Le unghie nella carne - Francesco Cristaudo
Inviato: lunedì 19 agosto 2019, 23:52
Le unghie nella carne – Francesco Cristaudo
Ti abbiamo concepita una notte d’inverno, con la neve fuori dalle finestre e la prospettiva di un’altra giornata di lavoro la mattina seguente. Siamo quasi otto miliardi, eppure siamo condannati a incontrare sempre le stesse facce, le stesse storie ripetute ossessivamente.
Sei stata un’epifania. Ci stavi liberando dall’eterna ripetizione, dalla routine sfrenata della sopravvivenza, divisa tra l’ufficio, il supermercato e le cene di lavoro.
Se quel giorno tua madre non mi avesse fatto vedere il test con su scritto “incinta” non ci avrei mai creduto. Non perché usassimo protezioni. Piuttosto era una sensazione, come di aridità. Avevo la gola secca mentre osservavo quella piccola parola che ci annunciava in maniera discreta la tua venuta al mondo. Nessun dubbio, niente lineette, falsi positivi o falsi negativi. Te ne stavi lì, in quelle sette lettere, nel grembo di tua madre.
Già allora non mi appartenevi, avrei dovuto capirlo, ero stato solo un tramite, avevo innestato il divino nel mondo e lo avevo reso visibile e mortale. Avevi smesso di essere un’idea e ti eri tramutata in un insieme di cellule che avrebbero respirato la mia stessa aria, calpestato la mia stessa terra e visto gli stessi paesaggi. Ti ho resa fragile, vulnerabile, ti ho esposto ai dolori del mondo, alle sue catastrofi, ai ghiacciai che si sciolgono, al fuoco che brucia le foreste, che consuma l’ossigeno, che ci fa avvizzire, ritorcere su noi stessi, e ai cambiamenti climatici, agli allevamenti intensivi, ai terremoti, alle balene spiaggiate con tonnellate di plastica nell’intestino, e alle rapine e agli omicidi, alla violenza dei forti sui deboli e quella dei deboli sui più deboli.
Quando tua nonna mi stringe la mano non mi muovo; sono una statua. La sala si anima, ti afferrano per i piedi, provano a tirarti fuori. Il sangue, le grida, le unghie nella carne. Non sento niente.
È bastato così poco. Il cordone attorno al collo. L’ossigeno smette di arrivare al cervello. Le cellule smettono di funzionare. Basta così poco a impedirti di vedere la luce, le stelle, l’alba e il tramonto, a negarti il primo innamoramento, il primo bacio, la tua prima volta a letto con qualcuno, non vedrai la nonna, né la mamma, e non vedrai l’America, la Cina o la Russia, la Tour Eiffel, il Colosseo o le piramidi, e non saprai cosa vuol dire buttarsi nella neve, ridere, piangere, ridere e piangere insieme, e non ti accompagnerò all’altare, né al tuo primo giorno di scuola, e non vedrai il mare, e non vedrai mai il sorriso di tuo figlio.
Prima di te ero niente. Ora che non ci sei sono meno di niente, sono finito.
Ti abbiamo concepita una notte d’inverno, con la neve fuori dalle finestre e la prospettiva di un’altra giornata di lavoro la mattina seguente. Siamo quasi otto miliardi, eppure siamo condannati a incontrare sempre le stesse facce, le stesse storie ripetute ossessivamente.
Sei stata un’epifania. Ci stavi liberando dall’eterna ripetizione, dalla routine sfrenata della sopravvivenza, divisa tra l’ufficio, il supermercato e le cene di lavoro.
Se quel giorno tua madre non mi avesse fatto vedere il test con su scritto “incinta” non ci avrei mai creduto. Non perché usassimo protezioni. Piuttosto era una sensazione, come di aridità. Avevo la gola secca mentre osservavo quella piccola parola che ci annunciava in maniera discreta la tua venuta al mondo. Nessun dubbio, niente lineette, falsi positivi o falsi negativi. Te ne stavi lì, in quelle sette lettere, nel grembo di tua madre.
Già allora non mi appartenevi, avrei dovuto capirlo, ero stato solo un tramite, avevo innestato il divino nel mondo e lo avevo reso visibile e mortale. Avevi smesso di essere un’idea e ti eri tramutata in un insieme di cellule che avrebbero respirato la mia stessa aria, calpestato la mia stessa terra e visto gli stessi paesaggi. Ti ho resa fragile, vulnerabile, ti ho esposto ai dolori del mondo, alle sue catastrofi, ai ghiacciai che si sciolgono, al fuoco che brucia le foreste, che consuma l’ossigeno, che ci fa avvizzire, ritorcere su noi stessi, e ai cambiamenti climatici, agli allevamenti intensivi, ai terremoti, alle balene spiaggiate con tonnellate di plastica nell’intestino, e alle rapine e agli omicidi, alla violenza dei forti sui deboli e quella dei deboli sui più deboli.
Quando tua nonna mi stringe la mano non mi muovo; sono una statua. La sala si anima, ti afferrano per i piedi, provano a tirarti fuori. Il sangue, le grida, le unghie nella carne. Non sento niente.
È bastato così poco. Il cordone attorno al collo. L’ossigeno smette di arrivare al cervello. Le cellule smettono di funzionare. Basta così poco a impedirti di vedere la luce, le stelle, l’alba e il tramonto, a negarti il primo innamoramento, il primo bacio, la tua prima volta a letto con qualcuno, non vedrai la nonna, né la mamma, e non vedrai l’America, la Cina o la Russia, la Tour Eiffel, il Colosseo o le piramidi, e non saprai cosa vuol dire buttarsi nella neve, ridere, piangere, ridere e piangere insieme, e non ti accompagnerò all’altare, né al tuo primo giorno di scuola, e non vedrai il mare, e non vedrai mai il sorriso di tuo figlio.
Prima di te ero niente. Ora che non ci sei sono meno di niente, sono finito.