Il machete
Inviato: martedì 10 settembre 2019, 17:49
La situazione peggiore di tutte. Non so se mi capite. Essere un ostaggio è già una merda, se poi lo siete del peggior coglione in circolazione, è anche peggio. Ho sentito di qualcuno che s'innamora del proprio carceriere. Quella roba della sindrome di... di Sbaviera, di Stoccarda... di Stocazzo. Insomma, non ricordo il nome, ma per me non è stato così. Forse non ne ho avuto il tempo, ma anche se fossi stata lì dentro con Otto per un anno...
Capite? Otto Fischer, l'imbecille che sui muri si taggava con “C∞l” rovesciando l'otto. Diceva che Otto sdraiato è come l'infinito. I maschi e i loro uccelli...
Si faceva chiamare Cool Eight, ma, ovviamente, non ci è voluto niente per trasformarlo in “Culotto”. Coglione.
E, solo per avermela leccata una volta, credeva che fossi la sua ragazza. E guai a chi lo contraddiceva, quell'inutile figlio di puttana. Era amico della peggio feccia di Bolzano. Gli Albanesi lo hanno sempre difeso. Avete presente? Come se fosse un fratellino ritardato: maledici il giorno che è nato ogni volta che ti si mette vicino, ma guai a chi lo tocca.
E così, qualcuno deve aver messo della ketamina o altra roba simile nel mio chupito e mi sono svegliata nella sala prove più puzzolente e lercia che abbia mai visto, con una catena alla caviglia. Porco cazzo, sembrava di stare in uno di quei film splatter da psicopatici! Non chiedetemi perché in quella sala prove c'è una catena attaccata al muro! Lì non provano solamente, questo è poco ma sicuro.
Era una sala abbastanza spaziosa, con un sacco di poster ai muri, illuminata da lunghe strisce di led che pendevano dal soffitto assieme a dei dischi di gommapiuma. Divanetti, puzza di marijuana e tutto quello che ci si può aspettare da un luogo del genere. Sarebbe stato un posto figo, se non fosse che ero drogata e incatenata in compagnia di quell'omino grasso, brutto e stupido che era Culotto.
Stava in piedi davanti a me. La mia borsetta era sull'angolo di un tavolo. Ad un certo punto il ciccione ha tirato fuori il mio telefono. Mi ha guardato con quella faccia flaccida e pelosa, gli occhietti da maiale e quell'espressione da koala compiaciuto. Appena è stato sicuro che mi fossi ripresa, ha spaccato il mio smartphone con un martello più grosso di un panino.
Già questo è stato un durissimo colpo, ve lo lascio immaginare. Poi si è messo a sorridere e a leccarsi quei lumaconi che aveva al posto delle labbra. Allora ho visto che dietro di lui, al tavolo, aveva fissato una di quelle morse da meccanico. Dentro c'era un machete che sporgeva oltre il bordo con la lama rivolta verso l'alto.
Un cazzo di machete! Dico io: dove la trovi quella merda qui a Bolzano? Cioè, che cazzo sei, in Vietnam? Comunque non è stato il mio primo pensiero, ovviamente. Ho pensato che mi ci spellasse o roba così.
Piangevo, mentre lui ha cominciato ad affilare quell'affare con una pietra. Solo che non era una pietra per affilare, ma una pietra pomice. Di quelle che usano le nonne per grattarsi i calli.
Dio, che coglione. Ne ha sempre fatte di cose stupide. Io ero nella sua stessa scuola alle medie e, un anno, per farla pagare a una professoressa che, secondo lui, l'aveva fatto bocciare, aveva deciso di coprirle l'auto di merda. Così aveva cominciato a farla in un secchio tutti i giorni per raggiungere una quantità soddisfacente. E, per essere più vicino, la faceva a scuola. In un bagno della palestra. Lo hanno beccato per la puzza mentre cagava durante l'ora di ginnastica. Quando lo hanno trovato sopra un secchio con sei chili di merda e gli hanno chiesto cosa stesse facendo, lui ha risposto che non stava bene e che l'aveva fatta tutta durante quell'unica seduta. Tutti quelli della mia età si ricordano questa storia.
O di quella volta che voleva fare il culo a un ragazzo di qualche anno più piccolo e gli aveva chiesto l'indirizzo. Quello gli aveva detto di abitare a Rovereto e Culotto c'è andato in treno. Ovviamente era una palla: chi darebbe un indirizzo vero a uno che lo minaccia?
Lo scemo ha cercato la casa per tutta la sera, poi ha passato la notte in stazione prima che ci fosse un treno che lo riportasse a casa. E ce ne sarebbero decine di storie così.
«Ehi, Otto. Che cazzo ci faccio qui?» gli ho chiesto.
«Sei qui per pagare il conto, stronza» mi ha risposto. «Ho una gran voglia di farti a fettine, ma se sarai gentile forse non ti farò nulla.»
Poi ha aperto la scatola di un ristorante d'asporto e ha tirato fuori una salsiccia. Un odore di würstel e crauti ha invaso la stanza. Ha cominciato a passare il salsicciotto sulla lama facendolo a fette. Era davvero affilata, ma non penso fosse merito suo e della sua pietra per i duroni.
«Fai tutto questo per una scopata?» ho chiesto.
Lì per lì non mi sono resa conto di quanto suonasse “disponibile” quella frase. Un po' come dire: “bastava chiedere” e invece no, cazzo! Non bastava chiedere!
«No, ti voglio punire perché ho sentito cose che non mi sono piaciute» ha detto.
«Che cosa?»
«Che mi hai tradito.»
«Cristo, Otto!» Ho sbottato. « Noi non stiamo insieme».
«Ora no di sicuro, ma sono io che ti lascio!» ha gridato lui.
Credo d'aver scosso il capo. Che cazzo di logica...
«Invece sì, brutta puttana!» ha ripreso l'idiota. «Ma prima voglio lasciarti un ricordino di Cool Eight! Anzi, te ne lascerò parecchi: abbiamo tempo fino a venerdì sera. Poi ho le prove con la mia band».
Vi rendete conto?
Comunque avevo paura di quel machete. Penso che gliel'avrei anche data. Non credo che ci sia qualcuno che non accetterebbe di fare un pompino o roba così, in cambio di smettere di essere terrorizzati a quel modo.
«Otto, va bene» ho detto. «Liberami da questa catena e sarò gentile.»
Lui ha sorriso e si è buttato in bocca il resto del würstel. Ha dato un ultimo colpo alla lama con la pietra pomice e ha tirato una bestemmia feroce prendendosi la mano.
Il coglione si era tagliato via un pezzo di mignolo. Ha cominciato a sgocciolare per terra e si è allontanato dietro una specie di paravento. Dopo un po' è ricomparso col ditino fasciato e un mazzo di chiavi in mano.
«Tutto bene, bro. Ora si scopa» mi ha detto.
“Bro”, capito?
Mi sono sforzata di sorridere e lui ha cominciato ad avanzare dondolando il bacino in modo ridicolo. Pensava di essere sexy.
E poi è successo.
In quel momento è scivolato sul suo sangue ed è caduto in avanti. Il mazzo di chiavi è volato all'indietro e la sua testa di cazzo ha battuto contro la lama del machete. Quando ho sentito il tonfo, uno spruzzo di cervello e sangue è schizzato verso di me assieme ad una ciotola di cranio e capelli. Giuro su Dio. Mi sono messa a gridare come una scema per cinque minuti e ho pure vomitato. Penso di aver pianto per ore, poi mi sono addormentata.
Quando mi sono svegliata non avevo idea di quanto avessi dormito. C'era una mosca che volava tra i pezzettini di cervello che stavano sdraiati nella pozza di sangue come delle bollicine di detersivo per pavimenti. Da dove cazzo era entrata?
Non vi descrivo la puzza orrenda che c'era.
Pensate che sia tutta una stronzata? Se avessero raccolto scommesse sulla morte di Culotto, penso che la voce “ammazzarsi da solo mentre cerca di scopare” sarebbe stata una delle più votate.
Comunque, il mio orologio segnava “martedì”. Mi scappava la pipì e avevo fame e sete. Venerdì sera sarebbero arrivati gli amici di Culotto, ma mancava troppo tempo: sarei certamente morta.
Ho cominciato a pensare a come uscire da quella situazione disperata e mi è venuto in mente il telefono distrutto. Io non avevo un cellulare, ma l'idiota morto per terra sì.
Mi allungai per afferrarlo e tirarlo verso di me, ma riuscivo a malapena ad accarezzargli la testa, proprio sul buco. Era viscido e non riuscivo a prenderlo per tirarlo verso di me. Ho sforzato la catena fino a farmi male, ma niente.
Ho notato che la pietra pomice mi era rotolata vicino, così ho avuto un'idea. L'ho presa e ho cominciato a sfregarla contro la catena. Non per liberarmi, ovviamente, ma per modellarla. Dopo una mezzora avevo una sorta di gancetto di spugna dura. Mi sono sentita Macgyver!
Ho infilato la pietra nel buco del cranio di Culotto, spinto i resti di cervello che c'erano dentro e gli ho agganciato il bordo dell'osso. Ho trattenuto diversi sforzi di vomito, anche perché non avevo proprio nulla da rimettere. Era pesante il bastardo, ma sono riuscita ad avvicinarlo un po' prima che il mio attrezzo preistorico si spezzasse. Poi ho allungato una mano e l'ho afferrato per le narici. L'ho trascinato vicino, ho frugato le sue tasche e... bingo! Avevo un cellulare.
Bingo un cazzo, era tanto scarico che manco s'accendeva. Però c'era una presa di corrente vicino a dove mi trovavo e io avevo un caricatore nella borsa. A guardarlo mi sembrava che il telefono del ciccione fosse compatibile, così mi sono levata i pantaloni e una scarpa. L'ho legata coi lacci al fondo dei jeans e ho cominciato a lanciarla verso la borsetta, finché sono riuscita a farla cadere e a trascinarla verso di me. Il cavo del mio smartphone era compatibile con quello di Otto. Ho pensato: “Finalmente un po' di fortuna”.
Ho messo il telefono a caricare e intanto mi sono appoggiata al muro riflettendo sul perché mi trovassi in una situazione del genere. Alla fine mia mamma aveva avuto ragione. Quella era la parte peggiore. Per tutta l'adolescenza ha cercato di spronarmi a fare la seria, a smettere di bere, di drogarmi e di andare con tutti quelli che avevano un bel taglio di capelli.
Che cazzo, io mi volevo solo divertire, ma mi sono guardata intorno e, per la prima volta, ho pensato di essere una vera merda. Ma ormai...
Appena il telefono è stato abbastanza carico ho provato ad accenderlo. Pin. Vacca troia!
Ovvio che ci fosse un pin. Mi è venuto mal di testa dal nervoso, ma mi sono calmata e ho cominciato a rifletterci sopra. Quel coglione di Culotto non doveva avere un codice difficile da ricordare, vi pare? Indovinate. È bastato inserire quattro volte l'8.
Naturalmente, come tutti quelli nati negli anni '90, non conosco un solo numero di telefono a memoria. Che cazzo ricordo a fare un numero di dieci cifre se lo fa il telefono al posto mio?
Non avevo voglia di chiamare la polizia, anche perché gli Albanesi l'avrebbero saputo e... insomma, Culotto era il peggiore di tutti, ma non il più cattivo.
Però l'ho chiamata. Che potevo fare? Lo sbirro al telefono mi ha chiesto dov'ero.
«E io che ne so?» ho detto.
E lui: «Sicura che non sia uno scherzo?»
Ma vaffanculo, cazzo.
Poi mi ha detto: «Provi a scoprire dove si trova con la geolocalizzazione».
Non ci ho pensato abbastanza e ho messo giù. Poi ho capito che avrei dovuto chiedere come cazzo fare, perché non ne avevo idea. Ho visto sulla home del telefono l'app che Culotto aveva usato per ordinare da mangiare. Quei crauti... puzzavano ancora sopra l'odore del sangue, ma con la fame che avevo me li sarei divorati.
Comunque, vuoi la sete, lo shock e tutto il resto, ho avuto un'idea. Col senno di poi, un'idea di merda: ho ordinato una pizza.
Ho pensato che il ragazzo delle consegne mi avrebbe trovato perché l'app comunicava la mia posizione. Mi avrebbe dato da mangiare, da bere, mi avrebbe liberato e avrebbe chiamato un'ambulanza, la polizia o... qualcuno, insomma.
È arrivato dopo venticinque minuti. Un successo secondo l'app.
Dopo un po' di tentativi per trovarmi, il tipo mi ha telefonato. Ho pensato di non spaventarlo, così ho detto solo di scendere, perché ero in una sala prove.
«Se trovi chiuso spingi. Spingi forte» ho detto.
Cazzo, non potevo dirgli “sfonda la porta”! Quello scappava. Ma era tutto aperto, ci credereste? Quel coglione di Otto Fischer, lo scemodimmerda, aveva lasciato tutto aperto.
Il tipo è entrato. Era un magrebino bassotto con i capelli pettinati da un lato. «C'è nessuno? Pizza!»
«Sono qui» ho detto cercando di sembrare tranquilla.
Non sapevo cos'avrebbe fatto vedendomi incatenata con gli occhi gonfi di pianto, sangue dappertutto e un cadavere sdraiato davanti a me. Confesso che la cosa che temevo di più era che non mi desse da mangiare. Lo so, sembra una stronzata, ma avevo davvero, davvero fame. E sete.
La pipì invece l'avevo fatta da un bel po', ma tanto, tra sangue e crauti, non si sentiva nessun altro odore. Anche il tipo si è lamentato della puzza, poi mi ha visto.
«Ciao, bello. Puoi passarmi le chiavi che sono lì sul pavimento?» gli ho detto.
Gli ho indicato il mazzo che era caduto a Culotto e lui lo ha raccolto. Mi guardava a bocca aperta, senza capire un cazzo.
«Sai com'è» ho provato a dire, «stavamo facendo un giochino. Mi dai le chiavi? E la pizza, per favore».
Quello ha annuito ed è venuto verso di me sorridendo come un idiota. Mi ero dimenticata di essere senza pantaloni e il tipo fissava il mio tanga bordeaux. Ecco perché era così distratto.
Ha capito che Culotto era cadavere quando gli si è trovato sopra. Ha urlato e, cercando di scavalcarlo, è inciampato nei suoi piedi e ha perso l'equilibrio. Ha fatto per tenersi al tavolo con la mano che reggeva la pizza e...
Beh, l'ha persa quella cazzo di mano. Si è buttato di peso sul machete e “zac”!
La mano è caduta a terra con la scatola della pizza ancora sopra, e il moncherino ha cominciato a spruzzare sangue come un rubinetto aperto. Ha imbrattato tutto.
Ci siamo messi a urlare. Lui per il male e lo spavento, immagino. Io perché mi stava riempiendo la pizza di sangue. Gli gridavo: «Dammi le chiavi! Dammi quelle cazzo di chiavi, porca troia!»
Ma quello pensava solo a spegnersi lentamente. Ha barcollato verso di me, poi si è appoggiato col petto al tavolo ed è rimasto lì.
Cristo, che frustrazione!
Ho aperto la scatola della pizza. Era piena di sangue. Era entrato dai forellini laterali e dalla fessura lasciata dal coperchio.
Vi giuro che non lo farei normalmente, ma ho preso due fette, le ho chiuse a panino e le ho ficcate in bocca. Appena ho sentito il sapore del sangue ho sputato tutto e mi è venuto di nuovo da vomitare. Ho cominciato a piangere.
Vi giuro che non è una cosa razzista.
In quel momento ho pensato di trovarmi ancora più nella merda. Avevo due cadaveri e qualcosa come trenta litri di sangue nella stanza. Non so quanti erano davvero. Quanto sangue c'è in un uomo?
Vabbè, ero esausta. Però sapevo dov'erano le chiavi della mia cazzo di catena: nella mano semichiusa del magrebino sdraiato contro il tavolo.
La mano in questione penzolava oltre il bordo. Provai ad allungarmi il più possibile, ma non ci arrivavo. Per poco, ma non ci arrivavo.
Ho preso le fette della pizza e ho cominciato a tirarle contro il braccio del morto per farlo oscillare, ma non erano abbastanza pesanti. Ho bevuto il tè freddo che era rotolato fino a me, ma non avrei dovuto farlo, perché anche la lattina vuota era troppo leggera.
Ho tirato l'unica scarpa che avevo e ha funzionato, ma non abbastanza, così, per ultima, ho buttato la mano mozzata del tipo, e il braccio penzolante ha oscillato un pochino di più. Mi sono allungata e ho afferrato le dita del ragazzo della pizza appena in tempo.
Ho preso le chiavi e ho aperto la catena.
All'inizio zoppicavo, mi faceva male la caviglia e mi sentivo di merda.
Ho mangiato tutti i crauti freddi e mollicci. Nella sala poi ho trovato delle patatine scadute e c'era un lavandino. Le ho mangiate, ho bevuto e sono scappata fuori in mutande. Ho preso un autobus e sono andata a casa. Volevo consegnare il cellulare di Otto, ma me l'hanno preso gli Albanesi.
Tutto qui.
Il tenente Pinna guardò la ragazza seduta oltre la sua scrivania rimanendo in silenzio per qualche istante, poi osservò il carabiniere al pc che, finito di scrivere, gli lanciò un'occhiata scettica.
Il comandante scosse il capo, si passò una mano sul mento e sospirò. «È difficile mandare giù una storia del genere.»
«Eppure è tutto vero.»
«E quand'è che lei ha preso in mano il machete? Questo non me l'ha raccontato.»
«Perché non l'ho mai fatto.»
«Ci sono le sue impronte sul manico.»
La ragazza sorrise giocando con le punte rosa dei suoi lunghi capelli dorati. «Otto deve avermelo messo in mano mentre ero svenuta. Non c'è altra spiegazione. Chissà cos'altro mi avrà fatto.»
«Già». L'ufficiale sbuffò, poi si allungò sulla sedia. «Lo sa che il ragazzo della pizza faceva parte di un gruppo malavitoso nordafricano? Ora è cominciata una faida tra loro e gli Albanesi. Inoltre in internet c'è una canzone di Fischer che accusa in modo pesante il sindaco. L'ha sentita?»
«No.»
«Io l'ho sentita» disse il carabiniere.
Pinna lo ignorò e riprese: «Beh, dopo la sua morte sta diventando virale e pare che Plattner si dimetterà. Quell'Otto Fischer non ha mai fatto così tanti danni nemmeno da vivo.»
La ragazza fece spallucce. «Posso andare?»
«Sì, ma potrei doverla risentire.»
«Ha preso appunti, no?» disse lei indicando il militare al pc. «Perché ne ho le palle piene di questa storia».
«Li abbiamo presi, sì. Ma lei rimanga comunque disponibile.»
La bionda era quasi uscita quando Pinna la richiamò. «A proposito» disse senza guardarla, «lei sapeva che Otto Fischer aveva un gemello? Gabriel.»
«No, non lo sapevo. Ma sono sicura che fosse un tipo migliore di lui» disse lei aprendo la porta.
Il tenente socchiuse gli occhi, poi scosse la testa. «Ma... Perché ne parla al passato?»
«Tenente Pinna» disse lei con un sorriso, «anche lei lo ha fatto».
Salutò con una mano e uscì.
Fuori si avvicinò alla moto. Il ragazzo sulla sella le lanciò il casco e sollevò la visiera.
«Hai visto? Sei uscita così come sei entrata. Tutto liscio.»
La ragazza scosse il capo. «Le impronte, Otto. Cazzo, ti avevo chiesto di cancellare tutte le impronte.»
«L'ho fatto.»
«No, non l'hai fatto.»
«Fidati, hanno provato a prenderti per il culo. E non chiamarmi per nome. È pericoloso, Cristo!»
«Vero, ma finché te ne vai in giro con la tua modo e con la giacca con l'”8” dietro... »
«Non c'è niente di male a prestare la propria roba a un fratello, no?»
Lei rise e scosse la testa, poi si allungò per infilare la lingua tra le labbra carnose del suo ragazzo.
«È per questo che ti amo, stupido ciccione. Perché non te ne frega mai un cazzo».
Poi infilò il casco a sua volta, montò dietro e la moto partì con un rombo assordante.
Capite? Otto Fischer, l'imbecille che sui muri si taggava con “C∞l” rovesciando l'otto. Diceva che Otto sdraiato è come l'infinito. I maschi e i loro uccelli...
Si faceva chiamare Cool Eight, ma, ovviamente, non ci è voluto niente per trasformarlo in “Culotto”. Coglione.
E, solo per avermela leccata una volta, credeva che fossi la sua ragazza. E guai a chi lo contraddiceva, quell'inutile figlio di puttana. Era amico della peggio feccia di Bolzano. Gli Albanesi lo hanno sempre difeso. Avete presente? Come se fosse un fratellino ritardato: maledici il giorno che è nato ogni volta che ti si mette vicino, ma guai a chi lo tocca.
E così, qualcuno deve aver messo della ketamina o altra roba simile nel mio chupito e mi sono svegliata nella sala prove più puzzolente e lercia che abbia mai visto, con una catena alla caviglia. Porco cazzo, sembrava di stare in uno di quei film splatter da psicopatici! Non chiedetemi perché in quella sala prove c'è una catena attaccata al muro! Lì non provano solamente, questo è poco ma sicuro.
Era una sala abbastanza spaziosa, con un sacco di poster ai muri, illuminata da lunghe strisce di led che pendevano dal soffitto assieme a dei dischi di gommapiuma. Divanetti, puzza di marijuana e tutto quello che ci si può aspettare da un luogo del genere. Sarebbe stato un posto figo, se non fosse che ero drogata e incatenata in compagnia di quell'omino grasso, brutto e stupido che era Culotto.
Stava in piedi davanti a me. La mia borsetta era sull'angolo di un tavolo. Ad un certo punto il ciccione ha tirato fuori il mio telefono. Mi ha guardato con quella faccia flaccida e pelosa, gli occhietti da maiale e quell'espressione da koala compiaciuto. Appena è stato sicuro che mi fossi ripresa, ha spaccato il mio smartphone con un martello più grosso di un panino.
Già questo è stato un durissimo colpo, ve lo lascio immaginare. Poi si è messo a sorridere e a leccarsi quei lumaconi che aveva al posto delle labbra. Allora ho visto che dietro di lui, al tavolo, aveva fissato una di quelle morse da meccanico. Dentro c'era un machete che sporgeva oltre il bordo con la lama rivolta verso l'alto.
Un cazzo di machete! Dico io: dove la trovi quella merda qui a Bolzano? Cioè, che cazzo sei, in Vietnam? Comunque non è stato il mio primo pensiero, ovviamente. Ho pensato che mi ci spellasse o roba così.
Piangevo, mentre lui ha cominciato ad affilare quell'affare con una pietra. Solo che non era una pietra per affilare, ma una pietra pomice. Di quelle che usano le nonne per grattarsi i calli.
Dio, che coglione. Ne ha sempre fatte di cose stupide. Io ero nella sua stessa scuola alle medie e, un anno, per farla pagare a una professoressa che, secondo lui, l'aveva fatto bocciare, aveva deciso di coprirle l'auto di merda. Così aveva cominciato a farla in un secchio tutti i giorni per raggiungere una quantità soddisfacente. E, per essere più vicino, la faceva a scuola. In un bagno della palestra. Lo hanno beccato per la puzza mentre cagava durante l'ora di ginnastica. Quando lo hanno trovato sopra un secchio con sei chili di merda e gli hanno chiesto cosa stesse facendo, lui ha risposto che non stava bene e che l'aveva fatta tutta durante quell'unica seduta. Tutti quelli della mia età si ricordano questa storia.
O di quella volta che voleva fare il culo a un ragazzo di qualche anno più piccolo e gli aveva chiesto l'indirizzo. Quello gli aveva detto di abitare a Rovereto e Culotto c'è andato in treno. Ovviamente era una palla: chi darebbe un indirizzo vero a uno che lo minaccia?
Lo scemo ha cercato la casa per tutta la sera, poi ha passato la notte in stazione prima che ci fosse un treno che lo riportasse a casa. E ce ne sarebbero decine di storie così.
«Ehi, Otto. Che cazzo ci faccio qui?» gli ho chiesto.
«Sei qui per pagare il conto, stronza» mi ha risposto. «Ho una gran voglia di farti a fettine, ma se sarai gentile forse non ti farò nulla.»
Poi ha aperto la scatola di un ristorante d'asporto e ha tirato fuori una salsiccia. Un odore di würstel e crauti ha invaso la stanza. Ha cominciato a passare il salsicciotto sulla lama facendolo a fette. Era davvero affilata, ma non penso fosse merito suo e della sua pietra per i duroni.
«Fai tutto questo per una scopata?» ho chiesto.
Lì per lì non mi sono resa conto di quanto suonasse “disponibile” quella frase. Un po' come dire: “bastava chiedere” e invece no, cazzo! Non bastava chiedere!
«No, ti voglio punire perché ho sentito cose che non mi sono piaciute» ha detto.
«Che cosa?»
«Che mi hai tradito.»
«Cristo, Otto!» Ho sbottato. « Noi non stiamo insieme».
«Ora no di sicuro, ma sono io che ti lascio!» ha gridato lui.
Credo d'aver scosso il capo. Che cazzo di logica...
«Invece sì, brutta puttana!» ha ripreso l'idiota. «Ma prima voglio lasciarti un ricordino di Cool Eight! Anzi, te ne lascerò parecchi: abbiamo tempo fino a venerdì sera. Poi ho le prove con la mia band».
Vi rendete conto?
Comunque avevo paura di quel machete. Penso che gliel'avrei anche data. Non credo che ci sia qualcuno che non accetterebbe di fare un pompino o roba così, in cambio di smettere di essere terrorizzati a quel modo.
«Otto, va bene» ho detto. «Liberami da questa catena e sarò gentile.»
Lui ha sorriso e si è buttato in bocca il resto del würstel. Ha dato un ultimo colpo alla lama con la pietra pomice e ha tirato una bestemmia feroce prendendosi la mano.
Il coglione si era tagliato via un pezzo di mignolo. Ha cominciato a sgocciolare per terra e si è allontanato dietro una specie di paravento. Dopo un po' è ricomparso col ditino fasciato e un mazzo di chiavi in mano.
«Tutto bene, bro. Ora si scopa» mi ha detto.
“Bro”, capito?
Mi sono sforzata di sorridere e lui ha cominciato ad avanzare dondolando il bacino in modo ridicolo. Pensava di essere sexy.
E poi è successo.
In quel momento è scivolato sul suo sangue ed è caduto in avanti. Il mazzo di chiavi è volato all'indietro e la sua testa di cazzo ha battuto contro la lama del machete. Quando ho sentito il tonfo, uno spruzzo di cervello e sangue è schizzato verso di me assieme ad una ciotola di cranio e capelli. Giuro su Dio. Mi sono messa a gridare come una scema per cinque minuti e ho pure vomitato. Penso di aver pianto per ore, poi mi sono addormentata.
Quando mi sono svegliata non avevo idea di quanto avessi dormito. C'era una mosca che volava tra i pezzettini di cervello che stavano sdraiati nella pozza di sangue come delle bollicine di detersivo per pavimenti. Da dove cazzo era entrata?
Non vi descrivo la puzza orrenda che c'era.
Pensate che sia tutta una stronzata? Se avessero raccolto scommesse sulla morte di Culotto, penso che la voce “ammazzarsi da solo mentre cerca di scopare” sarebbe stata una delle più votate.
Comunque, il mio orologio segnava “martedì”. Mi scappava la pipì e avevo fame e sete. Venerdì sera sarebbero arrivati gli amici di Culotto, ma mancava troppo tempo: sarei certamente morta.
Ho cominciato a pensare a come uscire da quella situazione disperata e mi è venuto in mente il telefono distrutto. Io non avevo un cellulare, ma l'idiota morto per terra sì.
Mi allungai per afferrarlo e tirarlo verso di me, ma riuscivo a malapena ad accarezzargli la testa, proprio sul buco. Era viscido e non riuscivo a prenderlo per tirarlo verso di me. Ho sforzato la catena fino a farmi male, ma niente.
Ho notato che la pietra pomice mi era rotolata vicino, così ho avuto un'idea. L'ho presa e ho cominciato a sfregarla contro la catena. Non per liberarmi, ovviamente, ma per modellarla. Dopo una mezzora avevo una sorta di gancetto di spugna dura. Mi sono sentita Macgyver!
Ho infilato la pietra nel buco del cranio di Culotto, spinto i resti di cervello che c'erano dentro e gli ho agganciato il bordo dell'osso. Ho trattenuto diversi sforzi di vomito, anche perché non avevo proprio nulla da rimettere. Era pesante il bastardo, ma sono riuscita ad avvicinarlo un po' prima che il mio attrezzo preistorico si spezzasse. Poi ho allungato una mano e l'ho afferrato per le narici. L'ho trascinato vicino, ho frugato le sue tasche e... bingo! Avevo un cellulare.
Bingo un cazzo, era tanto scarico che manco s'accendeva. Però c'era una presa di corrente vicino a dove mi trovavo e io avevo un caricatore nella borsa. A guardarlo mi sembrava che il telefono del ciccione fosse compatibile, così mi sono levata i pantaloni e una scarpa. L'ho legata coi lacci al fondo dei jeans e ho cominciato a lanciarla verso la borsetta, finché sono riuscita a farla cadere e a trascinarla verso di me. Il cavo del mio smartphone era compatibile con quello di Otto. Ho pensato: “Finalmente un po' di fortuna”.
Ho messo il telefono a caricare e intanto mi sono appoggiata al muro riflettendo sul perché mi trovassi in una situazione del genere. Alla fine mia mamma aveva avuto ragione. Quella era la parte peggiore. Per tutta l'adolescenza ha cercato di spronarmi a fare la seria, a smettere di bere, di drogarmi e di andare con tutti quelli che avevano un bel taglio di capelli.
Che cazzo, io mi volevo solo divertire, ma mi sono guardata intorno e, per la prima volta, ho pensato di essere una vera merda. Ma ormai...
Appena il telefono è stato abbastanza carico ho provato ad accenderlo. Pin. Vacca troia!
Ovvio che ci fosse un pin. Mi è venuto mal di testa dal nervoso, ma mi sono calmata e ho cominciato a rifletterci sopra. Quel coglione di Culotto non doveva avere un codice difficile da ricordare, vi pare? Indovinate. È bastato inserire quattro volte l'8.
Naturalmente, come tutti quelli nati negli anni '90, non conosco un solo numero di telefono a memoria. Che cazzo ricordo a fare un numero di dieci cifre se lo fa il telefono al posto mio?
Non avevo voglia di chiamare la polizia, anche perché gli Albanesi l'avrebbero saputo e... insomma, Culotto era il peggiore di tutti, ma non il più cattivo.
Però l'ho chiamata. Che potevo fare? Lo sbirro al telefono mi ha chiesto dov'ero.
«E io che ne so?» ho detto.
E lui: «Sicura che non sia uno scherzo?»
Ma vaffanculo, cazzo.
Poi mi ha detto: «Provi a scoprire dove si trova con la geolocalizzazione».
Non ci ho pensato abbastanza e ho messo giù. Poi ho capito che avrei dovuto chiedere come cazzo fare, perché non ne avevo idea. Ho visto sulla home del telefono l'app che Culotto aveva usato per ordinare da mangiare. Quei crauti... puzzavano ancora sopra l'odore del sangue, ma con la fame che avevo me li sarei divorati.
Comunque, vuoi la sete, lo shock e tutto il resto, ho avuto un'idea. Col senno di poi, un'idea di merda: ho ordinato una pizza.
Ho pensato che il ragazzo delle consegne mi avrebbe trovato perché l'app comunicava la mia posizione. Mi avrebbe dato da mangiare, da bere, mi avrebbe liberato e avrebbe chiamato un'ambulanza, la polizia o... qualcuno, insomma.
È arrivato dopo venticinque minuti. Un successo secondo l'app.
Dopo un po' di tentativi per trovarmi, il tipo mi ha telefonato. Ho pensato di non spaventarlo, così ho detto solo di scendere, perché ero in una sala prove.
«Se trovi chiuso spingi. Spingi forte» ho detto.
Cazzo, non potevo dirgli “sfonda la porta”! Quello scappava. Ma era tutto aperto, ci credereste? Quel coglione di Otto Fischer, lo scemodimmerda, aveva lasciato tutto aperto.
Il tipo è entrato. Era un magrebino bassotto con i capelli pettinati da un lato. «C'è nessuno? Pizza!»
«Sono qui» ho detto cercando di sembrare tranquilla.
Non sapevo cos'avrebbe fatto vedendomi incatenata con gli occhi gonfi di pianto, sangue dappertutto e un cadavere sdraiato davanti a me. Confesso che la cosa che temevo di più era che non mi desse da mangiare. Lo so, sembra una stronzata, ma avevo davvero, davvero fame. E sete.
La pipì invece l'avevo fatta da un bel po', ma tanto, tra sangue e crauti, non si sentiva nessun altro odore. Anche il tipo si è lamentato della puzza, poi mi ha visto.
«Ciao, bello. Puoi passarmi le chiavi che sono lì sul pavimento?» gli ho detto.
Gli ho indicato il mazzo che era caduto a Culotto e lui lo ha raccolto. Mi guardava a bocca aperta, senza capire un cazzo.
«Sai com'è» ho provato a dire, «stavamo facendo un giochino. Mi dai le chiavi? E la pizza, per favore».
Quello ha annuito ed è venuto verso di me sorridendo come un idiota. Mi ero dimenticata di essere senza pantaloni e il tipo fissava il mio tanga bordeaux. Ecco perché era così distratto.
Ha capito che Culotto era cadavere quando gli si è trovato sopra. Ha urlato e, cercando di scavalcarlo, è inciampato nei suoi piedi e ha perso l'equilibrio. Ha fatto per tenersi al tavolo con la mano che reggeva la pizza e...
Beh, l'ha persa quella cazzo di mano. Si è buttato di peso sul machete e “zac”!
La mano è caduta a terra con la scatola della pizza ancora sopra, e il moncherino ha cominciato a spruzzare sangue come un rubinetto aperto. Ha imbrattato tutto.
Ci siamo messi a urlare. Lui per il male e lo spavento, immagino. Io perché mi stava riempiendo la pizza di sangue. Gli gridavo: «Dammi le chiavi! Dammi quelle cazzo di chiavi, porca troia!»
Ma quello pensava solo a spegnersi lentamente. Ha barcollato verso di me, poi si è appoggiato col petto al tavolo ed è rimasto lì.
Cristo, che frustrazione!
Ho aperto la scatola della pizza. Era piena di sangue. Era entrato dai forellini laterali e dalla fessura lasciata dal coperchio.
Vi giuro che non lo farei normalmente, ma ho preso due fette, le ho chiuse a panino e le ho ficcate in bocca. Appena ho sentito il sapore del sangue ho sputato tutto e mi è venuto di nuovo da vomitare. Ho cominciato a piangere.
Vi giuro che non è una cosa razzista.
In quel momento ho pensato di trovarmi ancora più nella merda. Avevo due cadaveri e qualcosa come trenta litri di sangue nella stanza. Non so quanti erano davvero. Quanto sangue c'è in un uomo?
Vabbè, ero esausta. Però sapevo dov'erano le chiavi della mia cazzo di catena: nella mano semichiusa del magrebino sdraiato contro il tavolo.
La mano in questione penzolava oltre il bordo. Provai ad allungarmi il più possibile, ma non ci arrivavo. Per poco, ma non ci arrivavo.
Ho preso le fette della pizza e ho cominciato a tirarle contro il braccio del morto per farlo oscillare, ma non erano abbastanza pesanti. Ho bevuto il tè freddo che era rotolato fino a me, ma non avrei dovuto farlo, perché anche la lattina vuota era troppo leggera.
Ho tirato l'unica scarpa che avevo e ha funzionato, ma non abbastanza, così, per ultima, ho buttato la mano mozzata del tipo, e il braccio penzolante ha oscillato un pochino di più. Mi sono allungata e ho afferrato le dita del ragazzo della pizza appena in tempo.
Ho preso le chiavi e ho aperto la catena.
All'inizio zoppicavo, mi faceva male la caviglia e mi sentivo di merda.
Ho mangiato tutti i crauti freddi e mollicci. Nella sala poi ho trovato delle patatine scadute e c'era un lavandino. Le ho mangiate, ho bevuto e sono scappata fuori in mutande. Ho preso un autobus e sono andata a casa. Volevo consegnare il cellulare di Otto, ma me l'hanno preso gli Albanesi.
Tutto qui.
Il tenente Pinna guardò la ragazza seduta oltre la sua scrivania rimanendo in silenzio per qualche istante, poi osservò il carabiniere al pc che, finito di scrivere, gli lanciò un'occhiata scettica.
Il comandante scosse il capo, si passò una mano sul mento e sospirò. «È difficile mandare giù una storia del genere.»
«Eppure è tutto vero.»
«E quand'è che lei ha preso in mano il machete? Questo non me l'ha raccontato.»
«Perché non l'ho mai fatto.»
«Ci sono le sue impronte sul manico.»
La ragazza sorrise giocando con le punte rosa dei suoi lunghi capelli dorati. «Otto deve avermelo messo in mano mentre ero svenuta. Non c'è altra spiegazione. Chissà cos'altro mi avrà fatto.»
«Già». L'ufficiale sbuffò, poi si allungò sulla sedia. «Lo sa che il ragazzo della pizza faceva parte di un gruppo malavitoso nordafricano? Ora è cominciata una faida tra loro e gli Albanesi. Inoltre in internet c'è una canzone di Fischer che accusa in modo pesante il sindaco. L'ha sentita?»
«No.»
«Io l'ho sentita» disse il carabiniere.
Pinna lo ignorò e riprese: «Beh, dopo la sua morte sta diventando virale e pare che Plattner si dimetterà. Quell'Otto Fischer non ha mai fatto così tanti danni nemmeno da vivo.»
La ragazza fece spallucce. «Posso andare?»
«Sì, ma potrei doverla risentire.»
«Ha preso appunti, no?» disse lei indicando il militare al pc. «Perché ne ho le palle piene di questa storia».
«Li abbiamo presi, sì. Ma lei rimanga comunque disponibile.»
La bionda era quasi uscita quando Pinna la richiamò. «A proposito» disse senza guardarla, «lei sapeva che Otto Fischer aveva un gemello? Gabriel.»
«No, non lo sapevo. Ma sono sicura che fosse un tipo migliore di lui» disse lei aprendo la porta.
Il tenente socchiuse gli occhi, poi scosse la testa. «Ma... Perché ne parla al passato?»
«Tenente Pinna» disse lei con un sorriso, «anche lei lo ha fatto».
Salutò con una mano e uscì.
Fuori si avvicinò alla moto. Il ragazzo sulla sella le lanciò il casco e sollevò la visiera.
«Hai visto? Sei uscita così come sei entrata. Tutto liscio.»
La ragazza scosse il capo. «Le impronte, Otto. Cazzo, ti avevo chiesto di cancellare tutte le impronte.»
«L'ho fatto.»
«No, non l'hai fatto.»
«Fidati, hanno provato a prenderti per il culo. E non chiamarmi per nome. È pericoloso, Cristo!»
«Vero, ma finché te ne vai in giro con la tua modo e con la giacca con l'”8” dietro... »
«Non c'è niente di male a prestare la propria roba a un fratello, no?»
Lei rise e scosse la testa, poi si allungò per infilare la lingua tra le labbra carnose del suo ragazzo.
«È per questo che ti amo, stupido ciccione. Perché non te ne frega mai un cazzo».
Poi infilò il casco a sua volta, montò dietro e la moto partì con un rombo assordante.