Libertà
Inviato: lunedì 21 ottobre 2019, 23:57
Da due mesi prepariamo tutto nei minimi dettagli. Notti intere a cercare falle nel sistema di sorveglianza, a studiare per riprenderci la vita. A qualunque costo. Non posso credere che qualcuno riesca a ingoiare questa merda per anni senza muovere un dito, accontentandosi di un'ombra di esistenza. Io non baratto i miei giorni, le mie scopate, le serate di sballo e di corse in moto con una gabbia che ti uccide lentamente. Ho sempre vissuto al massimo prendendo quello che volevo. Non farò il bravo ragazzo restando a guardare mentre rubano l'unica cosa è rimasta di mio oltre il culo, cioè il tempo.
Sono finito dentro per una storia di droga. Assurdo. Come se fossi stato io il responsabile dello sballo dei ragazzi che venivano a cercarmi ogni sabato sera per uccidere la noia e i problemi delle loro vite del cazzo. Possono metterne in gabbia uno, due, dieci o cento, ma finché ci sarà chi è disposto a spendere per una dose, ci sarà qualcuno a procurargliela.
Daniele, il mio compagno di cella, mangia e dorme a spese dello Stato per rapina a mano armata. Ha provato il colpo grosso in una piccola banca di provincia, ma gli è andata male.
È nervoso da giorni e non fa che chiedermi se ho un piano di riserva, nel caso qualcosa dovesse andare storto. Gli ho sempre detto di stare tranquillo, che ci avrei pensato prima di tentare la fuga.
Mancano solo pochi minuti al momento stabilito per mettere in atto il nostro piano. Si basa tutto su quel breve intervallo, durante il cambio turno, in cui resta una sola guardia in tutta la nostra ala del carcere. Sono quaranta secondi, cinquanta al massimo. Li abbiamo contati più volte per essere sicuri. Chiudo gli occhi e osservo, come fosse un film, tutta la sequenza del piano.
Lo ripassiamo insieme sussurrandoci negli orecchi ogni singola mossa, poi ci mettiamo in posizione. Daniele, prima di nascondersi sotto le coperte mi prende per un braccio e mi guarda negli occhi con l'espressione stravolta.
«Allora, questo cazzo di piano B?»
«È tutto qui dentro» gli dico indicando la mia testa «pensa solo a seguirmi. So io come fare a non farci risbattere in cella.»
La prima guardia si avvia verso l'uscita. Apre e chiude la grande porta blindata del corridoio.
L'altra guardia, che ha con sé la chiave elettronica per uscire, si alza per la ronda e viene verso di noi. Daniele, dal suo letto, emette un lamento. La guardia si avvicina e quando è di fronte alle sbarre, illumino la cella sul lato opposto con un piccolo laser rubato in mensa. Appena il secondino si volta e mi dà le spalle, gli aggancio il collo con un lenzuolo arrotolato e lo blocco alle sbarre.
Daniele arriva a chiudergli la bocca con la federa del cuscino, per impedirgli di urlare.
Con un altro lenzuolo gli lego anche le caviglie. Estraggo la chiave dalla sua tasca e apriamo la cella. Daniele prende la pistola, io il manganello e corriamo verso la fine del corridoio. Dobbiamo sorprendere la guardia appena varcato il portone blindato. Passano i secondi, ma non si vede nessuno. Poi uno scatto, la porta si apre e tre guardie ci stanno di fronte con la pistola puntata.
Siamo fregati. Daniele getta l'arma a terra e alza le mani. Lo guardo un istante. Fingo di estrarre una pistola dalla tasca e urlo «piano B!»
Tre colpi in sequenza mi raggiungono al petto.
Ha funzionato.
Finalmente sono libero.
Sono finito dentro per una storia di droga. Assurdo. Come se fossi stato io il responsabile dello sballo dei ragazzi che venivano a cercarmi ogni sabato sera per uccidere la noia e i problemi delle loro vite del cazzo. Possono metterne in gabbia uno, due, dieci o cento, ma finché ci sarà chi è disposto a spendere per una dose, ci sarà qualcuno a procurargliela.
Daniele, il mio compagno di cella, mangia e dorme a spese dello Stato per rapina a mano armata. Ha provato il colpo grosso in una piccola banca di provincia, ma gli è andata male.
È nervoso da giorni e non fa che chiedermi se ho un piano di riserva, nel caso qualcosa dovesse andare storto. Gli ho sempre detto di stare tranquillo, che ci avrei pensato prima di tentare la fuga.
Mancano solo pochi minuti al momento stabilito per mettere in atto il nostro piano. Si basa tutto su quel breve intervallo, durante il cambio turno, in cui resta una sola guardia in tutta la nostra ala del carcere. Sono quaranta secondi, cinquanta al massimo. Li abbiamo contati più volte per essere sicuri. Chiudo gli occhi e osservo, come fosse un film, tutta la sequenza del piano.
Lo ripassiamo insieme sussurrandoci negli orecchi ogni singola mossa, poi ci mettiamo in posizione. Daniele, prima di nascondersi sotto le coperte mi prende per un braccio e mi guarda negli occhi con l'espressione stravolta.
«Allora, questo cazzo di piano B?»
«È tutto qui dentro» gli dico indicando la mia testa «pensa solo a seguirmi. So io come fare a non farci risbattere in cella.»
La prima guardia si avvia verso l'uscita. Apre e chiude la grande porta blindata del corridoio.
L'altra guardia, che ha con sé la chiave elettronica per uscire, si alza per la ronda e viene verso di noi. Daniele, dal suo letto, emette un lamento. La guardia si avvicina e quando è di fronte alle sbarre, illumino la cella sul lato opposto con un piccolo laser rubato in mensa. Appena il secondino si volta e mi dà le spalle, gli aggancio il collo con un lenzuolo arrotolato e lo blocco alle sbarre.
Daniele arriva a chiudergli la bocca con la federa del cuscino, per impedirgli di urlare.
Con un altro lenzuolo gli lego anche le caviglie. Estraggo la chiave dalla sua tasca e apriamo la cella. Daniele prende la pistola, io il manganello e corriamo verso la fine del corridoio. Dobbiamo sorprendere la guardia appena varcato il portone blindato. Passano i secondi, ma non si vede nessuno. Poi uno scatto, la porta si apre e tre guardie ci stanno di fronte con la pistola puntata.
Siamo fregati. Daniele getta l'arma a terra e alza le mani. Lo guardo un istante. Fingo di estrarre una pistola dalla tasca e urlo «piano B!»
Tre colpi in sequenza mi raggiungono al petto.
Ha funzionato.
Finalmente sono libero.