusa in una gabbia di metallo, nuda. Si tastò il corpo e le dita che seguivano la carta geografica di dolore che le sue cicatrici disegnavano su ogni centimetro quadrato della sua pelle: bruciature di sigarette, segni da taglio, elettrocuzione, morsi graffi.
«Siamo ridotte maluccio.» si intromise nuovamente la voce.
Si girò e vide una donna sdentata dai capelli grigi e la pelle raggrinzita nella cella accanto. Anche lei aveva degli innesti che solcavano i lati del collo e arrivavano alle guance.
«Chi sei? Dov’è Dora?»
«Sono Kara, al suo sevizio, signora.» e scoppiò a ridere, una risata gracchiante al limite della follia. «E se cerchi Dora, prima dimmi: cos'è per te Dora?»
«È una bambina che ho incontrato pochi giorni fa. La dovevo riportare a casa.»
«Per te era una bambina. Che carina. Ma non eri tu che portavi a casa Dora, piccola mia. Credi davvero che non l’avessero previsto?»
«Chi?»
«Chiunque ha immaginato di montare questi affari sulla nostra schiena. Chiunque ha deciso che eravamo buone per essere picchiate e stuprate con il solo scopo di produrre droga. Un tempo, per gli uomini le donne erano una droga. Ora noi siamo diventate l’essenza stessa di quella metafora, siamo la personificazione di un modo di dire, piccola mia.»
«Ma anche tu sei una ragazza…» Poteva ben vedere il corpo rinsecchito di Kara, un monumento vivente alla fantasia torturatrice degli uomini. Come il suo.
«Oh, se sono una ‘ragazza rubinetto’? Che la picchi e si bagna?» rise nuovamente in quel modo polveroso. «Beh, lo sono stata per molto tempo, ma ora la parte migliore di me è cambiata. Si diventa secche dopo un po’. Ora sono esperta solo con la bocca. Devi vedere come sbavo, un san Bernardo idrofobo che secerne sintoamfetamine.» I suoi occhi erano velati da una disperazione senza fine.
« dov’è Dora?»
Kara si avvicinò alle sbarre che la separavano da Teha. «Tesoro mio, non hai davvero capito? Non sei tu che hai portato Dora a casa, ma è lei che ti ha riportato all’Inferno. Credevi davvero che non avessero pensato che potevamo fuggire? Oh sì! E hanno ideato il sistema più bastardo del mondo per non doverci neanche cercare.»
Teha non capiva.
«Quel sistema si chiama D.O.R.A.: Dispositivo Occulto di Ritorno Automatico. Dora non esiste, è un programma che ti fotte il cervello e ti convince a tornare qui, sulla Via delle Croci e neanche te ne accorgi! Per te era una bambina? Poteva essere un oggetto, una lettera di un lontano parente… qualunque cosa.»
Teha rivisse i fatti dei giorni precedenti: la comparsa di Dora, di cui nessuno pareva accorgersi. L’episodio con il Mutante del Cemento. I due al posto di blocco. E ancor di più, l’impellenza ingiustificata con cui voleva a tutti i costi portare a termine la missione.
«Vedo che stai realizzando come ti hanno fottuto, no? Adesso Léon sta decidendo come mettere le cose in chiaro. Preparati a qualcosa di coreografico.»
Teha cominciò ad avere paura: il peggio doveva ancora venire. «No. Kara, non posso sopportare ancora una volta tutto quello che mi hanno fatto. Preferisco morire.»
«Oh oh, non puoi, bambina mia. Quell'aggeggio, che è il tuo nuovo giogo, non te lo permetterebbe. Sei una schiava, non puoi prendere decisioni. Sei condannata.»
«Ci deve essere un modo per sfuggire a tutto questo.» Se non trovava una soluzione, sarebbe impazzita per quello che volevano farle. Si bloccò.
«Che cosa butti fuori dalla bocca?»
«Io? Sintoamfetamine. Non chiedermi l’effetto, perché io sono protetta dalle mie stesse droghe e tu dalle tue.»
Teha si avvicinò alle sbarre. «Ascolta, Kara.» Le sbarre erano larghe abbastanza da far passare appena il naso e la bocca. «C’è un modo per salvarmi»
«Oh no, non c’è, bambina mia.»
«E invece sì. Se non posso scappare con il corpo, allora mi brucio la mente. Non sentirò niente, sarà come se non esistessi.»
«Oh ho, certo, provaci. Come farai?»
«Oh, lo scoprirai presto. Mi spiace.»
L’altra la guardò perplessa, e poi spaventata quando Teha le afferrò il braccio attraverso le sbarre e lo portò dalla sua parte. Lo strinse e l’espressione di Kara si colorì di sofferenza. Un filo di bava cominciò a colarle sul mento.
Teha le prese la testa e gliela tirò verso le sbarre. Avvicinò anche la sua cercò di bere la bava che stava colando fuori dalla bocca della vecchia.
Teha chiuse gli occhi e spezzò il braccio di Kara in mezzo alle sbarre. La donna dall’altra parte gorgogliò. L’impennata tremenda del dolore da frattura aveva inondato le fauci di Kara di bava. Teha ne stava bevendo quanto più possibile. Nonostante il sapore viscido e rancido, rimase attaccata alla faccia di Kara.
Voleva l’overdose di sintoamfetamina e, con un ultimo scampolo di lucidità, morse le labbra di Kara e ne bevve anche il sangue.
Continuò fin quando ne ebbe le forze, e alla fine, con un suono schioccante si staccò. Avvertì distrattamente i singhiozzi di Kara che si accasciava dall’altra parte cercando di ritirare il braccio fratturato, scolando saliva sul petto vecchio e nudo.
Teha si librò in aria e volteggiò nella stanza, sorridendo al suo corpo.
Niente poteva farle male. Neanche gli uomini che erano entrati e che cercavano di risvegliarla a schiaffi e calci. Non sentiva niente.
E il sistema di produzione di Endomorfina rimaneva silente.
Era solo un guscio vuoto, inservibile.
Aveva vinto.