Un esercizio: 'Lampreda'

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alberto.dellarossa
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Un esercizio: 'Lampreda'

Messaggio#1 » mercoledì 15 luglio 2015, 13:16

Ciao a tutti. Metto alla vostra attenzione un racconto scritto un paio di settimane fa. Premetto immediatamente che si tratta di un esercizio: lo scopo è di imitare lo stile di Cormac McCarthy ne "La Strada".

Perché proprio lui? Perché ha un periodare decisamente ipotattico e caratterizzato da un frequente uso di ripetizioni e costruzioni reiterate. Gli stessi dialoghi vengono presentati nel medesimo stile de "La Strada" senza alcuna punteggiatura o quasi.

Ovviamente il racconto finale verrà rimaneggiato per renderlo più aderente al mio stile - non di meno ho trovato l'esperienza decisamente interessante e sicuramente istruttiva.

Ovviamente mi farebbe piacere ricevere un vostro commento in merito - a maggior ragione se conoscete l'opera di McCarthy alla quale faccio il verso.

 

 

Lampreda

Quando si svegliava, durante quelle poche ore di riposo nell’oscurità più totale, allungava la mano per sentire se il ragazzo ci fosse ancora. Toccava il corpo disteso al suo fianco, disteso sull’unico tratto di roccia dal quale non spuntassero stalagmiti irte come denti di un mostro abissale. Sentiva la tuta umida sotto le dita, il petto che si alzava e abbassava. La lucidità riemergeva dal buio dell’incoscienza il tempo necessario per realizzare che suo figlio era ancora lì, con lui, intrappolato sotto terra.

 

Ce la fai? Chiedeva apprensivo, osservando il ragazzo che armava i fittoni nella roccia del camino. Un lavoro lungo, ripetitivo, illuminati dalle torce al carburo sopra gli elmetti.

Ce la faccio pà. Smettila di chiedere. Ok?

Ok. È che ti vedo in difficoltà.

Il ragazzo azionò il trapano, puntellando la schiena contro la parete opposta. Polvere di roccia cadeva sull’uomo qualche metro più in basso, che teneva la fune.

Fatto?

Fatto. Procedo.

Procedeva, un metro alla volta, verso l’alto.

 

Si sedettero all’imboccatura del budello, il ragazzo guardava il soffitto illuminato dalla torcia.

Secondo te regge?

Il padre alzò il sopracciglio.

Sembra di si. Non ti fidi?

No.

Fai bene.

Due colpi di piccozza sulla parete, qualche sassolino rotolò giù dalla parere umida. L’eco si perse in fondo al cunicolo.

Mi sembra comunque solido, credo che possiamo procedere.

Andiamo allora.

Avanti.

 

Il pozzo  era apparentemente senza fondo. I sassi che l’uomo gettava per saggiarne la profondità venivano inghiottiti nelle tenebre senza restituire alcun suono. Uno squarcio nero nelle budella della terra, la gola nera di un mostro ancestrale e affamato. Si tolsero gli zaini per prendere fiato nell’aria satura di umidità. Dal pozzo veniva una corrente leggera, calda. Sembrava proprio l’alito di una bestia pensava il ragazzo. L’uomo non pensava nulla, provava solo disagio davanti a quella cosa più nera della morte.

Non mi piace, è tutto scivoloso.

Siamo in una grotta pà, per forza è tutto scivoloso.

Si, ma non mi piace comunque.

Torniamo indietro?

L’espressione di delusione sul volto del ragazzo gli piaceva ancora meno.

Lo sai che in speleologia non si rischia.

Lo sai che siamo dove nessuno è mai stato prima?

Lo so.

E allora andiamo avanti.

Il mostro davanti a loro respirava piano, come una lampreda attaccata al budello che stavano percorrendo.

Guardò l’orologio, poi il ragazzo, infine il pozzo.

Andiamo avanti , ma entro un’ora torniamo indietro.

Entro un’ora.

Dio quanto si sbagliavano.

 

Il ragazzo infilava un fittone dopo l’altro sotto lo sguardo del padre. Poche decine di centimetri per volta, sospeso sopra l’abisso. La corda non era mai parsa così sottile all’uomo, i chiodi mai così fragili.

Forse non dovevo permetterglielo.

Guardò il ragazzo illuminato dalla torcia. Non gli era mai parso così felice.

Forse è per questo che ho acconsentito.

Perché ero come lui.

 

Li separava l’abisso. Una manciata di nero più nero della morte. I moschettoni pendevano dal soffitto, la corda come il singolo filo di una ragnatela. Erano ragni o solo mosche?

 

Solo un metro ancora. Solo uno.

Ci sono.

Il rumore della roccia che si spaccava fermò i loro cuori. L’uomo attaccato alla parete su un minuscolo cornicione di roccia grigia come carne morta. La crepa aveva raggiunto il terzo chiodo, unendo i precedenti come un tratto di penna. Quello però non era un gioco enigmistico.

Gli occhi del ragazzo erano spalancati. Il padre lo guardava.

Calma figliolo, disse.

Salta papà, sussurrava il ragazzo.

Il tratto di penna raggiunse il quarto chiodo.

Salta, urlò il ragazzo.

Saltò. La lampreda ruggì.

Mi fa male la caviglia, pà.

Nel buio, dita tremanti riaccesero la fiammella al carburo. La polvere ricopriva i due volti, rendendoli simili a maschere teatrali.

Fai vedere.

Il rosso del sangue era irreale in quel grigio mondo sotterraneo.

Credo sia rotta.

Dita delicate tastavano la ferita. Il ragazzo urlò.

Scusa pà.

L’uomo sollevò lo sguardo. Le lacrime tracciavano solchi sul volto bianco di polvere del ragazzo.

Non è niente, non preoccuparti.

Poi guardò verso l’abisso. Parte della volta era crollata, la gola della lampreda aperta sul nulla quasi raddoppiata nelle dimensioni.

Siamo nei guai, vero?

Abbassò lo sguardo sulla caviglia, mentre puliva la ferita.

Credo di si.

Ma ce la caveremo lo stesso?

Si, credo di si, disse, cercando di mentire meglio che poteva.

 

La fiammella della torcia al carburo vacillò per l’ultima volta. Le ombre si scatenarono in un’ultima danza prima del sopraggiungere del buio. Non sapeva nemmeno quante ore fossero passate. Forse giorni. L’ultima razione era finita tempo prima. L’aveva ceduta al ragazzo, che aveva mangiato a piccoli morsi, guardando l’abisso. Lo stomaco faceva male da quanto era vuoto. Nulla in confronto al dolore che provava al pensiero di non poter salvare il ragazzo.

Una mano lo sfiorò.

Papà.

Eccomi, sono qua.

Ho freddo.

Si stese accanto al ragazzo, abbracciandolo.

Tremava. La fronte scottava.

Lo strinse a sé. Nel limbo senza fine dell’oscurità più totale i ricordi presero ad affiorare come tronchi alla deriva nel mare.

 

Fuori dalla finestra il sole splendeva, la brezza muoveva le foglie facendole cantare. Il cane abbaiava in cortile. L’uomo guardava il figlio avvolto nelle coperte, dalle quali spuntava solo la testolina bionda. Il volto era costellato di crosticine.

Quando potrò uscire a giocare?

Gli passò la mano tra i capelli.

Presto.

Quanto presto?

Appena starai meglio.

Io sto bene.

Tu stai bene, il tuo corpo no. Devi prima guarire.

Il bambino corrucciò l’espressione.

Ma io sto bene. È estate, voglio uscire a giocare.

Abbi pazienza, hai tutta l’estate ancora per giocare.

Me lo prometti?

Te lo prometto.

 

Non sapeva quanto tempo avesse dormito, né da quanto fossero là sotto. Il silenzio era totale. La mente giocava brutti scherzi nel dormiveglia. Ricordi lontani si accavallavano. Si sollevò a sedere, poi realizzò il significato di quel silenzio così profondo.

Trattenne il respiro. Nemmeno un rumore. Non sapeva se la mano tremasse. Non sapeva nemmeno se fossero lacrime a bagnare il suo volto. Sfiorò il volto del ragazzo, freddo come la roccia che lo circondava.

Si sdraiò accanto a lui, circondandolo con le braccia.

Scusami, mormorò nel buio.

Chiuse gli occhi, aggiungendo oscurità all’oscurità.



alexandra.fischer
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Messaggio#2 » mercoledì 15 luglio 2015, 17:32

Ho letto Il Buio e la Strada di McCarthy molto tempo fa; lo stile, tuttavia, me lo ricordo bene. Leggendoti, ho visto che l'hai rielaborato molto bene. In te, quelli che in uno scrittore meno esperto possono rivelarsi punti deboli, si rivelano punti di forza. Fai davvero partecipare il lettore alla sfortunata spedizione speleologica di padre e figlio, rivelandone la tragedia finale nello stesso modo che avrebbe usato Mc Carthy stesso (con un fondo di umanità e partecipazione dolente da parte sua: si vede che vive i personaggi per come li costruisce. Sono vivi, a tutto tondo). Sei davvero molto bravo.

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Vastatio
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Messaggio#3 » venerdì 7 agosto 2015, 14:17

Sfortunatamente non posso valutare il tuo esercizio perché non ho letto l'autore che cerchi di imitare. Quello che posso dirti è che non mi piace. Per quanto si sposi bene con la storia, simulando molto bene il passaggio della coscienza del padre tra presene e passato in un momento così critico.

Più di una volta sono tornato indietro a rileggere per afferrare il cambio di scena, chiedendomi se fosse presente o passato e se era sempre la stessa spedizione.

Per ultimo trovo che manchi un riferimento temporale per valutare "l'epoca" di questa spedizione. Gli incidenti capitano, ma se fosse ai giorni nostri probabilmente qualcuno saprebbe dove erano diretti e passare giorni senza ricevere soccorsi... C'è sempre la possibilità che per raggiungere il posto in cui "nessuno è mai stato" avessero fatto una spedizione segreta, ma questo stride con l'affermazione del padre "in speleologia non si rischia".

Al di là di questi appunti però è scritto molto bene. Nonostante le interruzioni per rileggere alcuni passaggi sei riuscito a "portarmi" nel buio di quella caverna.

Seguendo il nuovo corso del laboratorio  direi che puoi prendere a sberle Spartaco. Ti concedo la grazia dal basso della mia posizione.

 

 

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Flavia Imperi
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Messaggio#4 » sabato 8 agosto 2015, 0:37

Purtroppo non ho letto McCarthy, ma posso darti un parere generico sul racconto.

L'ho trovato un ottimo racconto, toccante e delicato, alcune descrizioni fanno venire i brividi, complimenti!

DI contro in alcuni punti il punto di vista viene interrotto, e di conseguenza l'immedesimazione nella storia. Ad esempio quel "Dio quanto si sbagliavano" da narratore onnisciente, mentre tutto finora era narrato dal punto di vista del padre. Anche più sotto c'è un momento in cui scrivi delle sensazioni del figlio, io manterrei il punto di vista del padre per tutto il tempo, altrimenti stona.

Altro punto "dolente", ho avuto la stessa difficoltà di Vastatio a seguire i salti. A volte basta una parola in più per gestire meglio la situazione. Esempio, inizio "in media res", ok. Poi siamo nell'inizio della vicenda, magari metti "quella mattina" o un riferimento teporale che orienti un minimo il lettore. Così come nel flashback alla fine.

Per il resto penso tu sia sula buona strada, continua così! :)
Siamo storie di storie

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maria rosaria
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Messaggio#5 » martedì 11 agosto 2015, 9:08

Ciao Alberto.
Non ho letto nulla di Cormac McCarthy, quindi non potrò darti impressioni e indicazioni che alla sua opera possano far riferimento.
Posso però dirti che il racconto, così come l'hai scritto, mi ha colpito molto.
Sei riuscito a condurmi in quel budello, a vivere l'angoscia della parete da scalare, a sentire l'abisso di dolore del padre per la perdita del figlio.
Quindi, evitando commenti stilistici che non sono in grado di fare, considero questo racconto un'ottima prova, bravo.
Complimenti!

maria rosaria

Maria Rosaria

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alberto.dellarossa
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Messaggio#6 » lunedì 17 agosto 2015, 11:50

Grazie a tutti per i commenti.Quelli che possono sembrare errori a chi non conosce l'autore sono a tutti gli effetti "scimmiottamenti" dello stile di McCarthy. L'intrusione del narratore onnisciente, il salto di scena (simile a quello de La Strada", i dialoghi senza segni diacritici che lasciano pensare a un continuo spostamento del PdV. Il punto è che McCarthy, da brava leggenda, può piegare le regole a suo piacimento. Questo esercizio, commissionatomi dallo scrittore che mi dà lezione, aveva lo scopo di rompere le regole imitando un autore a mio piacimento.

Come già accennato nemmeno io avrei operato queste scelte al di fuori dell'esercizio: eppure è un'esperienza utile perché mi ha insegnato a osare una scorribanda al di fuori del mio solito stile.

Detto questo mi fa piacere essere riuscito comunque a portarvi all'interno del budello. Adesso vedo di lavorare un po' sui salti di scena ed elimino la frase da narratore onnisciente e regolo il tutto sul PdV del padre, vediamo cosa viene fuori

Omaima Arwen
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Messaggio#7 » mercoledì 19 agosto 2015, 16:59

Sei riuscito a scrivere un racconto davvero ben fatto, toccante e con delle descrizioni da brivido! Anche secondo me le frasi da narratore onnisciente dovresti toglierle, così da lasciare il racconto con più suspense e più scorrevole.
Con le modifiche da te scritte, qui sopra, dovrebbe venir fuori un ottimo lavoro!

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alberto.dellarossa
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Messaggio#8 » sabato 22 agosto 2015, 20:41

Ecco qua: ho aggiunto le virgolette per i dialoghi, il corsivo per sottolineare il pensiero del padre. Eliminata l'intrusione del narratore onnisciente e uniformato il pdv del padre.

A voi.

 

Lampreda

Quando si svegliava, nell’oscurità più totale, allungava la mano per sentire se il ragazzo ci fosse ancora. Toccava il corpo disteso al suo fianco, sull’unico tratto di roccia dal quale non spuntassero stalagmiti irte come denti di un mostro abissale. Sentiva la tuta umida sotto le dita, il petto che si alzava e abbassava. La lucidità riemergeva dal buio dell’incoscienza il tempo necessario per realizzare che suo figlio era ancora lì, con lui, intrappolato sotto terra. Per realizzare che non esisteva futuro, ma solo passato e ricordi.

"Ce la fai?" Chiese apprensivo, osservando il ragazzo che armava i fittoni nella roccia del camino. Un lavoro lungo, ripetitivo, illuminati dalle torce al carburo sopra gli elmetti.
"Ce la faccio pà. Smettila di chiedere. Ok?"
"Ok. È che ti vedo in difficoltà."
Il ragazzo azionò il trapano, puntellando la schiena contro la parete opposta. Polvere di roccia cadeva sull’uomo qualche metro più in basso, che teneva la fune.
"Fatto?"
"Fatto. Procedo."
Procedeva, un metro alla volta, verso l’alto.

Si sedettero all’imboccatura del budello, il ragazzo guardava il soffitto illuminato dalla torcia.
"Secondo te regge?"
Il padre alzò il sopracciglio.
"Sembra di si. Non ti fidi?"
"No."
"Fai bene."
Due colpi di piccozza sulla parete, qualche sassolino rotolò giù dalla parere umida. L’eco si perse in fondo al cunicolo.
"Mi sembra comunque solido, credo che possiamo armare la parete."
"Andiamo allora."
"Avanti."

Il pozzo era apparentemente senza fondo. I sassi che l’uomo gettava per saggiarne la profondità venivano inghiottiti nelle tenebre senza restituire alcun suono. Uno squarcio nero nelle budella della terra, la gola nera di un mostro ancestrale e affamato. Si tolsero gli zaini per prendere fiato nell’aria satura di umidità. Dal pozzo veniva una corrente leggera, calda, simile all'alito di una bestia immane.
L’uomo provava disagio davanti a quella cosa più nera della morte.
"Non mi piace, è tutto scivoloso."
"Siamo in una grotta pà, per forza è tutto scivoloso."
"Si, ma non mi piace comunque."
"Vuoi che torniamo indietro?"
L’espressione di delusione sul volto del ragazzo gli piaceva ancora meno.
"Lo sai che in speleologia non si rischia." disse.
"Lo sai che siamo dove nessuno è mai stato prima?"
"Lo so."
"E allora andiamo avanti." Gli occhi del ragazzo bruciavano d'impazienza.
Il mostro davanti a loro respirava piano, come una lampreda attaccata al budello che stavano percorrendo.
Guardò l’orologio, poi il ragazzo, infine il pozzo.
"Andiamo avanti , ma entro un’ora torniamo indietro."
"Entro un’ora."
Sperava solo di non sbagliarsi.

Il ragazzo infilava un fittone dopo l’altro sotto lo sguardo del padre. Poche decine di centimetri per volta, sospeso sopra l’abisso. La corda non era mai parsa così sottile all’uomo, i chiodi mai così fragili.
Forse non dovevo permetterglielo, pensò.
Guardò il ragazzo illuminato dalla torcia. Non gli era mai parso così felice.
Forse è per questo che ho acconsentito.Perché ero come lui.

Li separava l’abisso. Una manciata di nero più nero della morte. I moschettoni pendevano dal soffitto, la corda come il singolo filo di una ragnatela.
"Solo un metro ancora. Solo uno."
"Ci sono."
Il rumore della roccia che si spaccava fermò i loro cuori. L’uomo attaccato alla parete su un minuscolo cornicione di roccia grigia come carne morta. La crepa aveva raggiunto il terzo chiodo, unendo i precedenti come un tratto di penna. Quello però non era un gioco enigmistico.
Gli occhi del ragazzo erano spalancati. Il padre lo guardava.
"Calma figliolo", disse.
"Salta papà".
Il tratto di penna raggiunse il quarto chiodo.
"Salta", urlò il ragazzo.
Saltò. La lampreda ruggì.

"Mi fa male la caviglia, pà."
Nel buio, dita tremanti riaccesero la fiammella al carburo. La polvere ricopriva i due volti, rendendoli simili a maschere teatrali.
"Fai vedere."
Il rosso del sangue era irreale in quel grigio mondo sotterraneo.
"Credo sia rotta."
Dita delicate tastavano la ferita. Il ragazzo urlò.
"Scusa."
L’uomo sollevò lo sguardo. Le lacrime tracciavano solchi sul volto bianco di polvere del ragazzo.
"Non è niente, non preoccuparti."
Poi guardò verso l’abisso. Parte della volta era crollata, la gola della lampreda aperta sul nulla quasi raddoppiata nelle dimensioni.
"Siamo nei guai, vero?"
Abbassò lo sguardo sulla caviglia, mentre puliva la ferita.
"Credo di si."
"Ma ce la caveremo lo stesso?"
"Si, credo di si" disse, cercando di mentire meglio che poteva.

La fiammella della torcia al carburo vacillò per l’ultima volta. Le ombre si scatenarono in un’ultima danza prima del sopraggiungere del buio. Non sapeva nemmeno quante ore fossero passate. Forse giorni. L’ultima razione era finita tempo prima. L’aveva ceduta al ragazzo, che aveva mangiato a piccoli morsi, guardando l’abisso. Lo stomaco faceva male da quanto era vuoto. Nulla in confronto al dolore che provava al pensiero di non poter salvare suo figlio.
Una mano lo sfiorò.
"Papà."
"Eccomi, sono qua."
"Ho freddo."
Si stese accanto al ragazzo, abbracciandolo.
Tremava. La fronte scottava.
Lo strinse a sé. Nel limbo senza fine dell’oscurità più totale i ricordi presero ad affiorare come tronchi alla deriva nel mare.

Fuori dalla finestra il sole splendeva, la brezza muoveva le foglie facendole cantare. Il cane abbaiava in cortile. L’uomo guardava il figlio avvolto nelle coperte, dalle quali spuntava solo la testolina bionda. Il volto era costellato di crosticine.
"Quando potrò uscire a giocare?"
Gli passò la mano tra i capelli.
"Presto."
"Quanto presto?"
"Appena starai meglio."
"Io sto bene."
"Tu stai bene, il tuo corpo no. Devi prima guarire."
Il bambino corrucciò l’espressione.
"Ma io sto bene. È estate, voglio uscire a giocare."
"Abbi pazienza, hai tutta l’estate ancora per giocare."
"Me lo prometti?"
"Te lo prometto."

Non sapeva quanto tempo avesse dormito, né da quanto fossero là sotto. Il silenzio era totale. La mente giocava brutti scherzi nel dormiveglia. Ricordi lontani si accavallavano. Si sollevò a sedere, poi realizzò il significato di quel silenzio così profondo.
Trattenne il respiro. Nemmeno un rumore. Non sapeva se la mano tremasse. Non sapeva nemmeno se fossero lacrime a bagnare il suo volto. Sfiorò il volto del ragazzo, freddo come la roccia che lo circondava.
Si sdraiò accanto a lui, circondandolo con le braccia.
"Scusami", mormorò nel buio.
Chiuse gli occhi, aggiungendo oscurità all’oscurità.

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maria rosaria
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Messaggio#9 » giovedì 27 agosto 2015, 9:15

Bello!
Il tuo racconto mi piace molto.
Devo chiedere la grazia?
Nel dubbio, chiedo la grazia per Alberto.

maria rosaria
Maria Rosaria

alexandra.fischer
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Messaggio#10 » lunedì 31 agosto 2015, 20:10

Mi associo. Così ha un grosso impatto realistico (soprattutto nei dialoghi, dalle ripetizioni volute, per rendere meglio l'idea del parlato) e lo trovo ancora di più nello spirito di Mc Carthy. Molto bravo.
Chiedo la grazia per Alberto.

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