Semifinale Ivan Alemanno

Per partecipare alla Sfida basta aver voglia di mettersi in gioco.
Le fasi di gioco sono quattro:
1) Il due gennaio sveleremo il tema deciso da Dario Orilio. I partecipanti dovranno scrivere un racconto e postarlo sul forum.
2) Gli autori si leggeranno e classificheranno i racconti che gli saranno assegnati.
3) Gli SPONSOR leggeranno e commenteranno i racconti semifinalisti (i migliori X di ogni girone) e sceglieranno i finalisti.
4) Il BOSS assegnerà la vittoria.
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Spartaco
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Semifinale Ivan Alemanno

Messaggio#1 » domenica 2 febbraio 2020, 23:06

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Eccoci alla seconda parte de La Sfida a Dreamscapers.
Accedono in semifinale: Scheggia, di Eugene Fitzherbert e Filomena deve morire di Andrea Lauro.

In risposta a questa discussione gli autori semifinalisti hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare allo SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che ha passato il girone.
Quindi possono sfruttare i giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: martedì 04 febbraio alle 23:59
Limite battute: 21.666


Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 04 febbraio. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione!



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Eugene Fitzherbert
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Re: Semifinale Ivan Alemanno

Messaggio#2 » martedì 4 febbraio 2020, 18:00

Scheggia
di Eugene Fitzherbert


1. Diagnosi
Il dottor Curlo si chinò sul volto del Capoquartiere Torres. «Tiri su il collo, Signore.» chiese. Le guance rubiconde erano butterate da escrescenze ossee che emergevano dall’interno. «Esostosi Paraversa.» Sentenziò. Prese una pinza e ne afferrò una. «Stringa i denti…» e strattonò con fermezza. La scheggia di osso venne via con un clac.
«Cazzo!»
«Scusi, signor Torres. Ho bisogno di questo campione per vedere se c’è qualcosa di strano.»
«Il fatto che mi crescano queste schifezze su tutto il corpo non è abbastanza strano?» Torres sbuffò infastidito. «Devo prendere farmaci o mi conviene arruolarmi nel prossimo circo?»
«Siamo nel 1899, Signore, e viviamo nel Regno delle Due Sicilie, il più avanzato nell’intera Europa. Con La Lavonite dei nostri giacimenti facciamo miracoli. Niente circo per lei.» Rispose Curlo, porgendogli una crema.
«Balsamo Trasducente?» Chiese il Capoquartiere.
«Deve applicarne un po’ sulle spalle e sulle caviglie e poi…» Il dottore prese un dispositivo a manovella, simile a un macinacaffè, sormontato da una cupola di vetro trasparente e fece oscillare i tre cavi che pendevano da una delle facce. «...Attaccarvi sopra questi elettrodi a suzione. Giri la manovella fin quando non vedrà le statiche nella sfera di controllo. Le forze galvaniche e l’impedenza delle ossa invertiranno la crescita minerale.»
«Sembra una stronzata, per usare le parole dei filosofi, ma mi fiderò di lei. Dio sa se non ho battuto ogni strada per risolvere questo problema.» Torres mise da parte il marchingegno. «Le va un cognac, Curlo?» E senza attendere risposta: «Luiza! Due cognac.»
Dall’ombra vicino alla porta della camera di Torres emerse una ragazzina magra dai capelli lunghi. Senza emettere un suono, con lo sguardo a terra, uscì e tornò dopo pochi secondi con i bicchieri.
Quando i due uomini iniziarono a sorseggiare il liquore, Luiza si mosse per andarsene.
«Ma no, Luiza, resta qui.» Torres la attirò a sé. «Stasera dovrai aiutarmi con la terapia.» E si leccò le labbra. Il dottore finì il drink. «Signor Capoquartiere, la contatto appena ho novità. Metta il Balsamo tre volte al giorno.»
I due si strinsero la mano e a Curlo sembrò di strizzare un sacchetto pieno di denti.

2. Etiologia
Due giorni dopo, al tramonto, Curlo si precipitò nello studio di Torres, portandosi dietro l’aria sporca di Brundisium. Varcata la soglia, rimase interdetto.
«Non è proprio un bello spettacolo, vero?» Lo apostrofò Torres.
«Non speravo in un vero miglioramento.»
«Anche se ho sentito dire che questo galvanismo fa resuscitare i morti, a me ha fatto solo addormentare le mani.»
L’Esostosi Paraversa era peggiorata e Torres era simile a un mostro dalla faccia raggrumata. Le mani erano degli artigli di pelle e osso, e sotto la camicia il torace e le spalle erano deformate.
«Signor Capoquartiere, ho due notizie.» Deglutì. «La prima: lei non è malato.»
«Certo, sono il ritratto della salute. Peccato per questi tumori ossei. Lo sa che preso sette chili? E non per quello che mangio, ma perché ho le ossa grosse! In effetti, non sono malato.»
«Non mi fraintenda. Lei non ha una malattia e le terapie non servono a niente.»
L’altro rimase in silenzio in attesa.
«Tutti i test clinici che ho fatto sono risultati alterati, quasi impossibili… Il frammento di osso ha continuato a crescere staccato dal resto del corpo. E poi, la reazione con l’Idrossido di Gallio ha prodotto una...»
«Non mi interessano i dettagli. COSA. HO.»
«E va bene.» Strinse le labbra. «Lei ha una maledizione.»
«Eh?»
«Una specie di malocchio ma molto più grave. Probabilm…»
La risata sguaiata di Torres lo interruppe. «Non ci posso credere. Mi avevano detto che era un tipo aperto, ma mi aspettavo che fosse votato alla modernità.» Sbuffò una risata amara. «E ora mi viene a dire che sono vittima di un incantesimo?»
«Signor Capoquartiere, sono affascinato dalle conoscenze… occulte.» Il cuore gli batteva a mille. «E quello che ha è peggio di un incantesimo. Sa chi è Siapath, il Signore delle Ossa?»
Lo sguardo scettico di Torres lo indusse a non aspettare la risposta. «È un Dio temuto in Medio Oriente, dalle tribù nomadi dei deserti.»
«Maledetti barbari.»
«Un altro nome con cui è noto Siapath è il Rheumator, il Portatore Di Dolore. Lei è vittima di una maledizione antichissima.» Curlo tirò fuori un libro dalla sua borsa. «È una punizione riservata a gente malvagia: dapprima le ossa crescono, fino a ricoprire il corpo. Dopo un periodo di preparazione, interviene il vero potere del Rheumator. Il libro non entra nei particolari, si limita a dire è doloroso.»
Torres lo guardava con gli occhi sgranati. «Ho paura a chiedere qual è l’altra cosa.»
«Non abbiamo molto tempo.»
«Lo temevo. C’è una soluzione?»
«Il libro parla di un Sigillo che serve a tenere viva la maledizione. La sua distruzione porta alla regressione del maleficio. Ha dei nemici?»
«Sono il Capoquartiere, perdio, ho rovinato decine di persone e ne ho favorite altre che ricatto ogni giorno. Ho solo nemici, come ogni persona del mio rango in una città pericolosa come Brundisium. Ma non è il loro stile: loro mi taglierebbero la gola o mi sparerebbero con un Arroventatore.»
«Uhm… Quando ha avuto i primi sintomi?»
Torres ci pensò un po’ su. «Circa quattro settimane fa, sì.»
«L’hanno invitata in un posto inusuale?»
Torres guardò il soffitto. «Un mese fa… No. Niente di che.»
«Posso avere un po’ d’acqua?» Chiese Curlo, per guadagnare un po’ di tempo.
«Certo. Luiza! Porta…» Torres si bloccò. «Per la barba di Garibaldi!»
«Eh?»
«LUIZA!» La ragazza entrò di corsa. «È LEI! Un mese fa mi è stata recapitata qui. Vede, adotto delle ragazzine dell’Orfanarium grazie a un accordo con Madame Convals, una vecchia puttana francese che mi deve la vita. Regalo loro un po’ di benessere, così la megera può adottarne di altre.»
«E Luiza?»
«Lei si è presentata da sola a casa con una lettera della Convals. Strano, certo, ma non avevo una sguattera a casa e lei era carina. Perché rifiutare?»
Nel frattempo Luiza si era avvicinata con il bicchiere d’acqua.
«Potremmo interrogarla.» propose Curlo.
«Ma no! È sicuramente lei la causa!» E le diede un ceffone sulla nuca. «Facciamola fuori e basta. È una sguattera, non interessa a nessuno.»
Curlo era inorridito. «Se ci sbagliamo, perdiamo l’unica persona che potrebbe dirci qualcosa. E il tempo stringe. Interroghiamola.»
«Non si può! La ragazza è muta
«Ne avevo il sospetto». Disse il dottore, ripensando a Luiza che non aveva emesso suono nonostante le percosse. All’improvviso il suo sguardo si illuminò «Ho la soluzione! Andiamo nel mio laboratorio.»
Torres sculacciò la ragazzina, per sottolineare la sua approvazione. «Non sei contenta di uscire di qui, Luiza?»

3. Esame Obiettivo
Curlo corse veloce tra i vicoli del Quartiere Aloysiano di Brundisium, seguito da Torres che si trascinava dietro Luiza. Si aggirarono per pochi minuti tra i vicoli, mentre il sole scendeva dietro ai palazzi di marmo riccamente decorati tipici di quel quartiere ricco.
Curlo li condusse giù per una scala nel suo laboratorio: uno scantinato occupato da un enorme macchinario.
«Ecco L’ipno-Induttore, la prima macchina per collegare le menti.» Disse, con orgoglio Curlo. «La sua sola esistenza mi farebbe finire nelle Prigioni di Faraday.»
«Dove hanno messo Mazzini, no? Peccato che il suo amichetto Garibaldi sia stato fatto fuori prima!» Torres rise, ma poi tornò serio, lo sguardo da squalo. «Grazie per questa informazione, comunque.»
Curlo si rese conto di aver detto troppo. Che idiota! «Userò l’Ipno-Induttore per interrogare Luiza. Prepariamoci.»
Torres diede uno spintone alla ragazza. «Avanti, sgualdrinella, è il tuo momento.»
La macchina era composta da due chaise longue munite di legacci, collegate con tubi di rame e cuoio a un corpo cilindrico di legno alto due metri. Tra le intarsiature di ottone, c’erano degli indicatori ad ago e un paio di barometri. Sulla cima della colonna, in una teca brillava rossastra una pietra di Lavonite carica di energia.
Curlo tirò una leva e la macchina cominciò a ronzare. «Adesso viene il bello.» Abbassò due interruttori e ruotò una manopola. Un getto di vapore sfiatò da un ugello e la Lavonite si accese come un tizzone ardente.
Torres osservava il medico, per distogliere l’attenzione dal prurito che serpeggiava per tutto il corpo. Poteva sentire quelle piccole schegge bastarde che crescevano dentro il suo corpo. «È tutto pronto?»
«Eh, sì, sì, un attimo.»
Curlo afferrò una maniglia e aprì uno sportellino sulla struttura di legno scoprendo il motore portante dell’Ipno-Induttore.
«Ma cosa…?» Le parole di Torres furono coperte dal rumore di Luiza che si accasciava priva di sensi.
Dietro lo sportellino, immerso in un liquido gelatinoso illuminato dalla Lavonite, galleggiava un cervello umano, sospinto da una corrente di bolle d’aria.
«Mi aiuti a stendere la ragazza.»
Torres rimase immobile, stupefatto. «È un cervello vero
Curlo lo guardò. «, è un cervello. , è tenuto in vita artificialmente. E , grazie a lui interrogheremo la ragazza. Ora mi dia una mano. Presto
Torres mollò un ceffone alla ragazza. «Apri gli occhi, principessa. Il dottore ti deve rovistare nella testa.»
Luiza aprì gli occhi, cerea. Cercò di divincolarsi, ma il Capoquartiere la tenne ferma, mentre Curlo la legava alla sedia.
Curlo prese un paio di occhiali dalle lenti oscurate, fatti di legno e ottone, e li assicurò sul volto di Luiza. La ragazza cercò di sottrarsi, ma Torres la calmò con pugno nello stomaco.
Dopo aver controllato nuovamente il caschetto della ragazza, Curlo si accomodò sull’altra chaise longue. «Vado.»
«E io?»
«Se vede qualcosa di strano, tiri quella maniglia rossa.» Poi Curlo si calcò il suo casco sulla testa e tirò una leva.
Le bollicine nel cilindro aumentarono e comparvero delle scariche elettriche intorno al cervello. Luiza si inarcò sulla sua lettiga tendendo le cinghie e poi si accasciò in un sonno profondo.
Il Capoquartiere osservò Curlo: il dottore ruotava la testa come se si stesse guardando intorno. Lo udì grugnire, quando i tubi che arrivavano al caschetto di Curlo furono percorsi da vapore e luce.
Il dottore si contorse in preda al dolore, le mani strette all’inguine. Mugolò qualcosa di incomprensibile, come se all’improvviso avesse perso il dono della parola. Singhiozzò ancora, mentre le mani si toccavano il petto e l’inguine come per difendersi.
A Torres quell’atteggiamento sembrò famigliare. Si era già trovato di fronte a quella scena?
«Dolore. Umiliazione.» Le parole uscirono dalla bocca di Curlo in un rantolo. «Devo andare più dietro, prima di questo orrore.»
E Torres capì. Curlo era entrato nella testa della ragazza e stava percorrendo i suoi ricordi. Aveva appena passato il momento in cui lui e Luiza si erano conosciuti. Cazzo! Probabilmente sapeva quello che aveva fatto alla ragazza. Doveva fermarlo.
Allungò la mano verso la maniglia rossa. Al diavolo l’interrogatorio!

4. Anamnesi Remota
Prima del dolore.
Prima dell’Umiliazione.
Prima del Silenzio.
«Come ti chiami, tesoro?»
«Luiza Korlova, signora.»
«Quanti anni hai?»
«Dodici.»
La donna al di là della scrivania è la nuova Padrona dell’Orfanarium. Non conosco il nome, ma è dolce. Perché mi ha convocata stanotte?
Ho paura.
«Luiza, non temere. Devo chiederti un favore.»
Stringo le mani, ma non dico niente.
«C’è un uomo a cui tu devi portare un dono.»
«Devo portare un pacchetto?»
La Padrona dell’Orfanarium sorride. «Luiza, sarai tu, il pacchetto. Sarai il dono e il pacchetto.»
«Non capisco.»
«Non c’è bisogno.»

I ricordi sono spezzati, le immagini sfocate.
Una stanza buia e una lampada fatta di ossa. Davanti a me c’è un braciere pieno di tizzoni ardenti e una pentola dove bolle dell’acqua salmastra.
«Le vestigia del Rheumator devono essere dentro di te, per condurle fino al nostro uomo.»
Sento odore di bergamotto e cannella.
«Respira il vapore, ti terrà pura.»
Mi inchino e il calore dell’acqua mi colpisce il volto e mi fa sudare.
Una mano getta nella pentola della povere bianca e l’acqua sembra impazzire. I vapori si intensificano. Mi ritraggo, ma mani decise mi afferrano le spalle e la testa e mi spingono a pochi centimetri dalla superficie ribollente. Chiudo gli occhi.
«Basta, vi prego.»
«Luiza», la voce della Padrona ha il potere di calmarmi. «Respira, come se fosse un suffumigio. Stai respirando acqua santa, non può farti male.»
Ubbidisco e respiro a bocca aperta. Un odore di morte mi investe la gola: ha il sapore di un sasso ricoperto di sangue vecchio, l’odore di vermi sotto una tomba scoperchiata. E mi penetra bruciante nel petto. Un fiotto di quell’acqua maledetta, o benedetta a un Dio sbagliato, mi schizza nella gola. Poi c’è la tosse squassante: un dolore lancinante mi lacera la gola e dalla bocca sputo due grumi rossi, filiformi.
«Il prezzo è stato pagato. Siapath ha accettato la voce del Vessillo. La maledizione è pronta per essere inviata.» La padrona mi abbraccia. «Brava Luiza. Ora viene la parte difficile. Verrai mandata da un uomo che ti vorrà bene nel modo peggiore possibile. Sii forte.»
Cerco di parlare, gli occhi spalancati per il terrore, ma nessun suono esce dalla mia bocca.
È arrivato il silenzio.
Poi il Dolore.
E l’Umiliazione.
E finalmente la maledizione.
Sono il pacchetto e il dono.


Torres tirò la maniglia rossa, interrompendo il collegamento.
Curlo si sedette di scatto e si strappò il caschetto dalla faccia. «Cosa ha fatto a questa povera bambina?»
«Suvvia, Dottore.» Minimizzò Torres. «Non si scandalizzi per un po’ di divertimento. E poi ha quattordici anni, è praticamente una donna.»
«Ne ha dodici, perdio!» Il dottore si alzò a fronteggiare Torres. «Dovrei denunciarla.»
«Dottore, lei deve solo guarirmi e dimenticare. Così anche io dimenticherò i progetti contrabbandati che potrebbero costarle un soggiorno nelle Prigioni di Faraday, per usare le sue tesse parole. Che ne dice, dottore?»
Curlo strinse i denti, in trappola.
«Bene. Abbiamo un accordo. Ha scoperto qualcosa nella testa di questa stronzetta?»
Dopo il racconto di Curlo, Torres slegò la ragazza e la prese per i capelli. «In marcia. Si torna a casa, bellezza, all’Orfanarium di madame Convals!»

5. Terapia
Il gruppo lasciò il ricco Quartiere Aloysiano alla volta del Rione Paradisium con le sue case di tufo e legno e il degrado che lo contraddistinguevano. Curlo rimuginava per metabolizzare le visioni delle violenze subite dalla ragazza. Davanti a lui, Torres, deforme per le esostosi paraverse, arrancava trascinando una Luiza in lacrime, dallo sguardo stravolto.
«Non capisco», disse Torres. «Perché madame Convals ha architettato tutto ciò? Sono anni che la aiuto a mantenere a galla il suo Orfanarium.»
Curlo non rispose.
«Quella stronza avrà molto da spiegare. E ce n’è anche per te, puttanella.» Aggiunse strattonando la piccola. «Quando questa storia sarà finita, diventeremo molto amici…»
Dopo una serie di svolte, davanti a loro emerse l’Orfanarium, con le inferriate e le pareti grigie e scrostate. Torres imboccò un vicolo e spalancò una porta laterale che dava nelle cucine. Il Capoquartiere si fece strada deciso tra cuoche e sguattere terrorizzate. «Levatevi davanti, idiote!»
Curlo seguì Torres su per una scaletta e lungo un corridoio fino a una porta a due battenti.
«Siamo arrivati.» La spalancò e si tuffò oltre.
Curlo, entrando, notò la targa: M.me Geneviève Convals era stato cancellato con una riga.
«Dove cazzo sei, maledetta bastarda?» tuonò Torres avanzando al centro della stanza. Luiza, accanto a lui, singhiozzava, spaventata.
Curlo chiuse la porta e riconobbe subito l’ambiente: era quello che aveva visto nei ricordi di Luiza. C’era la scrivania, la sedia in pelle e, seduta, una donna dalla carnagione olivastra.
Torres rimase interdetto. «E tu chi sei? Dov’è quella stronza di Madame Convals?»
«Capoquartiere Torres, non si parla così davanti a una bambina.» Volse lo sguardo a Luiza. «Vero, Luiza?»
Curlo riconobbe quella voce. «Lei è il capo dell’Orfanarium!» esclamò.
«Esatto.»
«Capo? E la Convals?»
«Signor Torres, Madame è morta tre mesi fa. Da quel momento, io mi occupo della gestione.» Osservò il suo interlocutore. «Come mai è qui, Capoquartiere?»
«Lo puoi vedere da te, megera. Sei stata tu a farmi questo.»
«Per la sua condizione, dovrebbe rivolgersi a un medico.»
«Sono qui grazie al medico. Dimmi del sigillo.»
La donna ridacchiò. «Ha fatto i compiti, Capoquartiere! Il sigillo è al sicuro e non lo avrà mai. E poi, perché interrompere la maledizione ora che è al suo apice?»
«Ma chi sei?»
«Non ti ricordi di me? Mi avevi detto che ero stata unica. Sono la piccola Fanie.» La donna sorrise, ma i suoi occhi si indurirono. «A undici anni mi hai seviziato. Per un anno e mezzo, mi hai maltrattato e punito per poter fare la pace. Sono la bambina che hai distrutto, tra lacrime e sangue.» Le labbra si incresparono in una smorfia di odio e disgusto. «E anche la piccola Luiza ha subito lo stesso trattamento.»
Il Capoquartiere inclinò la testa in una posa interrogativa.
«La maledizione era programmata per scattare alla prima violenza. Ed eccoti qua, con quello che ti meriti, mostro
Il Capoquartiere si lanciò verso la scrivania, ma la donna gli puntò un arroventatore a disco: l’arma piatta e lunga ronzava carica e pronta a sparare le due munizioni incandescenti. «Ah ah, Torres. Niente movimenti strani o ti trancio in due.»

6. Complicanze
Le armi da fuoco metteva a disagio il dottore soprattutto quando uno dei due proiettili era destinato a lui. Curlo si fece avanti per far ragionare Torres.
«Signore, la prego, usiamo un po’ di diplomazia.»
Torres lo guardò, illuminato dalla comprensione.
Quando Curlo fu a un passo dal Capoquartiere, Torres lo afferrò e lo scagliò contro la scrivania.
D’istinto, Fanie fece fuoco: il disco rovente colpì Curlo tra il naso e l’occhio sinistro, tagliandogli un enorme pezzo di cranio. Mentre la coscienza del dottore di spegneva in un grumo di sangue e cervello sul pavimento vicino a Luiza, Torres ribaltò la scrivania su Fanie e con una manata fatta più di osso che di carne le strappò via l’arma.
«Il sigillo. ORA!» disse, afferrandola per il collo.
«Preferisco morire.»
«Non sarò così clemente con…» Ma non riuscì a finire la frase: il suo braccio si piegò in una posa innaturale e una fitta lancinante lo attanagliava fino alla spalla.
Torres perse la presa sul collo di Fanie e la ragazza si divincolò.
Il corpo del Capoquartiere era in balia della maledizione: l’avambraccio era ricoperto di spuntoni che gli stracciavano gli indumenti, il volto era un incubo biancastro in cui si intravedevano gli occhi; la bocca era ricoperta da una museruola di ossa. E sotto la pelle e i muscoli, il suo scheletro deformato cominciava a cedere, sgretolandosi in decine di fratture, quasi franando su sé stesso.
«Strega bastarda!» urlò. Suoni di rami spezzati emergevano del suo corpo in rovina, mentre nuove ondate di dolore lo squassavano.
«Rheumaton.» Disse Fanie mentre gattonava via, un sorriso sul volto lucido di sudore. «Il Portatore Di Dolore.»
L’aria della stanza fu lacerata dall’esplosione sibilante dell’Arroventatore attivato da Luiza. Il disco colpì il Capoquartiere al braccio. La lama rovente scalzò un’Esostosi di almeno venti centimetri e rimbalzò verso Fanie, stracciandole la veste sulla schiena.
Gli occhi di Torres si illuminarono. «Eccolo!» E si lanciò sulla donna, strappando la camicia e scoprendo del tutto il Sigillo, inciso nella carne come una enorme cicatrice.

7. Exitus
Fanie, schiacciata pancia a terra sotto il peso del Capoquartiere, rimase senza fiato, incapace gridare mentre quel bastardo le scopriva l’intricato arabesco inciso sulla schiena.
Torres si trovava di fronte al Sigillo di Siapath, un teschio appoggiato su due mani ossificate: affondò l’artiglio che era la sua mano destra nella schiena di Fanie, strappandole brandelli di pelle, nonostante le dita disarticolate. Lei si inarcò per il dolore. Sotto la maschera di ossa, Torres sorrise. «Ti piace così?» Si piegò sull’orecchio di Fanie. «Mi sta venendo duro. Come osso!» e scoppiò in una risata sguaiata, mentre riduceva il Sigillo a un ricordo fatto di sangue.
Luiza si lanciò contro il Capoquartiere, e cominciò a tempestarlo di pugni. Nonostante avvertisse piccoli cedimenti nelle profondità della carne di Torres, notò qualcosa che la terrorizzò: i capelli sulla nuca fecero capolino, quando due enormi spuntoni piatti si assottigliarono e indietreggiarono fino alle orecchie.
Stava guarendo!
«Levati di dosso, piattola!» Strillò Torres e spedì la ragazzina sul pavimento. «Di te mi occuperò dopo.»
Luiza rotolò vicino alla scheggia di osso staccata dall’Arroventatore. La afferrò e dentro di lei sentì qualcosa che esplodeva e la riempiva. Il sapore di un sasso ricoperto di sangue secco le riempì la bocca, mentre il naso si saturava dell’odore di vermi sotto una tomba scoperchiata.
«IO SONO IL DONO! E ANCHE IL PACCHETTO!» Urlò e la sua voce era una cacofonia di ossa che si frantumavano.
Fanie vide gli occhi di Luiza spegnersi, diventare vitrei e poi calcinarsi, come biglie di gesso giallastre. «Siapath! Il Signore delle Ossa.»
Luiza si avvicinò a Torres e con un colpo secco piantò la scheggia nella nuca del Capoquartiere. Lo spuntone emerse dalla bocca e da lì cominciò a scorrere un rivolo di sangue denso. Mentre il corpo del Capoquartiere si accasciava al suolo, il sangue divenne polvere rossastra e poi una fine sabbia d’ossa che si disperse sul pavimento.
Fanie corse a sorreggere Luiza mentre cadeva stremata. La guardò negli occhi, che erano diventati quelli luminosi e malinconici della bambina che era. Fanie la strinse forte e con la testa affondata nel suo nei suoi capelli, la sentì dire: «Il baghtaddo è motto?».
Fanie riuscì solo ad annuire tra le lacrime.
La maledizione stava lasciando anche lei.

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Andrea Lauro
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Re: Semifinale Ivan Alemanno

Messaggio#3 » martedì 4 febbraio 2020, 18:25

Filomena deve morire
di Andrea Lauro

I (1944)
Nello specchio vedo un’Elisa diversa: l’ultimo mese è stato il più lungo della mia vita.
Infilo i guanti, aggiusto la gonna, mi pongo di tre quarti e l’immagine risponde. Alzo il mento, sostengo lo sguardo.
Cerco dignità, invece vedo una donna composta. Ho affrontato la scomparsa di Carlo: posso farcela.
L’immagine mi osserva, noto l’ennesima ombra di incertezza.
Inspiro e le parole escono d’un fiato: “Filomena ha tradito l’amore della mia vita e l’ha consegnato ai fasci.”
Ecco, ora l’immagine è corretta. Nello specchio vedo dignità.
Filomena deve morire.

Ricordo (Primavera 1933)
“Ehi, ma tu sei in classe con me: fatti vedere. Che hai da piangere?”
Alzai la testa. “Nulla,” feci.
“Nulla? Non mi sembra,” rispose lei. Si guardò intorno.
Poco lontano, gli altri bambini continuavano a farmi il verso.
“Che hanno, quegli stupidi?”
“Niente,” ripetei, “me la so cavare.”
Quella raccolse dei sassi, prese la mira e fece fuoco.
“Ecco, se ne sono andati. Dai, vieni.”
Fu così che conobbi Filo.

II
Non tarderò: oggi si compie il mio piano. Il lungolago di Salò corre sotto i miei piedi.
Sarà vera Giustizia, non quella dei tribunali. Primo, perché oggi i tribunali sono in mano al nemico. Secondo, perché Filomena non merita la prigione per ciò che ha fatto: il tradimento si paga con il tradimento. Lei ha consegnato Carlo ai fascisti, ora io la consegnerò ai partigiani: è intelligente, capirà l’ironia.
Nel golfo, un equipaggio di canottieri spinge sui remi, dietro di loro incalza la barca d’appoggio. Sono uomini dediti alla causa, la rotta è obbligata e proseguono senza esitazioni: così farò io.
Ma se voglio andare fino in fondo, devo essere onesta con me stessa. La mia non è Giustizia, non posso arrogarmi questo diritto. La mia è Esecuzione, o meglio ancora Vendetta.

Ricordo (estate 1935)
“Filo, e se poi non ci vedremo più?”
Mi guardò meravigliata: “Come sarebbe a dire?”
“Dico: se al liceo troverai delle amiche migliori di me?”
Mi prese le mani nelle sue: “E tu credi possa succedere?”
Sentii il sangue salire alle guance. Distolsi lo sguardo. “No, ma… ho paura.”
Avvicinò il suo viso al mio. “Eli, tranquilla. Ci sono qui io a proteggerti.”

III
Arrivo puntuale all’incontro con Gianni, partigiano e amico di Carlo; mi ci siedo accanto, fingo di cercare qualcosa nella borsetta.
“Elisa. Venendo qui corro un grosso rischio.”
“Non pensi ne valga la pena?”
Sospira. “Immagino di sì, se è per Carlo.”
“Ho chiesto che foste in due, però.”
Gianni fa un cenno alla sua destra: un uomo dalla parte opposta della piazza ci tiene d’occhio: ecco la spalla. Bene, tutto è pronto: il pensiero mi dà un brivido.
“Parlami della tua spia”, mi dice.
“Filomena.”
“La puttana dei fasci?”
“Sì” taglio corto.
Gianni mi fissa: “Una tua amica?”
Stringo la borsetta. “Un tempo, forse.”
Indica l’entrata del caffè di fronte a noi. “Come sai che si farà viva?”
“Sono settimane che la seguo e pianifico. Fìdati: il martedì esce dalla biblioteca e si ferma in quel caffè.”
“Ci viene sola?”
“Sì.”
“Come sai che è stata lei?”
Chiudo la borsetta e incrocio le braccia. “Diciamo che ho un forte sospetto.”
“Un forte sospetto? Qui non stiamo giocando, Elisa. Non mi basta un forte sospetto, devi essere sicura. Se ci muoviamo, quella puttana passerà guai seri.”
Non chiamarla puttana. “Ho chiesto in giro,” rispondo, “persone fidate. Carlo l’ha incontrata, prima di sparire. È stata lei, ma non so il perché.”
Mi ascolta, serio.
Continuo: “Senti, tu hai perso un amico, io qualcuno che amavo. Diciamo scomparso, ma sappiamo entrambi che fine ha fatto.” Oddio, mi rendo conto solo ora di quanto mi faccia male pronunciare queste parole.
Proseguo: “Se davvero l’ha consegnato ai fasci, voglio che paghi. Devo affrontarla, sentire cos’ha da dirmi.”
“E se fosse davvero lei?”
“Mi vedrai uscire da quel caffè e farti il segnale. Agirete subito: non possiamo lasciar passare troppo tempo. Potrebbe insospettirsi, cercare protezione.”
Annuisce: “La seguiamo fino al tram che la porta a casa, saliamo; scendiamo con lei a Gardone Riviera, poi la prendiamo.”
“Sì.” Mi dà quasi fastidio sentir ripetere il piano: è mio, non suo. Ma immagino voglia essere sicuro.
Gianni sospira. “Senti, io ho capito che sei furibonda, che la vuoi morta. Accetta solo un consiglio: quando sei lì dentro, non lasciare che le emozioni prendano il sopravvento.” Si passa una mano tra i capelli, si guarda attorno. “Quello che ti voglio dire, insomma, è che Carlo giocava una partita pericolosa.”
Mi raddrizzo. “Che intendi?”
Si incupisce. “Carlo da un po’ di tempo aveva alzato la posta. Ha cominciato a prendere ordini dai vertici della Resistenza. Non era più una semplice staffetta, capisci?”
No.
“Insomma, non mi stupisce che i fasci abbian messo la puttana sulle sue tracce. Pensi sia caduto in una trappola, io ti credo. Perché Carlo lavorava in incognito per portar informazioni fuori da Salò. Notizie su rastrellamenti, dispacci, roba che dovrebbe restar segreta. Aveva dei contatti qui, gente in alto. Questo ho capito dalle sue mezze frasi.”
Oddio. Stai davvero parlando del mio Carlo?
“So poco del resto. Ma un giorno mi confidò di aver per le mani qualcosa di grosso. Un’arma, mi disse, che i nazisti hanno costruito e che erano intenzionati a inviare proprio qui, sotto il nostro culo.” Si ferma, schiaccia colla punta della scarpa sigarette che non esistono.
“Che arma?” chiedo.
Scuote la testa. “Mai saputo. Senti,” continua, “l’ho ammirato, per quello che faceva; ma se si è fatto prendere, è perché giocava col fuoco. È stata la puttana dei fasci? La Guardia Nazionale durante una retata? Non cambia la sostanza: ora Carlo è in mano loro, e come finale era inevitabile.”
Non so se voglio ascoltarlo.
“Quello che ti sto dicendo è di non fare la sua fine. Non c’è niente che tu debba dimostrare: in quel caffè evita le pazzie, ti prego. Non so quanto bene conosci quella donna, ma fidati se ti dico che è pericolosa.”
La conosco bene: ora più che mai voglio il suo sangue.

Ricordo (autunno 1940)
Come si chiamava quel tizio? Era amico di amici. Mi venne incontro con fare spavaldo.
“Ehi, Elisa. Ho saputo che quella tua amica se la fa con i fascisti.”
“Come?”
“Sì, hai capito. Filomena.”
Risposi di getto: “Tu non sai quello che dici.”
“So benissimo quel che dico: sta col nemico. Sai come la chiamano? Puttana dei fasci. Credi che a Carlo faccia piacere che tu abbia quel genere di frequentazioni?”
“Sta’ zitto.”
Credo che quel tizio provasse gusto a distruggere qualcosa di bello. C’era riuscito.

IV
La vedo arrivare ed entrare nel caffè, tutto secondo i piani. Lascio Gianni, mi incammino: si comincia.
Perché Carlo aveva incontrato Filomena? Son settimane che ci penso, non ne vengo a capo. Perché un partigiano dovrebbe incontrarsi in un caffè con nientemeno che la Puttana dei fasci? Dannazione, devo smetterla di chiamarla così. È offensivo per lei, per me, per tutte noi. Nessuno si azzarderebbe a dare a un fascista o a un partigiano del puttaniere: perché sono uomini, non importa da che parte stiano.
Perché Carlo aveva incontrato Filomena?
Forse per tentare di avvicinarla: sapeva dei suoi frequenti abboccamenti con gli ufficiali fascisti. Cercava di convertirla alla causa? No, non quadra: era un gioco troppo pericoloso. Sarebbe stato più pratico parlarne con me: eravamo amiche di vecchia data, avrei tentato l’avvicinamento con più possibilità di successo.
Forse Carlo è un traditore: passava informazioni ai fasci attraverso Filomena. Che pensiero orribile. E poi questo non spiegherebbe la sua scomparsa, a meno che non si sia nascosto temendo ritorsioni. Ma se anche fosse, perché nascondersi da me? Nemmeno un addio? Forse la vera domanda è: quanto bene conosco Carlo? Comincio a nutrire dubbi in merito, dopo ciò che ho sentito da Gianni.
Forse Carlo era nel mezzo di un’operazione, ha incontrato Filomena e si sono scambiati cordialità. Di qui, il coinvolgimento della mia amica sarebbe solo casuale. In cuor mio spero sia andata così, che i pedinamenti e le pianificazioni dell’ultimo mese siano stati tempo buttato. È l’unica possibilità che le do per passarla liscia. Ma dovrà vendersi bene: non sono un’idiota, capirò se mente.
Forse è andata proprio come temo: Filomena l’ha attirato in una trappola. Ma come ha fatto Carlo a cascarci? Filomena gli aveva offerto o promesso qualcosa? Non ci devo pensare. C’è un limite anche alle congetture.
Apro la porta ed entro.
Metto in atto il piano.

V
Il caffè è affollato: meglio, daremo meno nell’occhio. Filomena è seduta al tavolo, sta leggendo un libro: m’avvicino, sposto la sedia e prendo posto.
Il rossetto di Filomena dipinge una grossa “O” sul suo volto.
“Eli! Oddio che piacere!”
“Filo.” Non so dire altro, d’improvviso sono bloccata.
“Quanto tempo. È bello vederti.”
Le parole non escono. È un mese che preparo il copione, la pallottola è in canna ma l’arma si inceppa.
“Eli, ehi. Tutto bene?”
Con che coraggio mi chiede se va tutto bene? Quella domanda ha il potere di sciogliere la mia lingua: “Filo, tagliamo corto con le ipocrisie: sai perché sono qui. Ho domande da farti.” Ecco, così va meglio.
Mi osserva, non capisco se con timore, stupore o semplicemente attenzione.
Vado dritta al punto: “Carlo è scomparso da un mese e mezzo: dimmi dov’è.”
Filomena si tira indietro, mette distanza tra preda e cacciatore. Il viso è tirato: “Oh Eli, mi dispiace molto, davvero. Ma non ho idea di dove sia. Come potrei?”
“Stai mentendo, Filo.”
Mi fissa, non risponde.
“Avanti. Parla.”
Arriva il cameriere, mi chiede cosa voglio ordinare.
“La mia amica se ne sta andando, grazie.” risponde lei, senza togliermi gli occhi di dosso.
Quello si allontana, così riprendo: “Tu non sei mia amica, Filo.”
“No, a quanto pare. Ma lo siamo state per molto tempo. E credevo lo fossimo tuttora.”
“Risparmiami la scena madre. Ti ho fatto una domanda.”
“Tu pensi di poter venire qui, una vita che non ti vedo, a farmi il terzo grado? T’ho dato una risposta. Non so niente di Carlo. Mi dispiace per la sua scomparsa, so che eravate una bella coppia. Ma non ne so niente.”
“A mentire fai schifo. L’ultima volta è stato visto con te.”
Il suo volto sbianca. Centro: allora è vero.
Si riprende in fretta: “Ti stai sbagliando.”
“Non ci provare, Filo. Mi sono informata: so che l’hai visto.”
Distoglie lo sguardo. Sta prendendo tempo, sta calcolando come uscirne: non intendo mollare.
“Vi siete visti in questo stesso caffè: voglio sapere.”
Resiste ancora un poco, poi manda un lungo sospiro. “Va bene. L’ho visto, sì.”
“Perché.” Non è nemmeno una domanda, è una pietra a cui non puoi girare attorno.
“Io… lo dovevo incontrare.”
“Perché?” Parla, maledetta.
“Elisa, io…”
“Perché l’hai consegnato alla Guardia Nazionale?”
Accusa il colpo, ma mi rendo conto che è per lo stupore.
“Cosa?” S’accorge d’aver alzato la voce, si guarda intorno e torna su di me. “Credi che l'abbia denunciato? È questo che pensi di me? Della tua amica?”
“Vuoi dire che non è così?” Ma qualcosa scricchiola, ora.
“Io… non potrei mai.”
“Spiegati.” Magari una volta per tutte, così la chiudiamo qui.
“Ci sono cose che non vuoi sentire.”
“In che senso?”
Rimane zitta, gli occhi in basso.
Contengo a stento rabbia e frustrazione; poi crollo. “Spiegati, dannazione!”
“Io... io lo amavo.”
Il colpo mi è arrivato da un angolo cieco, non ho preso fiato e l’effetto è devastante.
“Tu stai scherzando.”
“No, Eli.”
“Menti!” ed ora vorrei fosse davvero così. “Oddio, mi viene da vomitare.” Tutto sta accelerando.
“Senti, Eli…”
“Sta’ zitta! Stai zitta.”
Devo ragionare. Cos’è, uno di quegli incubi in cui tutte le cose capitano assieme, e non c’è modo di venirne fuori fino a quando ti svegli? E che fai se non puoi svegliarti? Prima mi dicono che Carlo è una spia, poi che mi tradiva: dolore nuovo e ben peggiore, rispetto a quello per la sua scomparsa.
Vorrei incenerire Filomena, qui e ora; eppure non le credo, sta nascondendo qualcosa. Deve essere così.
“Ma che razza di amica credi di essere? Cos’è, eran finiti gli uomini alla casa del fascio?”
Fatico a non alzare la voce, confido nel brusio di sottofondo. Comunque, al diavolo tutto. “Dimmi, l’hai fatto per invidia?”
“Io non…”
“Ma certo, è naturale, tu mi hai sempre invidiata,” le parole escono senza controllo, “era una continua competizione, per te: voti, amicizie, ragazzi. Ed ora che ho l’amore della vita, tu me lo porti via. Schifosa puttana.”
“Ora basta.” L’ordine arriva da una Filo che non conosco. Detto sottovoce, eppure carico di un’autorità che non mi aspetto: sarei stata pronta a fronteggiare una preghiera, un urlo straziato, uno schiaffo. Il suo è un comando che ha qualcosa di militare, che fa paura. È questo che si impara a stare con i cattivi? E per un solo, brevissimo momento che so di non perdonarmi, le invidio questo carisma.
Filomena parla in fretta: “Stammi bene a sentire, voglio che una cosa sia chiara. Parli di amicizia e neppure ti rendi conto di cosa mi hai fatto: tu sei scomparsa da un giorno all’altro, senza spiegazioni, senza appello. Siamo state inseparabili per anni, io credevo per sempre. Credi sia stato facile?”
Mi torna in mente quella frase, ho saputo che quella tua amica se la fa coi fascisti.
“E non ho ancora capito cosa possa essere successo. Mia madre è morta due anni fa, lo sapevi? Ti ho cercata, avevo bisogno di te e d’un tratto sei scomparsa.”
Tento una risposta: “Avevi altre amiche, ormai: avevi le compagne di liceo.”
“Cos’è, tu non avevi altre amicizie? Il nostro rapporto era ben diverso, Eli. Il fatto che io abbia conosciuto altra gente ti dà il diritto di sparire?”
Sto incassando, sono alle corde. “La guerra ci stava cambiando”, sussurro.
“La guerra! L’avremmo affrontata assieme!”
“Ma tu te la facevi coi fasci!” Oddio, l’ho detto. Vorrei tornare indietro.
Sembra che il tempo si sia fermato sul volto di Filomena: gli occhi sbarrati, le labbra dischiuse in uno stupore pieno di consapevolezza. Sembra fatta di cera.
Cerco di parare: “Scusa, non intendevo questo.”
“No, no. Tu intendevi esattamente questo.” La maschera ha ripreso vita. “Ma certo, tutto torna. Ecco spiegato perché non ti facevi trovare, perché sei sparita.” Pausa. “Tu sei convinta di quello che dici. Che stupida sono. Questo è il motivo.”
“Vuoi dirmi che non è così?”
Filomena si riscuote, mi fissa con uno sguardo nuovo. Pietà.
“Oh, Eli. Stavi davvero buttando la nostra amicizia?”
Questo è troppo. “Tu l’hai buttata! Sei uscita con Carlo! Cos’è questa, una spiegazione del perché mi hai fregato il ragazzo?”
Ora si sorregge la fronte, le esce una risata amara. “No, Eli, questa non vuole essere una spiegazione.” Scuote e rialza il capo. “Senti, è tutto molto complicato, più di quanto credi: ogni cosa a suo tempo. Te lo chiedo nel nome della nostra vecchia amicizia: fidati di me, ti spiegherò tutto. So che è dura, ma devi darmi tempo.”
Non so più cosa dire, non so più a cosa credere. Torno ad essere una bimba che cerca di capire perché gli altri la scherzino.
Ma sono ancora in tempo per ucciderla. Ci penso.
Poi accade qualcosa.

VI
Una voce penetra sottopelle. Non capisco da dove arrivi, ma è forte; non articola parole, eppure la comprendo.
Odio, dice. Dentro di te c’è odio. Spiegalo.
La risposta mi viene facile. Sono stata tradita.
Tradimento. Quali le tue intenzioni.
Vorrei ucciderla. Il perché non importa. Farla ammazzare dai partigiani.
Con chi sto parlando? Me stessa?
I partigiani.
Sì, sono lì che aspettano.
Alzati.
La voce è ferma, convincente.
Alzati.
Deglutisco, poi il mio piede si muove: non lo controllo. Sono intorpidita, sento freddo. Mi cade la borsetta dalle ginocchia: non vorrei, ma sto per farlo.
Alzati.
Panico. In quel momento una mano afferra la mia: una presa forte, calda come il sole. Calore che si propaga per l’avambraccio, su per la spalla fino a riempire il petto. Rinsavisco, metto a fuoco e vedo il volto preoccupato di Filomena.
“Eli, sono qui. Non ti muovere. Sono qui”, mi sussurra.
“Cosa?”
La sua mano è ferma, sento una sicurezza che in tutti questi anni mi era mancata. Voglio fidarmi di lei.
“Non ti muovere. Siamo in pericolo.”
La voce è sparita. Dietro di me sento una sedia spostarsi. Mi giro: un uomo in impermeabile si fa strada tra i tavoli. Il viso è così smunto che sembra affilato sulla mola, gli occhi roteano impazziti nei bulbi mentre avanza tra gli avventori. Sta cercando me?
I modi sono quelli di un alienato: barcolla spettrale, si ferma e riparte, scruta i clienti che ora gli restituiscono volti preoccupati, se non spaventati. Filomena non toglie la mano, il suo calore non mi abbandona. L’uomo fa un mezzo giro, vede che tutti lo fissano, emette un ringhio e corre fuori senza pagare il conto.
Torno a Filomena: anche lei fissa la porta, non si è persa un solo movimento.
La risposta non può essere semplice. “Filo. Tu… mi hai salvata.”
Non mi sta ascoltando.
“Ma non so da cosa”, continuo.
Lei torna a guardarmi, nei suoi occhi urgenza, calcolo di possibilità.
“Elisa. La faccenda diventa seria.”
“Eri tu nella mia testa?”, chiedo.
“Cosa? No. Ma so cosa ti stava accadendo. Quell’uomo.”
Brancolo nel buio, ovviamente. Ma son sicura che Filo può aiutarmi.
“Ascolta Eli, abbiamo poco tempo.”
“Che intendi?”
“Intendo che ti ho mentito, poco fa. Non ho mai amato Carlo.”
“Cosa?” L’ennesima doccia fredda.
“Hai capito bene. Carlo non era il mio amante.”
“Ma tu hai detto…”
“So quello che t’ho detto. L’ho fatto per proteggerti.”
Le mie difese sono azzerate. Non so più se posso crederle. Da quando ho deciso di mettere in atto il mio piano di vendetta, il mondo è andato in frantumi. Ero convinta d’aver tutto sotto controllo, di poter azionare da sola le leve.
“Se va come dico, presto avremo compagnia. Non intervenire. Lascia fare a me.”
Avrei voglia di piangere.

VII
Tempo un minuto, e oltre la vetrina vedo gli uomini della Guardia Nazionale Repubblicana. Fulmino Filomena: “La GNR! Mi hai tradito!” Eccoti, Elisa, sei in trappola.
Mi fissa, occhi indecifrabili. “Ti prego, Eli. Fìdati.”
I fasci entrano in forze. Uno sembra il capo, fa cenno agli altri, poi erompe: “Signori, consideratevi tutti agli arresti: vi prego di seguirmi al Comando. È un caso di sicurezza nazionale.”
Posso tentare di denunciarla. Alzarmi e dire: ehi, lei è con me, è una partigiana. Prenderebbero anche me, ma che importa ormai: Carlo non c’è più, la vecchia Filo non c’è più. Darei corso alla mia vendetta, chiuderei con dignità.
Poi penso alla mia amica, alla nostra forza insieme. M’ha chiesto di fidarmi di lei. Come posso?
Decido di fidarmi. Resto zitta.
Filomena si alza: “Capitano, che sta succedendo?”
Quello la guarda e la riconosce. “Filomena! Lei qui?”
“Come vede”, fa lei. Sembra che si trovi a suo agio, oppure è brava a mentire. “Che problemi ci sono?”
“Stiamo cercando dei partigiani, signorina.”
“In questo bar? In centro a Salò?”
L’ufficiale ammorbidisce i toni: “Così sembra, signorina.”
Nessuno fiata tra i tavoli, l’aria è fatta di spilli; molti staranno rimpiangendo lo strano uomo uscito pochi minuti fa, al confronto era una presenza accomodante. Ma Filomena no, lei sta ritta in fronte al pericolo senza batter ciglio.
“Comandante, col suo permesso, sono attesa tra mezz’ora al Ministero della Cultura Popolare.”
L’altro sta per rispondere, Filomena è più veloce: “Non appena il Ministro m’avrà licenziata,” e su ministro la sento calcare il tono, “sarò lieta di venire al Comando per la deposizione.”
Sembra quasi convinto. “La faccio scortare”, tenta lui.
Filomena ribatte con calma soprannaturale: “Apprezzo la sua premura, Comandante. Se anche ci fossero dei partigiani a spasso per Salò, non ho paura di loro.” Mi fa un cenno: “Sono in ottima compagnia, e questo mi basta.” Nel salone il tempo si è fermato.
Ci guarda, sembra pensarci su.
Ci fa cenno di andarcene.
Prendo la borsetta, misuro bene i passi, siamo fuori.
Gianni e il suo amico se ne sono andati.

Epilogo
Filomena è appoggiata al muretto, osserva il golfo.
“Non so cosa sia accaduto a Carlo,” dice. “Ha mancato gli ultimi incontri: temo il peggio. Sai, mi parlava di te. Credo sia un modo come un altro per mantenerci umani, in questi tempi di follia.”
Non avevo parlato per tutto il tragitto. “Sei della Resistenza?” chiedo.
Ride. “Insospettabile, vero? Il giorno che mi scopriranno, Dio solo sa quanto me la faranno pagare. L’ho messo in conto.” Si accende una sigaretta.
“Ero convinta che la spia fosse Carlo.”
“Oh, Eli, da un’amica mi aspettavo più solidarietà. Non ti dissi un giorno, vedrai che le donne governeranno la Terra? Consideralo un inizio.”
Pian piano metto a fuoco. “Quindi eri tu a passare le informazioni a Carlo. Sei tu a prenderti i rischi maggiori. Perché Carlo non mi ha detto niente?”
Mi sorride e capisco. La mia Filo.
“Davvero ti aspettano al Ministero?”
È divertita. “Al MinCulPop sono sempre attesa. Non preoccuparti, troverò un pretesto per giustificare la mia presenza.”
“Cos’è successo in quel bar? Ho sentito come… una voce.”
Annuisce. “Hai avuto a che fare con un mentalista. Uomini frutto di sperimentazioni segrete, su nei laboratori di Berlino. Hitler va matto per l’esoterismo. Creano individui che comunicano con la mente. Fiutano le emozioni più profonde così come noi annusiamo l’aria.”
Spalanco gli occhi: “L’arma segreta dei nazisti! Non è un congegno: sono uomini.”
Mi guarda con rinnovato interesse. “Vedo che le notizie circolano. Sì, i crucchi ne hanno inviati una decina. La GNR li sguinzaglia a scopo di sorveglianza: cercano, trovano e i fasci intervengono.”
Un’onda di consapevolezza mi invade. “Filo, ho rischiato di farti scoprire.”
“Acqua passata.”
“No, davvero” faccio io.
“No, davvero!” e ride.
Un domani potrei perdere molti dei miei ricordi: se potessi scegliere quali tenere, vorrei che uno fosse proprio questo, del suo profilo sullo sfondo del golfo. Non so cosa mi attenda nel futuro. Ma so che lei ci sarà.
“Filo.”
“Dimmi.”
“Non voglio che ti capiti qualcosa di male. Ho paura.”
“Eli, tranquilla. Ci sono qui io a proteggerti.”

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Re: Semifinale Ivan Alemanno

Messaggio#4 » martedì 18 febbraio 2020, 22:50

Così si è espresso Ivan Alemanno:

Sebbene entrambi i racconti abbiano un buon potenziale, tra i due preferisco Scheggia perché risulta più dinamico e ben articolato tra gli elementi che l'autore costruisce per "l'intrigo".
Buoni i dialoghi, anche se migliorabili, qualche svista sul personaggio di Torres e Fanie poco incisiva.

Il secondo racconto è altrettanto valido ma costruito non al massimo delle sue potenzialità.

Passa il turno: Scheggia

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