Semifinale Angelo Berti

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il primo novembre sveleremo il tema deciso da Lorenzo Sartori. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Angelo Berti

Messaggio#1 » venerdì 29 novembre 2019, 9:11

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida ad Alieni a Crema.
Accedono in semifinale: Il banchetto vegano e Stramonium horribilis.

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: domenica 01 dicembre alle 23:59
Limite battute: 21.666

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 01 dicembre. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Luca Nesler
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Il banchetto vegano

Messaggio#2 » domenica 1 dicembre 2019, 9:48

Cesare aprì gli occhi. Tanto non stava dormendo. La cena continuava a tornargli in bocca con un aspro sapore di bile e la sua vescica spingeva in modo doloroso. Si mise seduto e cercò le pantofole. L’Alfio russava come un trattore senza marmitta. Scosse la testa e si alzò. Si avvicinò al bagno. L’odore acre di urina anticipava la solita scena: un laghetto di piscio che arrivava fin fuori la porta.
«Ma puttana miseria, Alfio! Quanto sei rincoglionito.»
Sbuffando uscì dalla camera per non inzuppare le pantofole. Percorse il corridoio fino al bagno per i visitatori e notò una luce uscire da una porta più avanti. Decise di dare una sbirciata: magari c’era il direttore con la Doris. Avrebbe avuto qualcosa da raccontare.
Si avvicinò. Una voce profonda e vibrante stava dicendo: «Almeno sei cadaveri. Dal sistema Vega sono venticinque anni luce. La delegazione sarà affamata.»
«Ma certo» la voce del direttore. «Il numero non è un problema. In una casa di riposo come questa ci sono sempre molti vecchi abbandonati.»
La voce abominevole riprese: «Grazie, direttore. Manderò alcuni dei miei a darvi una mano.»
Un brivido gli strizzò la schiena. C’era qualcosa di sinistro in quella voce.
Si sporse per lanciare un’occhiata dentro e il fiato si fermò. Davanti al direttore, sull’altro lato della scrivania, era seduto un essere dalla testa grossa e lucida. Il corpo sembrava umano, ma dal collo in su diverse parti pulsavano come enormi bubboni, cambiando colore. Da forellini gonfi uscivano e rientravano sottili propaggini che si arricciavano come i tentacoli di un calamaro.
Nonostante lo shock e le strane modulazioni di quella voce, riuscì a cogliere una frase: «L’importante è che non siano defunti da più di trentasei ore.»
Tornò a letto appoggiandosi al muro del corridoio. Si rigirò a lungo tra le lenzuola e, al mattino, il materasso di Alfio non era l’unico bagnato.

Fuori pioveva. L’acqua riempiva gli avvallamenti nel cortile, mentre il ticchettio dell’orologio scandiva il tempo tra i numeri chiamati dalla volontaria. Carina. Grosse poppe sotto il dolcevita.
«Cesare, non hai segnato il sei. Ce li hai i fagioli?»
Si voltò. Maria lo guardava scuotendo un ventaglio. Era stata una delle più belle di Gardolo, ma non era più come quando era ragazza. Ora aveva la pelle stropicciata come un vecchio scontrino.
«Ho i miei pensieri, Mariuccia.»
«Vuoi che te li segni io i numeri?»
Cesare le passò la cartella continuando a guardarsi attorno. Nessuno sembrava sospettare nulla, ma l’Antonio e la Zamboni non erano scesi e lui aveva ancora in testa l’aspetto e le parole del mostro: “Sei cadaveri - defunti da trentasei ore”.
Cercava qualche indizio della presenza di quelle creature. I Vegani, aveva detto il calamaro.
Solo allora notò che l’Alfio lo osservava tenendo a mezz’aria il cucchiaino col budino.
Sbuffò.
«Vecchio coglione.»
«Come dici, Cesare?» chiese Maria continuando a sventagliare.
«Nulla, cara. Nulla.»
Era sicuro che il compagno di stanza fosse divertito dal fatto che s’era pisciato sotto pure lui. Per fortuna dopo l’ictus straparlava. L’unica a conoscere la sua vergogna era la Doris che aveva cambiato le lenzuola.
«Ventidue.» La voce roca e cantilenante della ragazza lo infastidiva.
Qualcuno alzò il volume della tv, Cesare si voltò di scatto.
«Sei nervoso oggi. Hai dormito male?»
«No, che dici? Fatti i fatti tuoi, Maria.»
«Che cafone. Hai i modi di un operaio.»
«Manutentore, Maria. Di impianti antincendio.»
«Lo stesso.»
Cesare si alzò. «Scusa, ma la tombola mi ha stufato. Vado a farmi un po’ di tv.»
Fece due passi e si rese conto che qualcosa non andava. Maria si faceva aria e non era l’unica. In quella casa di riposo trentina dove suo figlio l’aveva abbandonato tre mesi prima, faceva sempre un caldo del demonio. Eppure la ragazza dell’animazione aveva un dolcevita.
Si sedette senza staccarle gli occhi di dosso e sentì la presa di una mano callosa. Si voltò: era Alfio.
«Non diserbare un cane. È rublino della zoffa.»
«Sì, Alfio. Fottiti, vecchio matto. E finisciti ‘sto budino! Sono due ore che abbiamo pranzato.»
Il compagno scosse il capo e tornò a guardare la tv. Cesare osservò bene la ragazza. Che fosse una vegana? Passò in rassegna i presenti. Mancava anche il Borgogno e quel tizio in sedia a rotelle.
Intrecciò le dita sulla pancia. «Forse qualcuno ci ammazza» sussurrò «e l’unico a saperlo sono io.»
«No, Cesare. Lo so anch’io.»
Tirò su la testa. Al di là di Alfio c’era il Mansueto seduto al suo solito posto.
«Anche tu? E come lo hai scoperto?»
«Come? Io sono qui da due anni, caro mio» scuoteva la testa per un inizio di Parkinson. «Questi ci danno da mangiare robaccia! E le infermiere sono delle streghe. Lo sai che la Doris tiene una di quelle bombolette antistupro in tasca? Per gli Alzheimer aggressivi, dice. Qui veniamo a morire» bisbigliò incurvando le sopracciglia. «È come dici tu: ci ammazzano.»
«No, Mansueto, non hai capito. Qui ci ammazzano davvero! Ci sono gli alieni qui a Gardolo! Alieni mostruosi che mangiano i morti. E il direttore glieli fornisce, capito?»
«Come in “Visitors”?»
«Cosa?»
«O come in “La guerra dei mondi”?»
«Ma di cosa parli, Mansueto?»
«Gli alieni! E tu come lo sai?»
Quella domanda centrava il punto. Nessuno sano di mente gli avrebbe creduto senza prove. Se davvero volevano ammazzare dei vecchi per farli mangiare alla delegazione vegana, dovevano avere un posto dove tenerli. Magari un frigorifero.
«Tu dove terresti dei cadaveri?» chiese, sporgendosi e abbassando la voce.
«Nella sala mortuaria.»
«E che roba è?»
Mansueto si lisciò il mento e si guardò attorno. Si sporse a sua volta. «È dove portano gli ospiti morti prima che vengano trasferiti all’obitorio dell’ospedale.»
Quello poteva essere il posto giusto. Sospirò e scosse la testa.
«Ma siamo solo dei poveri vecchi. C’è poco da fare.»
Alfio sorrise. «Il termostato terzulla se non l’apri.»
«Appunto.»
In tv una donna sorrideva. «Purgolax, non farti bloccare dalla stitichezza!»
Cesare sbarrò gli occhi: quella sconosciuta aveva ragione.
«No! Non dobbiamo farci bloccare! Mansueto, non si è morti finché non si è morti. Vieni con me.»
Si alzò. «Alfio, dammi quel budino.»
Senza aspettare risposta afferrò il bicchiere del compagno e s’incamminò verso le scale. Aveva quasi raggiunto la porta della sala comune, che la Doris lo raggiunse con le mani sui fianchi.
«Cesare? Torni al suo posto.»
«Subito.»
Finse d’inciampare lanciandosi contro la donna. Le lanciò il budino sul petto e, urtandola, infilò la mano nella tasca dell’uniforme. La donna gridò, lo scostò e guardò con orrore il budino colare nella scollatura.
«Scusa, Doris!»
Il donnone sibilò, si voltò e si diresse verso il bagno di servizio. Cesare fece cenno al Mansueto e quello gli si avvicinò.
«Eccola!» il vecchio indicò la mano di Cesare. Aveva preso qualcosa. Era uno spray al pepe. Lo mise in tasca e infilarono la porta verso il corridoio.
«Che se ne fa, quel cerbero della Doris, di ‘sta roba?»
Scesero le scale e raggiunsero il piano interrato. Percorsero il corridoio cercando di non far rumore.
Esaminarono un magazzino e una stanza piena di prodotti per le pulizie finché si trovarono di fronte a una doppia porta da cui uscivano delle voci rauche. La targhetta riportava “sala mortuaria”.
Un nuovo brivido di paura scosse Cesare. Forse avrebbe fatto meglio a lasciar perdere e tornare in sala comune, ma poi ripensò allo slogan “non farti bloccare”. Si guardò attorno. C’era un bagno in fondo al corridoio.
«Mansueto, vieni con me: ho un piano.»
Entrarono nel bagno, Cesare aprì una porta e afferrò la cordicella dell’allarme vicino al water. Un sospiro e tirò. La sirena cominciò la sua pedante cantilena.
«Presto, andiamo a nasconderci!»
Uscirono in fretta per andare a infilarsi nel magazzino delle scope. Cesare attese di sentire la porta aprirsi e i passi nel corridoio. Col cuore che spingeva contro lo sterno, uscì, controllò attorno e fece cenno al Mansueto di seguirlo.
Entrarono.
Contro il muro sul fondo c’era un altarino con due candele e una statua della Madonna, mentre ai lati erano sistemati due grandi tavoli. A terra c’erano quattro grosse buste nere con una zip. Una era rimasta aperta e dentro c’era il cadavere della Zamboni.
«Porco boia! La conosco quella!» disse Mansueto.
«Shh! Fa’ silenzio. Controlliamo le altre.»
Con mani tremanti tirò le cerniere. Erano loro: il tizio sulla sedia, la Zamboni, Borgogno e l’Antonio.
«Puttana miseria, Mansu. E ora che facciamo?»
Mansueto scosse il capo e sollevò le spalle. «Niente. Siamo arrivati tardi. Questi sono morti.»
Cesare sospirò guardando Antonio. Lui era simpatico. Avevano giocato a carte qualche volta e ora se ne stava lì, con gli occhi chiusi e le mani sul petto.
Accartocciati in un angolo c'erano dei pigiami. Dovevano essere quelli indossati dai cadaveri. Da questi spuntava un foglietto scritto a pennarello. Cesare lo prese e lesse: “Attenzione piscio”.
«Attenzione? Che cavolo…»
La porta si aprì con un tonfo. La Doris li guardava con occhi furenti.

Per punizione furono relegati nelle loro stanze. Passò il pomeriggio nel terrore. Si aspettava che uno di quei mostri entrasse in camera. Alle cinque gli portarono la cena. Polenta e gorgonzola. Quando aprirono la porta per poco non gli venne un colpo. Alle sette anche l’Alfio venne a dormire.
Per non doverla affrontare, si finse addormentato mentre la Doris infilava il catetere al compagno.
Rimasero soli.
«Lupi e giocattoli non sono da bere» disse Alfio svitando il tappo della valvola del catetere.
«Su questo non ci piove.»
Osservò il compagno di stanza che, come ogni sera, si sfilava il tubicino dal pisello. Si rigirò nel letto sentendosi un vecchio incapace. Non si sarebbe mai aspettato di provare ancora tanta paura alla sua età. Di sicuro quella notte non sarebbe uscito per pisciare.

Le posate tintinnavano contro tazze e piattini. Cesare teneva le mani sulle ginocchia tenendo d’occhio ogni tavolo. Contò le sedie vuote e realizzò che mancavano due persone. L’Enrico Uber e… Il Mansueto.
Quando gli portarono la tazza col caffellatte si rivolse all’inserviente: «Dove sono l’Uber e il Mansueto?»
L’uomo inarcò la bocca e fece schioccare la lingua. «Purtroppo ci hanno lasciati. È la vita.»
La dentiera si staccò dal palato e cadde sul tavolo. Aveva dimenticato l’adesivo. La raccolse e la tenne in mano osservando i propri denti. Mansueto aveva pagato per essergli stato amico. Quel poco di fame che gli era rimasta sparì.
Il mostro aveva chiesto sei cadaveri. Ieri ce n’erano quattro e ne avevano presi altri due. Avevano scelto Mansueto perché li aveva scoperti? Ma allora perché non lui?
Come il trillo di un campanello un’idea lo colpì. Attenzione piscio.
Era quello che intendeva il foglietto, era un'indicazione per gli alieni perché, forse, erano allergici all’urina umana! Questo avrebbe spiegato perché non erano entrati in camera sua: Alfio la faceva sempre fuori e l’odore era tremendo. Forse per quei mostri era addirittura velenoso, altrimenti perché scrivere “attenzione”?
Cesare sollevò lo sguardo. L’inserviente aveva un foulard attorno al collo. O aveva un terribile mal di gola o anche lui era un maledetto vegano.
Controllando il resto del personale notò che più d’uno aveva il collo coperto. Di sicuro era un modo per coprire una cerniera o qualcosa del genere. Erano lì per preparare il banchetto. Erano lì per mangiare i cadaveri dei suoi amici. Ma no, non li avrebbero mangiati.
«Cesare, hai dormito male anche stanotte?»
La Maria lo guardava con un misto di curiosità e preoccupazione. Cesare infilò la dentiera e la spinse contro il palato.
«Questa notte, sì, Mariuccia. Ho dormito di merda.»
«Beata Vergine! Ancora coi tuoi modi da operaio!»
«Da manutentore, mia cara.»
Cesare si alzò in piedi. «Ora scusami, ma ho da fare.»
Si avvicinò ad Alfio e gli mise una mano su una spalla.
«Non si è morti finché non si è morti, vecchio mio. Grazie.»
Quello sorrise. «Quando la torta subebere non si lascia.»
«Parole sante, Alfio. È ora di fare qualcosa.»

Cesare aspettò che la ragazza di turno pulisse la bocca alla signora Bottesi che aveva rimesso anche quella mattina. Uscì in corridoio e premette il tasto dell’ascensore.
Riordinò le idee. Doveva salire al quarto piano dai lungodegenti e raccogliere tutti i cateteri pieni dalla notte. Sarebbe stato un po’ schifoso, ma doveva farlo.
Salì. Il corridoio era deserto. Entrò in una camera dopo l’altra sfilando le buste di piscio come aveva imparato a fare osservando Alfio una sera dopo l'altra. Ne raccolse una dozzina e infilò tutto in una federa, tornò e prese l’ascensore.
Il ding dell’apertura porte sembrò la campanella di un ring. Aveva il fiato corto. Entrò nel corridoio.
Nessuno.
Si diresse verso la sala mortuaria e sentì le voci rauche del giorno prima. Prese un sacchetto, lo infilò sotto un’ascella come una cornamusa e afferrò il tubicino tra le dita. Era pronto a schizzare piscio in faccia a chiunque gli si fosse parato davanti.
Con la mano libera prese la maniglia e contò: uno, due, tre.
Balzò dentro con tutta la furia concessagli dall’età. Spruzzò i due uomini vestiti da medico. Questi strillarono e caddero a terra. Solo in quel momento notò che c’era anche la Doris. La donna gli si buttò contro con il volto contratto dall’ira. La spruzzò, ma quella lo agguantò per il bavero. Era un essere umano, dopotutto.
«Ancora tu! Adesso ti faccio passare la voglia di sbirciare.»
La donna mise una mano nella tasca dell’uniforme. La sua espressione mutò dall’ira alla sorpresa e Cesare capì. Infilò la mano in tasca e trovò lo spray al pepe rubato il giorno prima.
«Cerchi questa, cicciona?»
La spruzzò negli occhi. Quella si mise ad urlare e cadde in ginocchio tenendo le mani sulla faccia. Cesare raccolse un candelabro dall’altare e lo calò sulla testa dell’infermiera con tutta la forza rimastagli.
La donna stramazzò al suolo.
Il vecchio prese fiato. Si chinò su uno dei dottori, slacciò il colletto e notò un solco che faceva il giro del collo. C’infilò un dito e una maschera si aprì col suono di uno strappo. Un testone da mollusco s’allargò sul pavimento. Questa volta non pulsava e non cambiava colore.
Rimase qualche istante ad ammirare la propria opera, poi decise che era arrivata l’ora di fare ciò per cui era venuto. «Rendiamo immangiabili questi manicaretti.»
Aprì le buste per cadaveri stese a terra. Mansueto aveva un’espressione serafica.
«Dormi tranquillo, amico mio. Nessuno profanerà il tuo corpo.»
Raccolse dalla federa un catetere e innaffiò d’urina la salma dell’amico.
Vuotò tutte le buste, si volse e uscì. Tornò indietro e chiamò l’ascensore. Assieme al campanello sentì una fitta terribile alla testa. La vista si oscurò mentre le parolacce della grassa infermiera gli riecheggiavano nelle orecchie.

Aprì gli occhi. C’erano altre persone con lui. Una era la Doris. Aveva ancora gli occhi rossi e gonfi.
L’altro era il direttore, poi c’era un tipo elegante. Con una sciarpa.
«Ecco, si è svegliato» disse l’infermiera.
Solo in quel momento Cesare realizzò di essere in una sorta di locale tecnico, legato a una tubatura.
«Signor Cesare» il direttore si aggiustò gli occhiali sul naso «Doris mi ha detto che lei sta cercando di sabotarci. Ma lei lo sa quanti soldi ci danno i nostri amici Vegani per questo posto? Pensa che in ogni casa di riposo si mangi polenta e gorgonzola, panada, tortei di patate e soppressa? Nossignore! Semolino!»
Si diede un contegno e sospirò.
«Gli anziani sono così caparbi. Sono a un passo dalla fine e si aggrappano a quei barlumi di vita con tutta la dentiera» scosse il capo. «Mi permetta di presentarle il presidente Tomasi. Anche conosciuto come Gsngroh quarto del clan Borloghl. Il nostro miglior finanziatore.»
L’uomo elegante slacciò la maschera e il suo testone molliccio si gonfiò liberando suoni bagnati.
«Signor Cesare» la voce era la stessa di quella notte. «C’è qualcun altro che sa della natura di questo luogo?»
«Io… non so.»
«Lei ha guastato un’ottima portata, sa? Beh, non che questo sia un vero problema: qui il cibo ben stagionato abbonda. Abbiamo scelto questo luogo apposta. Come si dice? Ceniamo in pace.»
Il vegano si rivolse al direttore «Lo faccia lavare bene: puzza troppo così com’è. Non riesco a interrogarlo avanti, comincio a sentirmi male. Tornerò più tardi.»
Raccolse la maschera e la premette sulla testa finché non tornò ad avere l’aspetto di un uomo d’affari. Uscì.
Il direttore si rivolse a Doris: «Lavalo bene. Penso che lo terremo come bis per il banchetto di oggi pomeriggio.»
«Però, io non lo ammazzo.»
«Ma no, ma no. Tranquilla. Hanno i loro sistemi, i loro riti. Faranno loro. Tu lavalo e lascialo qui.»

Doveva essere passata l’ora di pranzo. Era ancora nudo e legato al tubo, ma almeno si era asciugato.
Forse il direttore aveva ragione. Forse davvero la vita di un vecchio come lui non valeva la pena di essere salvata. Sicuramente la sua era ormai segnata.
«Ho solo riempito di piscio i cadaveri dei miei amici. E mi sentivo un eroe.»
Invece era finito prigioniero degli alieni e, presto, sarebbe stato anche il loro pasto. Ormai non doveva mancare molto all’incontro.
La porta si aprì.
«Non felpare la trottola o s’intrupperanno.»
Alfio! Il compagno di stanza gli sorrideva. Si avvicinò con uno dei coltelli del refettorio e lo usò per tagliare la fascetta di plastica che lo legava al tubo.
«Alfio, vecchio pazzo! Ma allora tu sapevi tutto.»
Il vecchio sorrise e annuì.
«Per questo pisciavi sempre a terra?»
«Non si mangiano le papere.»
«E nemmeno i nostri amici, perdio! Anche se resta poco da vivere. Non si è morti finché non si è morti.»
Cesare prese il coltello dalle mani di Alfio e lo alzò come una spada.
«Combatteremo!»
Poi guardò l’Alfio. «Tu hai un’idea? Ho svuotato tutti i cateteri e ho passato tutto il tempo legato a questo stupido tubo…»
Spalancò la bocca folgorato da un’idea.
«Vieni, Alfio! Seguiamo questo tubo.»
Uscirono e percorsero il corridoio fino ad una porta metallica. Spinse la maniglia anti-panico e si trovarono all’aperto sul retro dell’edificio. Cesare andò sicuro ad un grosso rubinetto rosso chiuso con due coperchi a vite.
«Il sistema antincendio di una struttura così si attacca direttamente alla rete idrica. E c’è sempre un attacco motopompa per il passaggio in pressione ai montanti e per… l’innesto dei vigili del fuoco.»
«Hai scorreggiato?»
Cesare rise, svitò uno dei coperchi, allentò un rubinetto facendo leva col coltello e si mise ad orinarci dentro.
«Se ne hai un po’, Alfio, è il caso che la tiri fuori.»

Salirono. Cesare era nudo, ma sembrava che avessero evacuato il ricovero: non c’era nessuno e non si sentiva alcun rumore.
Entrarono nelle cucine. Cesare raccolse un rotolo di carta casa. Mentre lo svolgeva qualcosa oltre la portafinestra rapì la sua attenzione. Un elicottero stava atterrando nel cortile. Era molto meno rumoroso di quanto si sarebbe aspettato. Mentre le pale rallentavano, vide scendere degli uomini in fila. Ne contò venti. Le pale si fermarono. Una di queste si piegò su sé stessa, diede una grattata alla superficie del mezzo e tornò dritta.
«Quello è un elicottero come io sono uno scaldabagno!»
Ora che sapeva che gli alieni erano nella struttura accese il gas e vi gettò sopra la carta.
Alfio lo guardò con timore. «Stuzzichiamo la gheppia o ci facciamo fuori?»
«No, no. Usciamo di qui!»
Attraversarono il cortile mentre tutti gli idranti a soffitto del piano cominciarono a spruzzare acque e urina. Grazie a quell’innaturale silenzio, riuscirono a sentire degli strepiti provenienti dall’interno. Risero e ballarono sotto la pioggia leggera.

«Caspitate le prefelle!»
«Porta pazienza, Alfio. Stanno solo lavorando. Alzo il volume.»
Cesare si alzò dalla poltrona, raccolse il telecomando e alzò.
C’era un gran viavai di poliziotti, infermieri, dottori… Con quella confusione si faticava a seguire il tg.
Tornò a sedersi.
«Sono contento che ci spostino. E tu?»
«Ssh!» fece Alfio con un dito davanti alla bocca.
Alla tv c’era la casa di riposo. Era difficile capire cosa dicessero, ma sotto passava la scritta: “Alieni in Trentino. ET: veniamo in pace, vogliamo solo le vostre carcasse.”
«E non le avrete, bastardi. Dico bene, Alfio?»
Passò Maria a braccetto con un’infermiera.
«Cesare» si spostò un riccio bianco dalla fronte. «Ma è vero? Mentre gli ospiti erano drogati tu e Alfio avete salvato tutti?»
«Maria cara, siediti vicino a me a pranzo e ti racconterò ogni cosa. Incluso come abbiamo pisciato in testa a quei musi verdi.»
Uscendo la donna gli dedicò un sorriso e Cesare diede di gomito ad Alfio.
«Visto? Non si è morti finché non si è morti!»
Guardò fuori. Finalmente aveva smesso di piovere.

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roberto.masini
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Stramonium horribilis

Messaggio#3 » domenica 1 dicembre 2019, 18:09

Stramonium Horribilis
Prologo. La notte di San Lorenzo di quell'anno, il 12 agosto 2020, fu particolarmente fantastica: anche i più distratti videro numerose scie argentee solcare il cielo di Alessandria, la mia città, quella che i detrattori chiamano una città grigia e gli scrittori dell’horror, misteriosa, immersa nella nebbia. Ma, come è ovvio, la nebbia non c’è d’estate.
Astronomi dilettanti riuniti sulle colline vicine calcolarono un numero di più di cento meteore tra le undici e mezzanotte. Io mi trovavo sul balcone del mio appartamento. Avevo appena finito di rivedere la puntata di Ai confini della realtà intitolata Chi è il vero marziano; amavo particolarmente la scena finale del marziano con tre braccia che cerca invano di spaventare il barista, non sapendo di aver a che fare con un venusiano il cui terzo occhio era nascosto dalla bustina, calata sulla fronte.
Ecco là una stella cadente! E un’altra ancora! Sembrava cadessero addirittura nel vicino viale che conduce al cimitero. E poi in alcuni parti accanto agli argini che costeggiano il fiume Bormida, sempre a un chilometro da casa mia. L’unico cruccio era l’assenza di mia moglie e di mia figlia che erano al mare: mi schernivano sempre perché il numero delle stelle cadenti che vedevo io era di gran lunga inferiore ai loro avvistamenti! E io, invece, quella notte ne avevo viste tantissime.

Le mummie alessandrine. La settimana dal 17 al 23 agosto cominciarono le sparizioni: due donne, un uomo e un bambino. Le forze dell’ordine si concentrarono soprattutto sul bambino che, contrariamente agli altri, non poteva essersi allontanato volontariamente da casa. Si sospettava un rapimento.
Ero stato tutta la settimana a Camogli con i miei ma la domenica ero ritornato a casa e stavo godendomi una cena sontuosa che mia moglie avrebbe definito invernale. Avevo iniziato con un antipasto a base di vitello tonnato tiepido; avevo proseguito con un piatto di rabaton[*Il nome di questi gnocchi di forma allungata, a base di spinaci ed erbette, con salvia, rosmarino e ricotta, cotte in brodo caldo e poi passate in forno, deriva dal verbo rabater, che in dialetto significa rotolare. Questa curiosa origine si spiega col fatto che per conferire ai Rabaton la caratteristica forma allungata, sono fatti rotolare sulla spianatoia infarinata.]. Stavo per affondare la forchetta nel brasato al barolo, quando squillò il cellulare.
«Pronto, dottore? Sono Galli.»
«Mi dica, capitano!»
«Abbiamo ritrovato il bambino!»
«Dove?»
«In prossimità dell’argine che costeggia la cascina Pezzano!»
«Vengo subito!»
Mi precipitai dopo pochi minuti nel luogo indicato che distava da casa mia circa due chilometri.
Io sono l’anatomopatologo dell’ospedale di Alessandria; mi chiamo Ernesto Cellerino ed esercito la professione da vent’anni. Quello che vidi quel giorno non lo scordai mai più. Riverso alla base della scarpata, in mezzo a un gruppo di grandi fiori bianchi, c’era il corpo mummificato di un bambino.
«Che mi dice?» mi domandò il capitano Galli con un’espressione attonita.
«I tessuti biancastri e secchi fanno arguire che si tratta di un cadavere privo di sangue e di tutti gli altri liquidi, completamente disidratato.» risposi.
«Ma dov'è finito tutto il sangue? Non ce n’è traccia intorno al corpo!»
Mi stupii di dover io suggerire una lapalissiana risposta a un investigatore che mi sembrava particolarmente stravolto:
«Forse l’operazione di mummificazione è avvenuta altrove!»

Sul tavolo autoptico mi stavo martellando le labbra con il pugno chiuso. La visione di quel corpo infantile mi procurò uno strano brivido; ero abituato ormai da molto tempo a sezionare cadaveri ma non mi ero mai trovato davanti a una mummificazione.
La prima operazione fu, come sempre, uno sguardo generale al corpo del bambino. Incominciai a registrare:
«Autopsia di Claudio Robotti di anni 9. 24 agosto 2020, ore 11.49. Il corpo del bambino si presenta biancastro e con la pelle dall'aspetto pergamenacea e durissima al tatto; non ci sono escoriazioni, tumefazioni o altri traumi cutanei che facciano pensare a oggetti contundenti che abbiano causato emorragie interne. Non ci sono punture di ago né inconsuete colorazioni della cute e ipostasi cadaveriche che suffraghino l’ipotesi di un avvelenamento. Ho accostato il naso alla bocca socchiusa del bambino ma non ho percepito odori particolari. Ho esaminato l’algor mortis con esame rettale; il termometro misura una temperatura di 29°, ipotesi che farebbe risalire la morte a non più di dieci ore prima, il che però risulta improbabile. Passo all'esame interno. Dopo il taglio a “Y” sulla cassa toracica, ho tagliato nervi e costole in modo tale da raggiungere gli organi interni da rimuovere, sezionare e pesare. L’operazione è durata più a lungo del previsto perché né bisturi né coltelli sono stati in grado d’incidere la pelle. Ho dovuto utilizzare una sega vibrante. Una volta operato a fatica il taglio, ho scoperto che il cadavere era completamente privo di liquidi organici: né sangue, né liquor, nulla! Ho pesato tutti gli organi interni principali: cuore, polmoni, stomaco, fegato, cistifellea, cervello e ossa. Tutte pesano 1,6180380 mg; sono in sostanza senza peso. Non esiste spiegazione scientifica per questa totale disidratazione!»

In settembre in piena notte furono trovati, nelle campagne circostanti, i corpi scomparsi delle due donne e dell’uomo. Erano tutti mummificati e le autopsie che praticai mi diedero gli stessi inconcepibili risultati che avevo ottenuto con quella sul bambino. Quando dico gli stessi inconcepibili risultati, voglio proprio affermare che la loro pelle era biancastra, incartapecorita, durissima da tagliare; che la temperatura interna era di 29° e il peso degli organi interni era di 1,61803 mg.
A ottobre sparirono altre tre donne che gli inquirenti non riuscirono a trovare, anche se le campagne intorno ad Alessandria furono perlustrate minuziosamente.

Morire tra le rose. A fine ottobre accadde qualcosa d’insolito che diede una svolta alle indagini. Lungo il viale che porta al cimitero fu ritrovata una ragazza.
Quando giunsi là, un telo bino ricopriva la vittima. Mi avvicinai al capitano Galli che stava interrogando un anziano di alta statura dall'aspetto segaligno:
«Lei si chiama?»
«Mi chiamo Giovanni Bianco; sono un pensionato delle Ferrovie.»
«Mi racconti di nuovo quello che ha detto al mio collega.»
L’anziano, pur palesando una certa insofferenza, rispose:
«Stavo portando a spasso il cane come tutti i giorni al mattino presto. Quando sono arrivato all'altezza di quel lampione là,» disse, indicando il luogo dove era accasciata la ragazza, «il mio Blek ha incominciato ad abbaiare e allora l’ho vista e mi sono avvicinato. Ma che cosa le è successo? Una malattia?»
«Non sappiamo ancora nulla. Piuttosto, mi dica, che ora era?»
«Le nove circa. Di solito esco prima ma la domenica come oggi sto un po’ a poltrire in casa!»
Quando il testimone fu congedato, il carabiniere mi condusse vicino al corpo:
«Questa mattina, molto presto (ma questo deve confermarcelo lei) questa ragazza, che si chiamava Gloria Santi, stava facendo jogging, quando qualcosa l’ha distolta dalla corsa e si è avvicinata al roseto che c’è al centro della strada.»
Alzai il telo; il corpo era mummificato, bianchissimo e privo di sangue come gli altri cadaveri che l’avevano preceduta in quei mesi.
Esaminai con cura anche il corpo della povera ragazza. Non trovai nulla di diverso tranne alcuni fori sulla guancia e su un braccio, probabilmente provocati dalla spina di una rosa.
Tornai sul viale e colsi dall'aiuola le rose schiacciate dalla ragazza e alcune altre vicine intatte.
Le analizzai nel mio laboratorio. Erano rose provenienti dalla Moldavia di color roso, rosa e giallo, con gambo lungo e grosse spine. I fori nel corpo della ragazza erano compatibili con quelle grosse spine ma nessun frammento avevo rilevato all’interno. Feci esami tossicologici su quei fiori che non mi portarono a niente.
Non sapevo che fare.

Mentre i corpi delle altre ragazze non si trovavano, decisi di rileggere tutti i miei appunti su quegli strani cadaveri, dal ritrovamento all'autopsia. E fu così che mi accorsi di un particolare che mi era sfuggito. I corpi del bambino, delle due donne e dell’uomo, ritrovati in campagna si trovavano in mezzo a grandi fiori bianchi. Decisi di tornare sul viale per vedere se ce n’erano anche nell'aiuola dove era stata trovata senza vita Gloria Santi.
Era notte quando raggiunsi il viale che conduceva al cimitero. Con l’aiuto di una torcia tra le rose scorsi alcuni fiori bianchi, screziati di rosso, di forma tubolare, chiusi; mi sembravano quelli dello stramonio comune, una pianta a fiore, appartenente alla famiglia delle Solanacee, volgarmente detta erba del diavolo o noce spinosa. È una pianta velenosa a causa dell'elevata concentrazione di potenti alcaloidi, in particolare la scopolamina, presenti in tutta la pianta e soprattutto nei semi. Le foglie di grandi dimensioni con margine dentato e frastagliato erano proprio quelle dello stramonio. Ma i fiori di questa pianta sono impollinati dalle farfalle notturne perché si aprono solo di notte e invece quelli erano chiusi. Cosa ancor più strana era la contemporanea presenza di frutti, capsule globose della grandezza di una noce e irte di spine (da qui il nome di noce spinosa).Erano forse quelle e non le spine delle rose che si erano conficcate nel corpo di quella ragazza. Scavai con un rastrello fino a raggiungere la radice a fittone, asportai tutto e lo infilai in un contenitore di plastica che avevo portato con me. Analoga operazione feci con un'altra pianta che si trovava lungo l’argine dove era stato ritrovato il bambino. Mentre stavo risalendo la scarpata, la torcia illuminò qualcosa di luccicante. Mi chinai e raccolsi un microscopico frammento che mi sembrava roccia.
Portai tutto nel mio laboratorio, dove preparai due terrari in vetro, chiusi da tutti i lati con un coperchio bucherellato. Riposi il frammento di roccia in una teca. Alle tre di notte decisi che potevo andare a dormire.

Il Vampiro Vegetale. La mattina dopo mi svegliai e mi precipitai nel laboratorio. I fiori bianchi erano sbocciati e accanto a loro c’erano molti frutti. Infilai in uno dei fori del coperchio una cannula con la quale cercai di spostare una grande foglia sotto la quale c’era un fiore. Non appena lo toccai, una noce spinosa esplose contro la parete di vetro una serie incredibile di spine. Alcune fuoriuscirono dai fori del coperchio ma per fortuna (come scoprii dopo!) non mi colpirono. Le raccolsi con estrema cautela e iniziai a esaminarle. Mi aspettavo di trovare i suoi peculiari alcaloidi allucinogeni, quali la scopolamina e l’atropina, che ne hanno fatto una pianta usata per scopi terapeutici nei rituali magico-spirituali dagli sciamani di molte tribù indiane e che in Europa le hanno procurato il nome di erba del diavolo o delle streghe.
Invece estrassi qualcosa di sconosciuto la cui formula chimica era assurda: pareva appunto una commistione tra beta-carbolinalcaloidi e morfina, che non reagiva con materie inorganiche, mentre disidratava completamente quelle organiche.
La stessa esplosione di spine avvenne quando toccai, con maggior cautela, i fiori dell’altro terrario. Decisi di aspettare la notte. In effetti, la pianta dormiva e quindi potei esaminare fiori, foglie, spine e semi racchiusi nella noce. Tutte contenevano quella strana sostanza che nemmeno lo spettrometro di massa, utilizzato in seguito riusciva a riconoscere.
Passai a esaminare il frammento di roccia che avevo quasi dimenticato. Come avevo sospettato, si trattava di un frammento di meteorite. Anzi, per la precisione, si trattava di una condrite carbonacea. Rilevai tracce d’acqua, carbonio, alluminio, calcio, sostanze organiche e amminoacidi.
La notte successiva furono ritrovati i corpi delle tre ragazze scomparse. Erano tutte mummificate in mezzo ai fiori dell’erba del diavolo.
Decisi di fare un esperimento, utilizzando una cavia che abbandonai nel terrario a tarda sera. Una telecamera riprese, secondo dopo secondo, tutto ciò che accadde. Di notte nulla con la cavia addormentata. Di giorno lo spettacolo più incredibile a cui avevo assistito. La cavia si avvicinò, forse per rosicchiare una foglia. Non appena sfiorò un fiore, dalla noce spinosa furono lanciate spine che, colpito il porcellino d’India, lo lasciarono irrigidito. A quel punto il frutto dal quale erano partite le spine si piegò sull'animale e incominciò a succhiarlo, aumentando di volume insieme alle spine. Quando la noce assunse le dimensioni di un pallone da calcio, si staccò dalla cavia, rimpicciolì e contemporaneamente spuntò un altro fiore bianco screziato di rosso.
Provai a ritoccare i fiori ma non provocai alcuna reazione. Chiaramente la pianta era sazia e inattiva! Così scoprii come mai chi aveva raccolto i cadaveri non era stato colpito dalle spine.

«Signor questore, io non sono un visionario!»
«Dottor Cellerino, mi permetta. Nella sua relazione lei afferma che la causa di queste strane morti sia da attribuire a una pianta arrivata dallo spazio profondo con le meteore di San Lorenzo. Aggiunge note, secondo lei chiarissime, sul comportamento di questa pianta aliena che reagisce solo di giorno, se vengono sfiorati i suoi fiori e suggerisce perciò di coglierla solo di notte. Conclude sulla necessità della sua completa distruzione prima che provochi altre morti. Ho anche visionato il suo video. In tutta franchezza come fa lei, un uomo di scienza, a credere a queste cose, andiamo! I nostri esperti dicono che ci troviamo semplicemente di fronte a una nuova specie di pianta carnivora non ancora classificata, perniciosa ma facilmente eliminabile. Le consiglio un lungo periodo di riposo!»
Era evidente che pensava fossi pazzo.
Quando però il botanico, venuto da Roma a raccogliere la pianta in pieno giorno, dopo aver sfiorato un fiore, fu colpito da una spina e morì, allora si decise che la pianta doveva essere distrutta.
Peccato che la pianta fosse indistruttibile. Ci provarono con il fuoco, con il ghiaccio, con ogni tipo di acido. Tagliata a pezzettini di notte, ricresceva come se fosse stata un verme. Bombe e napalm non riuscirono a scalfirla. Qualche astronomo formulò finalmente la mia stessa ipotesi della natura aliena della pianta.

“Il caso è il solo sovrano legittimo dell’universo.” (Balzac). Mentre tutti i migliori botanici del mondo, isolati i luoghi intorno ad Alessandria dove si trovava quello che avevano definito stramonium horribilis, facevano esperimenti per trovare l’elemento che l’avrebbe distrutto, anch'io cercavo di trovare una soluzione. Ripensando a un vecchio film di fantascienza intitolato La meteora infernale che veniva distrutta non da un acido ma dall'acqua salata, provai a utilizzare non acidi ma conservanti a partire proprio dall'acqua. Sulle mie due piante riversai in sequenza zucchero, benzoato di sodio, nitrito di sodio, biossido di zolfo, sorbato di potassio, solfato di rame e di zinco e infine formaldeide. Non successe nulla, nemmeno la più piccola reazione.
Frustrato dagli insuccessi, mi abbandonai a una sana bevuta. Avevo una bottiglia di Barolo del 2006 che decisi di scolare completamente. A metà ero già completamente brillo e in quelle precarie condizioni mentali, di fronte alle due erbe del diavolo che occhieggiavano dai terrari, ebbi una reazione inconsulta. Scagliai la bottiglia contro uno di questi sui quali avevo di nuovo collocato un coperchio bucherellato. Il vino colò sulla pianta e i fiori cominciarono a sfrigolare e a decomporsi insieme alle foglie e alle noci spinose.
“Certo!” pensai, “Deve essere stato l’etanolo, un alcol che conserva. La mia intuizione è stata giusta!”
Versai altro vino sull'altra pianta in preda a una gioia incredibile che mi fece urlare parole sconnesse, mentre dai terrari fuoriusciva del fumo biancastro che mi avvolse tutto; sapeva di menta.

Epilogo. Oggi, 17 novembre 2028, sto raccontando questa tremenda avventura ai miei nipoti. Mi prendono per mano e mi fanno sedere sull'altalena e poi aspettano che io cominci. Quando ho finito, mi riaccompagnano dentro casa; non lo fanno perché sono vecchio e stanco ma perché sono diventato cieco. Quella nube biancastra mentolata mi ha reso cieco. Nonostante tutto, da quel giorno, dopo aver avuto onorificenze in tutti gli stati, ho girato il mondo per raccontare che qualcosa al di là del nostro sistema solare esiste ed è pericoloso.
Anche se sono cieco, ogni giorno alzo gli occhi al cielo perché solo io so che il rischio che abbiamo corso potrebbe ripresentarsi.

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Re: Semifinale Angelo Berti

Messaggio#4 » venerdì 6 dicembre 2019, 23:51

A voi i commenti di Angelo Berti:

IL BANCHETTO VEGANO
Il racconto intreccia temi fantascientifici e horror molto sapientemente.
L’autore dimostra padronanza e capacità nella gestione della trama, riuscendo a nutrire il lettore di tutte le informazioni che servono per proseguire nella lettura.
I personaggi hanno una caratterizzazione superficiale, senza background, ma sufficiente e coerente allo svolgimento del racconto, che non lascia alcun vuoto narrativo.
La genialità dell’alieno allergico mortalmente al piscio umano è una trovata molto divertente.
Un paio di appunti: alcuni elementi sono di difficile approvazione. La diluizione dell’urina che i due anziani immettono nel circuito antincendio avrebbe percentuali di acqua talmente alte che l’urina non potrebbe essere nociva nemmeno per alieni mostruosamente sensibili. Considera che l’urina umana ha già una composizione di quasi il 95% di acqua. Magari avrei reso disponibile un numero maggiore di sacche, oppure integrato l’urina con dell’ammoniaca, giustificando anche scientificamente la reazione degli alieni. Inoltre la gestione dei cateteri non è così semplice e tantomeno quotidiana, ovvero non te lo mettono la sera e lo tolgono al mattino continuamente (per gli incontinenti si usano pannoloni e traverse assorbenti. I cateteri, come exrema ratio, sono usati per coloro che hanno difficoltà motorie specialmente nei post operatori). Sfilarsi da solo un catetere è possibile ma doloroso, spiacevole e soprattutto pericoloso. Ma non lo valuto errore e lo concedo in virtù della motivazione finale: in fondo con i cateteri evitavano spargimento di urina.
L’accenno al tema culinario locale è al limite della sufficienza (proprio una caccia al bonus) e i vecchi come cibo non valgono come tema del contest (  ).

STRAMONIUM HORRIBILIS

Ottima costruzione. Ottima la narrazione in prima persona che è solitamente di difficile gestione, limitando i dialoghi. In sostanza si deve gestire un soliloquio continuo, in questo caso ben riuscito.
La caratterizzazione è inutile nel contesto del racconto e non se ne avverte la mancanza. Il background del personaggio è accennato quanto basta perché sia funzionale alla storia. Ben congegnata. I termini scientifici sono appropriati e non sparati a caso, come talvolta capita nella fantascienza di bassissimo livello, il che pone questo racconto in una fascia medio alta.
Anche in questo caso il tema culinario locale è solo accennato.
Una nota anche qua per una piccola incongruenza: all’esame visivo del corpo del bambino non ha riscontrato punture di ago, eppure sono le spine che lo hanno colpito, come l’altra vittima (Gloria Santi) sulla quale le ferite erano evidenti seppure attribuite alle spine delle rose.


CONCLUSIONE

Due racconti di ottimo livello, che rendono estremamente difficile un giudizio.
Entrambi gli autori hanno strappato il bonus cibo con furbi escamotage.
Da precisare che essendo il contest riferito ad Alieni a Crema, in quel romanzo i Tortelli Cremaschi hanno un ruolo da protagonista.
Per i temi, le tecniche narrativa, le genialità delle trame, sarei per un impossibile (per il contest) pareggio.
Se la giocano ai punti.
Non potendo definire elementi importanti di merito o demerito, la differenza vincente la segna il maggiore impegno scientifico di Stramonium Horribilis.

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