La fine è un nuovo inizio di Emiliano Maramonte
Inviato: martedì 20 agosto 2019, 1:33
Gli ingegneri
«Dobbiamo sterilizzarla ancora?» domandò Volkron Ritlek al collega, scrutando il globo dal colore malsano che ruotava sotto la Stazione Spaziale.
«Il Comitato Scientifico ha dibattuto a lungo su questo punto» rispose Volkreen Ketlek, annuendo col testone glabro e coriaceo. «È la prima volta in diecimila anni che interveniamo due volte, ma è necessario. La razza umana non ha saputo fare tesoro di questa seconda possibilità che le abbiamo concesso. Dobbiamo procedere.»
«Bizzarro, però: terraformare un pianeta che era già… terraformato.»
«Caso più unico che raro, in effetti. Mai vista tanta indolenza concentrata in un’unica razza.»
Nella sala, piena di operatori e apparecchiature, c’era un brusio di fondo insistente e fastidioso. L’attività della Stazione era frenetica. Si stava per prendere una decisione cruciale per quel pianeta.
«Avete evacuato le ultime forme di vita?» chiese Volkron.
«Affermativo. Il protocollo è stato rispettato» rispose il collega.
«Signore…» chiamò all’improvviso un addetto al bioscanner di superficie.
Volkreen si voltò interdetto. «Che succede, operatore?»
«È strano» spiegò l’altro, «abbiamo un contatto da un punto del continente che un tempo chiamavano Europa. Eppure dovrebbe esserci solo silenzio.»
«Che segnale?» chiese Volkreen.
«Una forma di vita.»
I due Ingegneri si scambiarono un’occhiata preoccupata. Bisognava mandare qualcuno a investigare e a prelevare chiunque fosse rimasto in superficie prima della sterilizzazione, prima della nuova fine del pianeta.
«Convocate Volkuran. E subito» pretese Volkron.
L’emissario
La capsula suborbitale fendette le nuvole grigie e gonfie e sfrecciò verso la superficie della Terra. La metropoli abbandonata era sferzata da una tempesta di neve. Volkuran manovrò con difficoltà, combattendo contro le rabbiose raffiche di vento, e riuscì ad adagiare il velivolo sul terreno accidentato. Indossò la tuta e scese alla volta del suo obiettivo.
Il bioscanner bippava il segnale dell’essere vivente con insistenza, suggerendo che si trovasse lì vicino.
Tra gli enormi edifici corrosi e diroccati, Volkuran individuò una costruzione bassa e disadorna. Incredibilmente, nell’arida desolazione che lo circondava, risaltava una macchia di verde, un’area di rigogliosa vegetazione. Si avvicinò con cautela, il bioscanner che aumentava il ritmo delle pulsazioni.
Era un’abitazione edificata con mezzi di fortuna: fango, malta, pietre e paglia. Intorno spiccavano piante e fiori, ma non si vedeva ancora nessun essere vivente.
Continuò ad avanzare e nel frattempo comunicava con la Stazione specificando che il segnale registrato dai sensori non era altro che un errore strumentale. Eppure… La sua esperienza gli suggeriva che l’evacuazione non era stata totale. Qualcuno era sfuggito al prelievo da parte delle pattuglie di ricerca.
Volkuran intravide un movimento. Aveva un’arma con sé, ma decise di non usarla in ogni caso. Lui era fondamentalmente uno scienziato e gli scienziati sono contro la violenza. Sempre.
Raggiunse il prato e si soffermò ad ammirare la bellezza di quei colori vegetali fuori luogo, poi colse un altro movimento. Attivò l’altoparlante esterno. «C’è qualcuno?»
Comparve un cucciolo di uomo… una bambina. Aveva una nuvola di capelli attorno alla testa, il viso sozzo e un’espressione intimorita. Lui provò ad avvicinarsi, cercando di non impaurirla di più. Le tese la mano guantata. «Sono tuo amico.» disse. Sapeva che il suono della voce le sarebbe parso alieno, ma il traduttore faceva del suo meglio e lui si sforzava di mostrarsi amichevole.
«Mio papà mi ha detto che siete cattivi» rivelò la bambina.
«Missione» comunicò Volkuran, «ci sono ancora esseri umani sulla superficie. Contatto visivo, ripeto, contatto visivo. Forse ci sono altri individui qui con lei.» Poi si rivolse alla bambina. «Come ti chiami?»
«Anna.»
«Bene, Anna. Puoi dirmi dov’è il tuo papà? Devo portarvi via da qui. Fra poco cadrà dal cielo tanto fuoco…»
«Si sciolsero i ghiacciai e ci furono tempeste e uragani. E caddero le città. Cambiarono molte cose. La colpa fu nostra. Poi arrivaste voi, e decideste il nostro destino» disse un’altra voce. Dalla porta della catapecchia emerse un uomo ingrigito e sofferente, vestito di stracci. «Non vi avevamo chiesto niente, solo di restare sul nostro pianeta. Ma ci avete portato via. Sapevamo noi cosa fare.»
Volkuran capì che l’uomo aveva un’arma tra le mani. «Vi abbiamo salvato. E lo faremo ancora, ma voi non capite. Ogni fine è un nuovo inizio.»
«Lasciateci in pace» concluse l’uomo. «E lasciate in pace mia figlia.» Puntò l’arma contro l’Emissario.
«Venite con me. Il Comitato ha deciso. Vi salverete. Rigenereremo la Terra, e sarà di nuovo vostra.» insistette Volkuran.
L’uomo fece un cenno alla figlia e disse: «Anna, torna dentro.»
«Siete ancora in tempo» disse Volkuran.
«Maledetti pesci lessi!» lo insultò lo sconosciuto. E sparò.
Un dolore indicibile esplose in petto a Volkuran.
La vista gli si annebbiò.
La sterilizzazione del pianeta era necessaria.
Lo comunicò agli Ingegneri in orbita.
L’uomo alzò gli occhi al cielo. Rientrò a riabbracciare la figlia.
Un oceano di fuoco incendio l’atmosfera.
«Dobbiamo sterilizzarla ancora?» domandò Volkron Ritlek al collega, scrutando il globo dal colore malsano che ruotava sotto la Stazione Spaziale.
«Il Comitato Scientifico ha dibattuto a lungo su questo punto» rispose Volkreen Ketlek, annuendo col testone glabro e coriaceo. «È la prima volta in diecimila anni che interveniamo due volte, ma è necessario. La razza umana non ha saputo fare tesoro di questa seconda possibilità che le abbiamo concesso. Dobbiamo procedere.»
«Bizzarro, però: terraformare un pianeta che era già… terraformato.»
«Caso più unico che raro, in effetti. Mai vista tanta indolenza concentrata in un’unica razza.»
Nella sala, piena di operatori e apparecchiature, c’era un brusio di fondo insistente e fastidioso. L’attività della Stazione era frenetica. Si stava per prendere una decisione cruciale per quel pianeta.
«Avete evacuato le ultime forme di vita?» chiese Volkron.
«Affermativo. Il protocollo è stato rispettato» rispose il collega.
«Signore…» chiamò all’improvviso un addetto al bioscanner di superficie.
Volkreen si voltò interdetto. «Che succede, operatore?»
«È strano» spiegò l’altro, «abbiamo un contatto da un punto del continente che un tempo chiamavano Europa. Eppure dovrebbe esserci solo silenzio.»
«Che segnale?» chiese Volkreen.
«Una forma di vita.»
I due Ingegneri si scambiarono un’occhiata preoccupata. Bisognava mandare qualcuno a investigare e a prelevare chiunque fosse rimasto in superficie prima della sterilizzazione, prima della nuova fine del pianeta.
«Convocate Volkuran. E subito» pretese Volkron.
L’emissario
La capsula suborbitale fendette le nuvole grigie e gonfie e sfrecciò verso la superficie della Terra. La metropoli abbandonata era sferzata da una tempesta di neve. Volkuran manovrò con difficoltà, combattendo contro le rabbiose raffiche di vento, e riuscì ad adagiare il velivolo sul terreno accidentato. Indossò la tuta e scese alla volta del suo obiettivo.
Il bioscanner bippava il segnale dell’essere vivente con insistenza, suggerendo che si trovasse lì vicino.
Tra gli enormi edifici corrosi e diroccati, Volkuran individuò una costruzione bassa e disadorna. Incredibilmente, nell’arida desolazione che lo circondava, risaltava una macchia di verde, un’area di rigogliosa vegetazione. Si avvicinò con cautela, il bioscanner che aumentava il ritmo delle pulsazioni.
Era un’abitazione edificata con mezzi di fortuna: fango, malta, pietre e paglia. Intorno spiccavano piante e fiori, ma non si vedeva ancora nessun essere vivente.
Continuò ad avanzare e nel frattempo comunicava con la Stazione specificando che il segnale registrato dai sensori non era altro che un errore strumentale. Eppure… La sua esperienza gli suggeriva che l’evacuazione non era stata totale. Qualcuno era sfuggito al prelievo da parte delle pattuglie di ricerca.
Volkuran intravide un movimento. Aveva un’arma con sé, ma decise di non usarla in ogni caso. Lui era fondamentalmente uno scienziato e gli scienziati sono contro la violenza. Sempre.
Raggiunse il prato e si soffermò ad ammirare la bellezza di quei colori vegetali fuori luogo, poi colse un altro movimento. Attivò l’altoparlante esterno. «C’è qualcuno?»
Comparve un cucciolo di uomo… una bambina. Aveva una nuvola di capelli attorno alla testa, il viso sozzo e un’espressione intimorita. Lui provò ad avvicinarsi, cercando di non impaurirla di più. Le tese la mano guantata. «Sono tuo amico.» disse. Sapeva che il suono della voce le sarebbe parso alieno, ma il traduttore faceva del suo meglio e lui si sforzava di mostrarsi amichevole.
«Mio papà mi ha detto che siete cattivi» rivelò la bambina.
«Missione» comunicò Volkuran, «ci sono ancora esseri umani sulla superficie. Contatto visivo, ripeto, contatto visivo. Forse ci sono altri individui qui con lei.» Poi si rivolse alla bambina. «Come ti chiami?»
«Anna.»
«Bene, Anna. Puoi dirmi dov’è il tuo papà? Devo portarvi via da qui. Fra poco cadrà dal cielo tanto fuoco…»
«Si sciolsero i ghiacciai e ci furono tempeste e uragani. E caddero le città. Cambiarono molte cose. La colpa fu nostra. Poi arrivaste voi, e decideste il nostro destino» disse un’altra voce. Dalla porta della catapecchia emerse un uomo ingrigito e sofferente, vestito di stracci. «Non vi avevamo chiesto niente, solo di restare sul nostro pianeta. Ma ci avete portato via. Sapevamo noi cosa fare.»
Volkuran capì che l’uomo aveva un’arma tra le mani. «Vi abbiamo salvato. E lo faremo ancora, ma voi non capite. Ogni fine è un nuovo inizio.»
«Lasciateci in pace» concluse l’uomo. «E lasciate in pace mia figlia.» Puntò l’arma contro l’Emissario.
«Venite con me. Il Comitato ha deciso. Vi salverete. Rigenereremo la Terra, e sarà di nuovo vostra.» insistette Volkuran.
L’uomo fece un cenno alla figlia e disse: «Anna, torna dentro.»
«Siete ancora in tempo» disse Volkuran.
«Maledetti pesci lessi!» lo insultò lo sconosciuto. E sparò.
Un dolore indicibile esplose in petto a Volkuran.
La vista gli si annebbiò.
La sterilizzazione del pianeta era necessaria.
Lo comunicò agli Ingegneri in orbita.
L’uomo alzò gli occhi al cielo. Rientrò a riabbracciare la figlia.
Un oceano di fuoco incendio l’atmosfera.