Tocio, my destination
Inviato: lunedì 11 novembre 2019, 21:17
di Andrea Lauro
Signor Comandante, qui navigatore Pintossi. Pessime notizie, gastroincursione fallita. Ripeto: fallita. Trasmetto il diario di bordo registrato a seguito della fuga, ore 1400, unità di tempo locali.
***
Maledizione. Eravamo partiti in cinque, ed ora son solo come un cane. Sarei crepato pure io, se gli altri non fossero stati tanto avidi, se il tenente Gringo e il sottocapo Thomasson non avessero mangiato quell’ultimo mombolino. Ho avuto solo il tempo di avvistare il nemico prima di loro e di scappare.
Andiamo con ordine: tenevo corretta la rotta puntando sulla scia i recettori olfattivi della nave. Mi sembrava quasi di sentirne il profumo, al di qua dello scafo. Non chiedetemi come fosse possibile, forse un condizionamento pavloviano indotto dal display tutto acceso di rosso, un albero di Natale insomma. A proposito, l’ultima modifica apportata alla plancia è stata un bel regalo, ve ne sono grato. Dopo tutta la fatica che avete fatto, sarebbe un peccato se decideste di giustiziarmi.
Comunque: sentivo il respiro di Thomasson dietro la mia postazione, quel tizio era teso come un cane da punta. E d’improvviso non ci stava più dentro, quel porco: cominciò a sbatacchiare gli arti, ora contro un sedile, ora contro un altro. Razza d’animale.
“Smettila, cazzo” gli facevo, “sei rozzo. Mettiti buono e goditi l’attesa.”
E quello aumentava gli sbatacchiamenti. Ansimava.
“Buono,” gli dicevo, “siamo vicini.” Grosso errore, portarvi a spasso per la Val Trompia in autunno. Zona affascinante e pericolosa, per il lavoro che facciamo.
E intanto quello continuava. “Godo, godo!” faceva Thomasson, e io seguitavo a tenerlo a bada, gli allungavo una pedata e quello niente, godeva di più.
E bravo Pintossi, mi dicevo, te la sei cercata.
“Godo, godo!”
“Senti, Thomasson, mi hai rotto le palle,” gli dissi ad un certo punto, “scendi negli alloggi dell’equipaggio.”
“UUUUrgh!”
“Cristo, Thomasson. E che era, quello? Fai schifo.”
“OOOOrrgh.”
Dei del cielo. Fu a quel punto che vidi Clarissa: quella sembrava resistere alla tentazione, era tenace la mangiaciccioli.
“Levamelo dalle palle!” le gridai, “questo sbava.”
Quella inclinò la testa: “Ma lo sai. Noi facciamo così.”
“Fate così COSA? SCHIFO?”
“Ecco, noi...”
“Ecco noi UN CAZZO! Levamelo dalle palle!”
“Ma noi...”
OK, ora ero incazzato. “Ascolta, troia. Tu ora prendi Thomasson e lo porti via di qui. Altrimenti il tocio me lo pappo tutto io.”
La parola magica. Thomasson si irrigidì: “il tocioooooo” gridò, gli arti levati.
“Il tocioooooo!”, si aggiunse Clarissa, la bocca distorta come l’Urlo di Munch: assieme erano uno splendido duetto a cappella. Due vergini addolorate del cazzo.
“Il tocio, sì, il tocio!”, feci eco io. “Manco una goccia, ve ne lascio.”
Nel monocolo di lei vidi il terrore. La mia piazzata sembrò convincerla, perché si prese sotto l’arto Thomasson e lo accompagnò oltre la plancia.
Se mi sento colpevole d’aver dato della troia al sergente Clarissa? Senza dubbio. Lo rifarei, se ridovesse capitare l’occasione? Senza dubbio. I mangiaciccioli come Thomasson sono incursori spettacolari, sul campo; per il resto, sono una spina nel fianco. Avevo votato contro, quando si era discusso se inserirlo o meno nella squadra.
I due avevano appena lasciato la plancia, quando dal ponte inferiore emerse il Gringo.
“Ho sentito parlare di tocio?”
“L’hai detto,” gli feci. “Che è, ne vuoi pure tu?”
Quello finì di issarsi. “Con piacere. Versa qui.”
“Fatte fottere, amigo.”
“Dovunque e in ogni momento.” Che giusto, il Gringo. Sempre sul pezzo, mai fuori posto. Si avvicinò alla mia postazione, gli arti rilassati; scrutava lo schermo.
“Lo senti anche tu?” mi chiese.
“Ora sì. Eccome.”
Sogghignò. “Di’ la verità, navigatore Pintossi: ti mancava il suo profumo?”
“Puoi giurarci, tenente. Sono stato con voi troppo a lungo, l’avevo quasi dimenticato.”
Il suo monocolo mi fissava, divertito. “Troppo a lungo in nostra compagnia? Non drammatizzare. Mi sembra che tu te la sia anche spassata.”
Inserii una piccola correzione di rotta e mi accomodai sul sedile. “Oh, tenente, colpito e affondato. Con voi ho avuto le mie migliori grigliate.”
“E le migliori porchette.”
“Sì, e le porchette”, ammisi. Quelle di Xavagar erano senza dubbio le migliori. Le mie peregrinazioni con i mangiaciccioli mi avevano condotto ai confini della Galassia. Molte domande avevano trovato risposta. Siamo soli nell’universo? Ovviamente no. E le porchette? Nemmeno.
“Mi avete trattato bene”, dissi.
Il Gringo si mostrava compiaciuto. “Puoi dirlo forte, Pintossi. E tu,” mi disse, “tu ti sei dimostrato una degna... com’è che dite voi?”
“Forchetta.”
“Sì, una degna forchetta. Ah, quanto mi piacerebbe che anche tu potessi fare a meno, di queste forchette.” Si rimirò uno degli arti, che aprì e chiuse con due schiocchi secchi. “Non sai cosa ti perdi.”
“Bah,” feci io, “che vuoi che ti dica, tenente? Sono legato alle tradizioni.”
“Ad ognuno la propria”, mi rispose.
In quel momento suonò l’allarme. “Ci siamo”, disse il Gringo.
“Contatto visivo”, feci io.
Lo schermo passò all’infrarosso ed inquadrò l’obiettivo. Eccolo.
Sentii il Gringo trattenere per un attimo il respiro; per quanto mi riguarda, ebbi anch’io il mio momento di commozione. Quanto tempo.
“Dei-del-cielo. È quello?”, mi chiese.
Annuii, trasognato. “Già.”
“Meraviglioso. Chiama gli altri.”
Clarissa, quell’animale di Thomasson ed il cambusiere Fezzig raggiunsero la plancia un minuto dopo; io avevo già attivato la procedura di atterraggio. Lanciai uno sguardo a Thomasson, notai con sollievo che si era dato una calmata. Stavo regolando il mimetismo dello scafo; il Gringo richiamò sullo schermo secondario il video all’infrarosso.
Un “oooh” riempì la plancia.
“Signore e signori,” dissi accennando un lieve inchino dalla mia postazione, “ecco a voi l’autentico spiedo bresciano.”
“L’abbiamo trovato.”
“Ne dubitavi, sergente Clarissa?”
“No di certo, Pintossi. Con gli uccellini?”
“Con gli uccellini.”
“Ne sei sicuro?”
“Fidati, Clarissa. Vedi le testoline? Guarda come ciondolano ad ogni giro di raspa.”
“Sei sicuro che sia pronto?” fece il Gringo.
“Cinquecentosettantatré Kelvin, tenente: è pronto. Come minimo l’hanno lasciato cuocere per quattro ore. Se aspettiamo, rischiamo che si siedano a tavola.”
“Tenente! Dobbiamo scendere, ORA!”
“Calmati, Thomasson, il navigatore Pintossi sta ultimando la procedura.”
“Solo un secondo. Ecco. Procedura ultimata, tenente, siamo pronti.”
“Attivate i paralizzatori. Fezzig, apri il portello. Al mio tre: uno, due …”
Il bello è che stavamo per farcela, maledizione. Abbiamo seguito il protocollo: io sono rimasto di guardia alla nave, mentre la squadra di mangiaciccioli irrompeva nel pranzo domenicale di quei terrestri festaioli. Mi guardavo intorno, respiravo l’aria di casa che mi era così a lungo mancata.
Sapete, l’autunno sui colli della Val Trompia ha i colori dell’uva e del vino. Nelle giornate limpide, la vista domina sulla pianura Padana e oltre; quando il cielo è terso, ma terso davvero, lontano si scorge il profilo degli Appennini. Che poesia. Era un peccato non poter scambiare quattro chiacchiere con i locali: al momento stavano scappando terrorizzati dai paralizzatori dei miei colleghi alieni.
“Campo libero!” mi gridarono questi finalmente, e allora mi avvicinai. Era una bella casetta di montagna, con i muri in pietra ed un giardinetto curato tutt’attorno; peccato non potermici ritirare per la vecchiaia, ci sarei vissuto bene. The stars my destination, ormai.
Gli altri si erano radunati attorno alla macchina dello spiedo, in un silenzio estatico: aspettavano me. Mi avvicinai, aprii la porta e tutti ammirammo ciò che prima avevamo visto solo all’infrarosso.
“È la cosa più bella che abbia mai visto”, fece Clarissa.
Una leggera schiumetta di grasso usciva sfrigolando dalle prese di spiedo color mattone. Le foglie di salvia si alternavano alla carne in un tango sofisticato, e dal loro connubio saliva un profumo intenso ed inebriante. Le patate, infilzate a spesse rondelle, completavano questo quadro con pennellate d’oro.
“Guarda là sotto!” fece Thomasson, pazzo di felicità. “Il pentolino che raccoglie il tocio!”.
“Il tocioooooo.”
“Il tocioooooo!”
“Il tocioooooo!”
E mentre i miei camerati completavano l’armonia vocale, avvicinai a me la pegnàta, o pentola, sganciai con gesti esperti la prima raspa bollente, e sfilai le prese una ad una, lasciandole cadere nel recipiente.
“Entra in casa,” feci a Fezzig. “Troverai sui fornelli il paiolo della polenta: pensaci tu.”
“Sissignore.” E bravo il nostro cambusiere.
Mi voltai verso Clarissa: “Tu invece prendi il pentolino del tocio.”
“Sarà fatto.”
E meno di un minuto dopo eccoci seduti a tavola, ognuno con le sue prese di spiedo nel piatto, a brindare alla missione che credevamo compiuta con successo. Attorno a noi, sparsi per il giardinetto, gli indigeni freezati in pose poco decorose: ne avrebbero avuto per una buona mezz’ora, un tempo sufficiente. Così almeno pensavamo.
***
Questo il resoconto del diario di bordo, signor Comandante: vi ho descritto come si sono svolti i fatti fino al momento fatidico in cui i locali hanno preso il sopravvento. Confido che non abbiate rilevato gravi inadempienze da parte mia o dell’equipaggio nell’adesione ai protocolli operativi. Vi porterò personalmente l’holo del loro contrattacco, così come registrato dai sensori esterni della nave. Prego gli dei per la vostra indulgenza: sono al vostro servizio da quasi dieci anni, spero questo conti qualcosa. Inoltre, riesco a riportarvi una nave integra e funzionante.
Termino qui la registrazione. Tra meno di un’ora standard sarò in dirittura dello spazioporto per la procedura d’attracco. Sarò a vostra disposizione non appena sbrigate le formalità di sbarco. Navigatore Sergio Pintossi, chiudo.
****
Due ore più tardi. Ufficio del Comandante.
“Ave, Comandante. Navigatore Pintossi a rapporto.”
“Pintossi. Me l’avevi dipinta come una missione facile.”
“Doveva esserlo, signor Comandante.”
“Un fallimento clamoroso, ecco cosa è stato. Che hai da dire?”
“Comandante, speravo avesse avuto modo di visionare la registrazione che le ho inviato.”
“L’ho fatto, Pintossi: non sono affatto contento. Inviarvi sulla Terra è stato un errore. Erano dei bravi soldati.”
“I migliori, signor Comandante.”
“I migliori? Non direi, Pintossi, altrimenti sareste tutti qui. Suppongo ci sia qualcosa da imparare anche da questo increscioso incidente.”
“Se posso, signor Comandante: che ne sarà di me?”
“La tua punizione sarà esemplare, Pintossi.”
“Mi metterete a morte, Comandante?”
“Via, Pintossi, non essere ridicolo. Siamo un popolo pacifico. È dal tempo dei miei avi che la pena capitale non viene applicata. Pensa questo: sono dieci anni che sopporto i nomignoli che ci hai appioppato. Se non ti ho ancora fatto giustiziare per un motivo così importante, non so come potrei farlo adesso.”
“Grazie, signor Comandante. Se può servire a qualcosa, sappia che a lei non ho mai affibbiato nomignoli.”
“Silenzio. Starai confinato nei tuoi alloggi per cinque settimane standard. Avrai modo di riflettere su quanto è accaduto. Hai portato l’holo del contrattacco indigeno?”
“Sì, signor Comandante. L’ho lasciato all’ingresso, insieme ai documenti di sbarco e ai bagagli.”
“Bene, portamelo. Ci sono dei punti che ancora non mi sono chiari, ed intendo andare a fondo della questione. Ad esempio: com’è che ne sei uscito senza un graffio? Come hanno fatto i locali a risvegliarsi dalla paralisi? E soprattutto, come si sono armati?”
“Ogni abitante della Val Trompia ha un porto d’armi, signore. Quasi tutti gli esemplari maschi diventano cacciatori. Talvolta pure le mogli.”
“Per gli dei! Hai organizzato la gastroincursione in una zona ad alto rischio?”
“Eravamo coscienti dei rischi a cui andavamo incontro, Comandante.”
“Siete stati degli sciocchi.”
“I tempi erano ormai maturi. I ragazzi erano pronti per lo spiedo bresciano e l’arte del tocio.”
“Lo spiedo bresciano vi ha ammazzati, navigatore.”
“Non direi, Comandante.”
“Tenente! Ma lei... lei è vivo. Navigatore, cosa significa?”
“Gringo. Dovevi aspettare per l’entrata ad effetto. Voi mangiaciccioli non capite l’importanza dei tempi teatrali.”
“Pintossi, ancora un po’ che durava questa pantomima, e ti avrebbe davvero messo a morte. Ti ci avrei messo io.”
“INSOMMA! Qualcuno vuole spiegarmi?”
“La gastroincursione è stato un successo, Comandante. Il banchetto più buono a cui abbia mai partecipato.”
“Voi dovete essere impazziti. Volete dirmi che la squadra è sana e salva?”
“Mai stata così in salute, Comandante.”
“Cos’è, uno scherzo?”
“In effetti sì, Comandante.”
“Grande Giove! Dovrei farvi arrestare.”
“In effetti dovrebbe, Comandante.”
“E lo farò, pezzi di idioti. Guardie!”
“Aspetti, Comandante. Ho detto dovrebbe, ma so per certo che non lo farà.”
“Tenente! Cos’è questo, un altro scherzo?”
“Questo no, signore. Mi dia un momento. Clarissa! Fezzig! Portatelo dentro.”
“Cos’è… cos’è quello, tenente?”
“Navigatore Pintossi, vuoi fare tu gli onori di casa?”
“Con piacere, Gringo. Comandante, ho il piacere di presentarvi l’autentico spiedo bresciano.”
“Per gli dei! Qui!”
“Sì, signor Comandante. Tutto per lei. In molti pensano che da freddo sia anche migliore.”
“Il leggendario spiedo bresciano. Ma ci sono anche gli uccellini?”
“Ci sono gli uccellini, sì. E qui ci sono i mombolini, la coppa e le costine. Nella pirofila in mano a Clarissa abbiamo la polenta.”
“La polenta.”
“Sì, signor Comandante.”
“E… e in quel pentolino? Cosa c’è in quel pentolino?”
“Su, signor Comandante, sa benissimo cosa c’è in quel pentolino.”
“Sì, credo proprio di saperlo. Potete andare, maledetti ruffiani. Domattina dopo colazione vi voglio qui, per i dettagli sulla missione.”
“Signorsì, signore. Grazie per la pazienza dimostrata, Comandante. La lasciamo solo.”
“Maledetti ruffiani. Sì, andate. Lasciatemi solo.”
Signor Comandante, qui navigatore Pintossi. Pessime notizie, gastroincursione fallita. Ripeto: fallita. Trasmetto il diario di bordo registrato a seguito della fuga, ore 1400, unità di tempo locali.
***
Maledizione. Eravamo partiti in cinque, ed ora son solo come un cane. Sarei crepato pure io, se gli altri non fossero stati tanto avidi, se il tenente Gringo e il sottocapo Thomasson non avessero mangiato quell’ultimo mombolino. Ho avuto solo il tempo di avvistare il nemico prima di loro e di scappare.
Andiamo con ordine: tenevo corretta la rotta puntando sulla scia i recettori olfattivi della nave. Mi sembrava quasi di sentirne il profumo, al di qua dello scafo. Non chiedetemi come fosse possibile, forse un condizionamento pavloviano indotto dal display tutto acceso di rosso, un albero di Natale insomma. A proposito, l’ultima modifica apportata alla plancia è stata un bel regalo, ve ne sono grato. Dopo tutta la fatica che avete fatto, sarebbe un peccato se decideste di giustiziarmi.
Comunque: sentivo il respiro di Thomasson dietro la mia postazione, quel tizio era teso come un cane da punta. E d’improvviso non ci stava più dentro, quel porco: cominciò a sbatacchiare gli arti, ora contro un sedile, ora contro un altro. Razza d’animale.
“Smettila, cazzo” gli facevo, “sei rozzo. Mettiti buono e goditi l’attesa.”
E quello aumentava gli sbatacchiamenti. Ansimava.
“Buono,” gli dicevo, “siamo vicini.” Grosso errore, portarvi a spasso per la Val Trompia in autunno. Zona affascinante e pericolosa, per il lavoro che facciamo.
E intanto quello continuava. “Godo, godo!” faceva Thomasson, e io seguitavo a tenerlo a bada, gli allungavo una pedata e quello niente, godeva di più.
E bravo Pintossi, mi dicevo, te la sei cercata.
“Godo, godo!”
“Senti, Thomasson, mi hai rotto le palle,” gli dissi ad un certo punto, “scendi negli alloggi dell’equipaggio.”
“UUUUrgh!”
“Cristo, Thomasson. E che era, quello? Fai schifo.”
“OOOOrrgh.”
Dei del cielo. Fu a quel punto che vidi Clarissa: quella sembrava resistere alla tentazione, era tenace la mangiaciccioli.
“Levamelo dalle palle!” le gridai, “questo sbava.”
Quella inclinò la testa: “Ma lo sai. Noi facciamo così.”
“Fate così COSA? SCHIFO?”
“Ecco, noi...”
“Ecco noi UN CAZZO! Levamelo dalle palle!”
“Ma noi...”
OK, ora ero incazzato. “Ascolta, troia. Tu ora prendi Thomasson e lo porti via di qui. Altrimenti il tocio me lo pappo tutto io.”
La parola magica. Thomasson si irrigidì: “il tocioooooo” gridò, gli arti levati.
“Il tocioooooo!”, si aggiunse Clarissa, la bocca distorta come l’Urlo di Munch: assieme erano uno splendido duetto a cappella. Due vergini addolorate del cazzo.
“Il tocio, sì, il tocio!”, feci eco io. “Manco una goccia, ve ne lascio.”
Nel monocolo di lei vidi il terrore. La mia piazzata sembrò convincerla, perché si prese sotto l’arto Thomasson e lo accompagnò oltre la plancia.
Se mi sento colpevole d’aver dato della troia al sergente Clarissa? Senza dubbio. Lo rifarei, se ridovesse capitare l’occasione? Senza dubbio. I mangiaciccioli come Thomasson sono incursori spettacolari, sul campo; per il resto, sono una spina nel fianco. Avevo votato contro, quando si era discusso se inserirlo o meno nella squadra.
I due avevano appena lasciato la plancia, quando dal ponte inferiore emerse il Gringo.
“Ho sentito parlare di tocio?”
“L’hai detto,” gli feci. “Che è, ne vuoi pure tu?”
Quello finì di issarsi. “Con piacere. Versa qui.”
“Fatte fottere, amigo.”
“Dovunque e in ogni momento.” Che giusto, il Gringo. Sempre sul pezzo, mai fuori posto. Si avvicinò alla mia postazione, gli arti rilassati; scrutava lo schermo.
“Lo senti anche tu?” mi chiese.
“Ora sì. Eccome.”
Sogghignò. “Di’ la verità, navigatore Pintossi: ti mancava il suo profumo?”
“Puoi giurarci, tenente. Sono stato con voi troppo a lungo, l’avevo quasi dimenticato.”
Il suo monocolo mi fissava, divertito. “Troppo a lungo in nostra compagnia? Non drammatizzare. Mi sembra che tu te la sia anche spassata.”
Inserii una piccola correzione di rotta e mi accomodai sul sedile. “Oh, tenente, colpito e affondato. Con voi ho avuto le mie migliori grigliate.”
“E le migliori porchette.”
“Sì, e le porchette”, ammisi. Quelle di Xavagar erano senza dubbio le migliori. Le mie peregrinazioni con i mangiaciccioli mi avevano condotto ai confini della Galassia. Molte domande avevano trovato risposta. Siamo soli nell’universo? Ovviamente no. E le porchette? Nemmeno.
“Mi avete trattato bene”, dissi.
Il Gringo si mostrava compiaciuto. “Puoi dirlo forte, Pintossi. E tu,” mi disse, “tu ti sei dimostrato una degna... com’è che dite voi?”
“Forchetta.”
“Sì, una degna forchetta. Ah, quanto mi piacerebbe che anche tu potessi fare a meno, di queste forchette.” Si rimirò uno degli arti, che aprì e chiuse con due schiocchi secchi. “Non sai cosa ti perdi.”
“Bah,” feci io, “che vuoi che ti dica, tenente? Sono legato alle tradizioni.”
“Ad ognuno la propria”, mi rispose.
In quel momento suonò l’allarme. “Ci siamo”, disse il Gringo.
“Contatto visivo”, feci io.
Lo schermo passò all’infrarosso ed inquadrò l’obiettivo. Eccolo.
Sentii il Gringo trattenere per un attimo il respiro; per quanto mi riguarda, ebbi anch’io il mio momento di commozione. Quanto tempo.
“Dei-del-cielo. È quello?”, mi chiese.
Annuii, trasognato. “Già.”
“Meraviglioso. Chiama gli altri.”
Clarissa, quell’animale di Thomasson ed il cambusiere Fezzig raggiunsero la plancia un minuto dopo; io avevo già attivato la procedura di atterraggio. Lanciai uno sguardo a Thomasson, notai con sollievo che si era dato una calmata. Stavo regolando il mimetismo dello scafo; il Gringo richiamò sullo schermo secondario il video all’infrarosso.
Un “oooh” riempì la plancia.
“Signore e signori,” dissi accennando un lieve inchino dalla mia postazione, “ecco a voi l’autentico spiedo bresciano.”
“L’abbiamo trovato.”
“Ne dubitavi, sergente Clarissa?”
“No di certo, Pintossi. Con gli uccellini?”
“Con gli uccellini.”
“Ne sei sicuro?”
“Fidati, Clarissa. Vedi le testoline? Guarda come ciondolano ad ogni giro di raspa.”
“Sei sicuro che sia pronto?” fece il Gringo.
“Cinquecentosettantatré Kelvin, tenente: è pronto. Come minimo l’hanno lasciato cuocere per quattro ore. Se aspettiamo, rischiamo che si siedano a tavola.”
“Tenente! Dobbiamo scendere, ORA!”
“Calmati, Thomasson, il navigatore Pintossi sta ultimando la procedura.”
“Solo un secondo. Ecco. Procedura ultimata, tenente, siamo pronti.”
“Attivate i paralizzatori. Fezzig, apri il portello. Al mio tre: uno, due …”
Il bello è che stavamo per farcela, maledizione. Abbiamo seguito il protocollo: io sono rimasto di guardia alla nave, mentre la squadra di mangiaciccioli irrompeva nel pranzo domenicale di quei terrestri festaioli. Mi guardavo intorno, respiravo l’aria di casa che mi era così a lungo mancata.
Sapete, l’autunno sui colli della Val Trompia ha i colori dell’uva e del vino. Nelle giornate limpide, la vista domina sulla pianura Padana e oltre; quando il cielo è terso, ma terso davvero, lontano si scorge il profilo degli Appennini. Che poesia. Era un peccato non poter scambiare quattro chiacchiere con i locali: al momento stavano scappando terrorizzati dai paralizzatori dei miei colleghi alieni.
“Campo libero!” mi gridarono questi finalmente, e allora mi avvicinai. Era una bella casetta di montagna, con i muri in pietra ed un giardinetto curato tutt’attorno; peccato non potermici ritirare per la vecchiaia, ci sarei vissuto bene. The stars my destination, ormai.
Gli altri si erano radunati attorno alla macchina dello spiedo, in un silenzio estatico: aspettavano me. Mi avvicinai, aprii la porta e tutti ammirammo ciò che prima avevamo visto solo all’infrarosso.
“È la cosa più bella che abbia mai visto”, fece Clarissa.
Una leggera schiumetta di grasso usciva sfrigolando dalle prese di spiedo color mattone. Le foglie di salvia si alternavano alla carne in un tango sofisticato, e dal loro connubio saliva un profumo intenso ed inebriante. Le patate, infilzate a spesse rondelle, completavano questo quadro con pennellate d’oro.
“Guarda là sotto!” fece Thomasson, pazzo di felicità. “Il pentolino che raccoglie il tocio!”.
“Il tocioooooo.”
“Il tocioooooo!”
“Il tocioooooo!”
E mentre i miei camerati completavano l’armonia vocale, avvicinai a me la pegnàta, o pentola, sganciai con gesti esperti la prima raspa bollente, e sfilai le prese una ad una, lasciandole cadere nel recipiente.
“Entra in casa,” feci a Fezzig. “Troverai sui fornelli il paiolo della polenta: pensaci tu.”
“Sissignore.” E bravo il nostro cambusiere.
Mi voltai verso Clarissa: “Tu invece prendi il pentolino del tocio.”
“Sarà fatto.”
E meno di un minuto dopo eccoci seduti a tavola, ognuno con le sue prese di spiedo nel piatto, a brindare alla missione che credevamo compiuta con successo. Attorno a noi, sparsi per il giardinetto, gli indigeni freezati in pose poco decorose: ne avrebbero avuto per una buona mezz’ora, un tempo sufficiente. Così almeno pensavamo.
***
Questo il resoconto del diario di bordo, signor Comandante: vi ho descritto come si sono svolti i fatti fino al momento fatidico in cui i locali hanno preso il sopravvento. Confido che non abbiate rilevato gravi inadempienze da parte mia o dell’equipaggio nell’adesione ai protocolli operativi. Vi porterò personalmente l’holo del loro contrattacco, così come registrato dai sensori esterni della nave. Prego gli dei per la vostra indulgenza: sono al vostro servizio da quasi dieci anni, spero questo conti qualcosa. Inoltre, riesco a riportarvi una nave integra e funzionante.
Termino qui la registrazione. Tra meno di un’ora standard sarò in dirittura dello spazioporto per la procedura d’attracco. Sarò a vostra disposizione non appena sbrigate le formalità di sbarco. Navigatore Sergio Pintossi, chiudo.
****
Due ore più tardi. Ufficio del Comandante.
“Ave, Comandante. Navigatore Pintossi a rapporto.”
“Pintossi. Me l’avevi dipinta come una missione facile.”
“Doveva esserlo, signor Comandante.”
“Un fallimento clamoroso, ecco cosa è stato. Che hai da dire?”
“Comandante, speravo avesse avuto modo di visionare la registrazione che le ho inviato.”
“L’ho fatto, Pintossi: non sono affatto contento. Inviarvi sulla Terra è stato un errore. Erano dei bravi soldati.”
“I migliori, signor Comandante.”
“I migliori? Non direi, Pintossi, altrimenti sareste tutti qui. Suppongo ci sia qualcosa da imparare anche da questo increscioso incidente.”
“Se posso, signor Comandante: che ne sarà di me?”
“La tua punizione sarà esemplare, Pintossi.”
“Mi metterete a morte, Comandante?”
“Via, Pintossi, non essere ridicolo. Siamo un popolo pacifico. È dal tempo dei miei avi che la pena capitale non viene applicata. Pensa questo: sono dieci anni che sopporto i nomignoli che ci hai appioppato. Se non ti ho ancora fatto giustiziare per un motivo così importante, non so come potrei farlo adesso.”
“Grazie, signor Comandante. Se può servire a qualcosa, sappia che a lei non ho mai affibbiato nomignoli.”
“Silenzio. Starai confinato nei tuoi alloggi per cinque settimane standard. Avrai modo di riflettere su quanto è accaduto. Hai portato l’holo del contrattacco indigeno?”
“Sì, signor Comandante. L’ho lasciato all’ingresso, insieme ai documenti di sbarco e ai bagagli.”
“Bene, portamelo. Ci sono dei punti che ancora non mi sono chiari, ed intendo andare a fondo della questione. Ad esempio: com’è che ne sei uscito senza un graffio? Come hanno fatto i locali a risvegliarsi dalla paralisi? E soprattutto, come si sono armati?”
“Ogni abitante della Val Trompia ha un porto d’armi, signore. Quasi tutti gli esemplari maschi diventano cacciatori. Talvolta pure le mogli.”
“Per gli dei! Hai organizzato la gastroincursione in una zona ad alto rischio?”
“Eravamo coscienti dei rischi a cui andavamo incontro, Comandante.”
“Siete stati degli sciocchi.”
“I tempi erano ormai maturi. I ragazzi erano pronti per lo spiedo bresciano e l’arte del tocio.”
“Lo spiedo bresciano vi ha ammazzati, navigatore.”
“Non direi, Comandante.”
“Tenente! Ma lei... lei è vivo. Navigatore, cosa significa?”
“Gringo. Dovevi aspettare per l’entrata ad effetto. Voi mangiaciccioli non capite l’importanza dei tempi teatrali.”
“Pintossi, ancora un po’ che durava questa pantomima, e ti avrebbe davvero messo a morte. Ti ci avrei messo io.”
“INSOMMA! Qualcuno vuole spiegarmi?”
“La gastroincursione è stato un successo, Comandante. Il banchetto più buono a cui abbia mai partecipato.”
“Voi dovete essere impazziti. Volete dirmi che la squadra è sana e salva?”
“Mai stata così in salute, Comandante.”
“Cos’è, uno scherzo?”
“In effetti sì, Comandante.”
“Grande Giove! Dovrei farvi arrestare.”
“In effetti dovrebbe, Comandante.”
“E lo farò, pezzi di idioti. Guardie!”
“Aspetti, Comandante. Ho detto dovrebbe, ma so per certo che non lo farà.”
“Tenente! Cos’è questo, un altro scherzo?”
“Questo no, signore. Mi dia un momento. Clarissa! Fezzig! Portatelo dentro.”
“Cos’è… cos’è quello, tenente?”
“Navigatore Pintossi, vuoi fare tu gli onori di casa?”
“Con piacere, Gringo. Comandante, ho il piacere di presentarvi l’autentico spiedo bresciano.”
“Per gli dei! Qui!”
“Sì, signor Comandante. Tutto per lei. In molti pensano che da freddo sia anche migliore.”
“Il leggendario spiedo bresciano. Ma ci sono anche gli uccellini?”
“Ci sono gli uccellini, sì. E qui ci sono i mombolini, la coppa e le costine. Nella pirofila in mano a Clarissa abbiamo la polenta.”
“La polenta.”
“Sì, signor Comandante.”
“E… e in quel pentolino? Cosa c’è in quel pentolino?”
“Su, signor Comandante, sa benissimo cosa c’è in quel pentolino.”
“Sì, credo proprio di saperlo. Potete andare, maledetti ruffiani. Domattina dopo colazione vi voglio qui, per i dettagli sulla missione.”
“Signorsì, signore. Grazie per la pazienza dimostrata, Comandante. La lasciamo solo.”
“Maledetti ruffiani. Sì, andate. Lasciatemi solo.”