Confronto tardivo
Inviato: lunedì 20 maggio 2019, 22:03
CONFRONTO TARDIVO
Di Alexandra Fischer
La foto di Ribiez e il suo quadro spiccavano nella vetrina della galleria d’arte: erano gli unici oggetti concreti che provavano la sua esistenza salvatisi dopo un secolo.
Io ne ero rimasta stupefatta, non riuscivo a capacitarmi del fatto che mia prozia Esme avesse avuto ragione quando mi aveva raccomandato di seguire le sue ultime volontà: vendere la casa sulla collina senza entrarvi, per nessuna ragione.
Mi è bastato vedere il dipinto per capire la sua paura: il divano a fiori con le tende bianche tese da una folata sul punto di strapparle dai sostegni della finestra e il tavolo con le sculture di due teste di cavallo dalle bocche spalancate e dalle criniere mosse dal vento.
Ho provato una sensazione di freddo intenso, quasi mi fossi trovata anch’io nella camera.
Quanto a Ribiez, era un giovane di una ventina d’anni dai lunghi capelli castani e dai grandi occhi verdi screziati di grigio dall’espressione misteriosa.
Il suo primo piano non mostrava altro di lui, ma mi bastò per indurmi ad andarmene via, nel timore che potesse uscire dalla galleria e seguirmi, che so, per un confronto tardivo.
La prozia mi diceva sempre di stare attenta a non sostare mai da sola fuori dalla casa, perché Ribiez vi scomparve da quelle parti.
Soltanto ora che sto armeggiando con la tessera elettronica da far scorrere per entrare in casa mi sto facendo passare la paura di lui: non verrà mai a cercarmi.
Sono passati cento anni dalla sua sparizione e lui di sicuro è morto già da quel giorno: il gallerista ha esposto il quadro perché oggi è il 10 maggio 2119, un anniversario davvero tetro, malgrado oggi la giornata sia splendida.
Sono le otto di sera e sembra ancora pomeriggio.
Premo il primo tasto del telecomando e la tapparella del soggiorno si alza da sola, un secondo tasto inonda la camera di sole, che illumina il computer e un’agenda cartacea avvolta in una sacca di tela.
La sua vista mi fa passare dalla curiosità al terrore: la prozia Esme l’ha conservata apposta per me.
A parte alcune fotografie dei quadri di Ribiez, c’è qualche annotazione con una grafia femminile e un ritratto a penna di una ragazza che mi somiglia molto: bruna, con la coda di cavallo alta, la frangetta e truccata con l’eye-liner.
C’è persino il titolo: Annalisa con il broncio.
Potrei quasi essere io, visto che la moda torna indietro, magari anche lei portava uno scamiciato viola ornato di margherite grigie glitter come il mio.
E così, dovrei vedere Ribiez come il sopravvissuto astioso di un’altra epoca.
Tale mi sembra dai ricordi della prozia: fu la migliore amica di una sua sorella più anziana a lasciarle la casa, definendola il teatro di un confronto tardivo da trattare con rispetto.
Ossia, fuori gli estranei.
Intanto, sono passati cento anni e nessuno ha mai riaperto la casa, immagino già la polvere e le ragnatele sugli arredi che nessuno ha mai toccato.
Prima di far perdere ogni traccia di sé, Ribiez l’aveva lasciata a quella ragazza.
L’ultimo quadro fotografato mi ha colpita molto: è un affresco sul muro che deve appartenere di certo alla casa.
Lo ha intitolato La Persistenza della Materia e rappresenta una strada che si apre lungo un tunnel illuminato da lampade che rischiarano una città lontanissima, ma che pare un trionfo di torri color pastello e grattacieli in tutte le sfumature color petrolio.
Il mio cuore perde un battito e vado a prendere la lente d’ingrandimento che la prozia ha lasciato apposta nella sacca.
Ma è Fontanilia, la mia città, com’è oggi.
Scusa, zietta, ma questa, Ribiez deve spiegarmela.
***
Prendo la linea diretta verso il quartiere residenziale in collina, dove tante villette color pistacchio modello igloo si tirano indietro rumorose davanti alla casa ocra dal tetto rosso di Ribiez.
Gli anni sono stati impietosi con l’edificio: l’intonaco scrostato, le tegole mancanti e le tapparelle scurite dalle intemperie mi rendono malinconica.
Ho in tasca la chiave, altro cimelio trovato nella sacca: l’ennesimo lascito della prozia.
Poverina, se fosse qui griderebbe, ma io voglio vedere cosa c’è nella casa.
Apro la porta e un’aria gelida mi investe, allora indietreggio.
Sento alcuni passi, ma scappo via, mentre la voce di un uomo giovane esordisce tutta allegra: − Annalisa, cosa fai? Entra. Ti spiegherò dove sono stato e tu mi perdonerai.
Piango per lui, è troppo tardi.
Di Alexandra Fischer
La foto di Ribiez e il suo quadro spiccavano nella vetrina della galleria d’arte: erano gli unici oggetti concreti che provavano la sua esistenza salvatisi dopo un secolo.
Io ne ero rimasta stupefatta, non riuscivo a capacitarmi del fatto che mia prozia Esme avesse avuto ragione quando mi aveva raccomandato di seguire le sue ultime volontà: vendere la casa sulla collina senza entrarvi, per nessuna ragione.
Mi è bastato vedere il dipinto per capire la sua paura: il divano a fiori con le tende bianche tese da una folata sul punto di strapparle dai sostegni della finestra e il tavolo con le sculture di due teste di cavallo dalle bocche spalancate e dalle criniere mosse dal vento.
Ho provato una sensazione di freddo intenso, quasi mi fossi trovata anch’io nella camera.
Quanto a Ribiez, era un giovane di una ventina d’anni dai lunghi capelli castani e dai grandi occhi verdi screziati di grigio dall’espressione misteriosa.
Il suo primo piano non mostrava altro di lui, ma mi bastò per indurmi ad andarmene via, nel timore che potesse uscire dalla galleria e seguirmi, che so, per un confronto tardivo.
La prozia mi diceva sempre di stare attenta a non sostare mai da sola fuori dalla casa, perché Ribiez vi scomparve da quelle parti.
Soltanto ora che sto armeggiando con la tessera elettronica da far scorrere per entrare in casa mi sto facendo passare la paura di lui: non verrà mai a cercarmi.
Sono passati cento anni dalla sua sparizione e lui di sicuro è morto già da quel giorno: il gallerista ha esposto il quadro perché oggi è il 10 maggio 2119, un anniversario davvero tetro, malgrado oggi la giornata sia splendida.
Sono le otto di sera e sembra ancora pomeriggio.
Premo il primo tasto del telecomando e la tapparella del soggiorno si alza da sola, un secondo tasto inonda la camera di sole, che illumina il computer e un’agenda cartacea avvolta in una sacca di tela.
La sua vista mi fa passare dalla curiosità al terrore: la prozia Esme l’ha conservata apposta per me.
A parte alcune fotografie dei quadri di Ribiez, c’è qualche annotazione con una grafia femminile e un ritratto a penna di una ragazza che mi somiglia molto: bruna, con la coda di cavallo alta, la frangetta e truccata con l’eye-liner.
C’è persino il titolo: Annalisa con il broncio.
Potrei quasi essere io, visto che la moda torna indietro, magari anche lei portava uno scamiciato viola ornato di margherite grigie glitter come il mio.
E così, dovrei vedere Ribiez come il sopravvissuto astioso di un’altra epoca.
Tale mi sembra dai ricordi della prozia: fu la migliore amica di una sua sorella più anziana a lasciarle la casa, definendola il teatro di un confronto tardivo da trattare con rispetto.
Ossia, fuori gli estranei.
Intanto, sono passati cento anni e nessuno ha mai riaperto la casa, immagino già la polvere e le ragnatele sugli arredi che nessuno ha mai toccato.
Prima di far perdere ogni traccia di sé, Ribiez l’aveva lasciata a quella ragazza.
L’ultimo quadro fotografato mi ha colpita molto: è un affresco sul muro che deve appartenere di certo alla casa.
Lo ha intitolato La Persistenza della Materia e rappresenta una strada che si apre lungo un tunnel illuminato da lampade che rischiarano una città lontanissima, ma che pare un trionfo di torri color pastello e grattacieli in tutte le sfumature color petrolio.
Il mio cuore perde un battito e vado a prendere la lente d’ingrandimento che la prozia ha lasciato apposta nella sacca.
Ma è Fontanilia, la mia città, com’è oggi.
Scusa, zietta, ma questa, Ribiez deve spiegarmela.
***
Prendo la linea diretta verso il quartiere residenziale in collina, dove tante villette color pistacchio modello igloo si tirano indietro rumorose davanti alla casa ocra dal tetto rosso di Ribiez.
Gli anni sono stati impietosi con l’edificio: l’intonaco scrostato, le tegole mancanti e le tapparelle scurite dalle intemperie mi rendono malinconica.
Ho in tasca la chiave, altro cimelio trovato nella sacca: l’ennesimo lascito della prozia.
Poverina, se fosse qui griderebbe, ma io voglio vedere cosa c’è nella casa.
Apro la porta e un’aria gelida mi investe, allora indietreggio.
Sento alcuni passi, ma scappo via, mentre la voce di un uomo giovane esordisce tutta allegra: − Annalisa, cosa fai? Entra. Ti spiegherò dove sono stato e tu mi perdonerai.
Piango per lui, è troppo tardi.