Sotto la superfice
Inviato: venerdì 13 marzo 2020, 22:53
Sotto la superficie
Il borgo di KameiSceltā prendeva il nome dalle miniere di zolfo sulla montagna ed il tanfo di uova marce appestava tutto: l’aria, l’acqua, le case e gli abitanti, donando una sfumatura gialla che dava l’idea di malsano al primo sguardo.
Essendo situato ai piedi del monte Burnaia, le poche ore di luce erano compensate dall’abbondate umidità che rendeva tutto scivoloso e marcescente.
Formalmente faceva parte del Principato di Volk ma era profondamente incuneato all’interno del Ducato di Podnori: questo connubio di geografia e politica faceva si che KameiSceltā fosse perlopiù ignorato da entrambe le fazioni.
I viaggiatori arrivarono a tarda ora, nessuno li vide ma molti sentirono il frastuono provocato dal loro carrozzone sgangherato.
A dire il vero, la colpa di quel rumore non era tutta loro, il mezzo era malridotto per l’uso e l’incuria, vi era appeso ciarpame d’ogni sorta che cozzava fragorosamente ad ogni movimento.
Avrebbero potuto essere più accorti nell’accomodarlo e certamente più solerti nelle manutenzioni, ma anche se fosse stato un mezzo nuovo fiammante, su quel manto sconquassato, sarebbe stato impossibile non fare rumore.
Ci voleva una buona dose di fantasia per chiamare “strada” quella serie di buche circondate da pantano putrido, gli abitanti si erano arresi generazioni orsono all’idea di avere un regolare manto dove poter circolare agevolmente con carri, cavalli o somari.
Si posizionarono nello spiazzo più grande che riuscirono ad individuare confidando di essere approdati nella piazza principale.
La luce del mattino, filtrando dalle lerce finestre del carro, accarezzò i loro volti e li fece destare.
“Ichabod! Maledetto buono a nulla mangia a sbaffo che non sei altro! Oltre a costarmi una fortuna in viveri devi anche cercare di avvelenarmi con le tue flatulenze! Che razza di visceri malati contiene quel tue ventre senza fondo?”.
Il giovane apprendista si destò di soprassalto socchiudendo gli occhi ancora cisposi dopo il sonno.
“Ecc… eccc… eccomi mastro Cornelius, sono sveglio, si, sono al tuo servizio”. Fiutò l’aria e produsse una smorfia di disgusto, innocentemente si rivolse all’anziano al suo fianco:
“Mastro Cornelius, stai marcendo? Potenti miasmi di morte hai generato nel sonno”.
Mentre l’ira del maestro cresceva fino a raggiungere vette mai esplorate da l’uomo, nel borgo, i villani incuriositi lentamente si radunavano nei pressi del carro che quel mattino era comparso nel giardino della casa comune.
Si era formato un capannello di gente intorno al veicolo, i paesani parlottavano tra loro producendo un leggero brusio che ratto terminò quando il carrozzone cominciò a dondolare e si sentì provenire dal suo interno dei tonfi e uno sbattere di metallo oltre a delle urla:
“Maledetto ingrato!”
“No maestro, piano, piano ahh!”
“Screanzato!”
“Smettila, per favore maestro!”
“Vieni qui che non ti faccio niente”
“Aaaaahhh”
“Torna qui! Accetta la punizione del tuo maestro!”
“Io non c’entro! Non sono stato io!”
“Ah no? E da dove viene questo tanfo immondo? Tu nascondi le porte degli inferi tra quelle chiappe secche! Vieni qui che ti esorcizzo porco di un demonio!”
“No, No, NOOOOOOO!”
La porta di quel vagone con le ruote si spalancò improvvisamente sbattendo con fragore e venne scagliato fuori un giovinetto lungo e secco come il ramo di un giunco che, dopo un brevissimo volo, atterrò malamente nella mota ai piedi degli abitanti li radunatisi. Questi non mostrarono reazione alcuna, si limitarono a guardare indifferenti e silenziosi, sembravano quasi dei mansueti bovini durante il loro continuo e infinito ruminare.
Dall’interno del veicolo furono espulse con la stessa violenza le urla di una voce malvagia e con molte primavere sulla groppa: “Per i sette inferni di Zandruh! In che posto dimenticato dalla civiltà mi hai portato, maledetto idiota! C’è più puzza fuori che dentro! Che razza di ratti possono mai vivere in questa fogna putrida?!”.
Dopo la voce comparse anche il suo padrone, un vecchio storto e nodoso avvolto in un cencio consunto che un tempo era stato un vestito pulito o perlomeno un vestito.
Appena vide la folla il suo volto abbandonò l’espressione ingrugnata e si distese, per quanto possibile, in un sorriso viscido.
“Buongiorno miei cari amici” ammiccò allora con un tono mellifluo, tanto subdolo e sibillino che se tra i suoi denti fosse comparsa una lingua biforcuta non avrebbe stonato per nulla.
Spalancò le braccia e si produsse in uno sgraziato inchino.
“Io sono il famosissimo Cornelius Oculus, itinerante alchimista, farmacista, dentista, dottore delle arti arcane, medico chirurgo, maestro dell’ignoto, dell’insondabile e dello scibile umano” ne seguì una pausa ad effetto che non produsse alcuna reazione dalla platea.
“Vengo qui da voi, signori e signore, accompagnato dal mio allievo ed apprendista, il mio fido vassallo, Ichabod LeBaudet, per portarvi cure e giovamento, lozioni, pozioni, intrugli e consigli ed aiutarvi a guarire dai mali che vi affliggono, risolvere i problemi che vi turbano e scacciare i demoni che vi tormentano” inchino finale.
Un ometto in prima fila avanzò di un passo, era vestito con una camicia color pozzanghera ed un gilet nero di lana di capra sopra a delle brache lise, di una taglia indefinibile, troppo lunghe per essere corte, troppo corte per essere lunghe, mentre ai piedi calzava degli zoccoli di tipo neerlandese.
Era di gran lunga il più elegante della ghenga.
La sua voce era come l’espressione della sua faccia, piatta ed atona: “Vostro caro su giardino di casa di popolo, vostri cavali cacato su di prato, voi pagare gabela.”
Cornelius rimase interdetto per un attimo mentre Ichabod che si era alzato e si percuoteva vigorosamente il fondoschiena cercando di mondarlo, trattenne a stento una risata.
“Oh certo, anzi, ci scusiamo con lor signori per la nostra arroganza” riprese Cornelius “Purtroppo nottetempo siamo giunti nel Vostro splendido borgo quando le tenebre già l’avevano avvolto, se poteste indicarci chi è o dove alloggia il Vostro capo villaggio saremo lieti di poterci accordare con lui per il saldo della gabella”.
La mente di Cornelius stava già calcolando quanto gli sarebbe convenuto pagare una sanzione piuttosto che cercare di corrompere il detentore del pubblico potere, magari con qualche intruglio, quando notò che i popolani di fronte a lui indicavano un punto in alto alle sue spalle.
I due professionisti itineranti si voltarono all’unisono osservando che, dietro la casa del popolo, appesi ad un alto palo levigato, c’erano i resti di quelli che un tempo erano tre corpi umani ed ora erano il rimasuglio del banchetto degli avvoltoi.
L’omuncolo, di capra vestito, spiegò: “Quelo è nostro ultimo starosta, noi sorprenduto lui che cerca di intascare gabela di ultimi stragnieri venuti qui, altri due è stragnieri che cercato di paga meno di gabela”.
Cornelius deglutì rumorosamente mentre Ichabod smise di pulirsi i calzoni e di ridere sotto i baffi.
“Ah giusto. Giusto. La giustizia del popolo, non c’è niente di peggio della corruzione dell’ordine costituito! Ma vedo che Voi siete un gruppo civico attento ed organizzato.
Ora però smettiamola di parlare di questi tristi fatti, sono qui per alleviare le vostre pene, fisiche, psicologiche e spirituali.
Ichabod, di grazia, il campionario”.
Il giovane si mosse velocissimo, da consumato assistente qual era, sparì dentro il carrozzone e riapparve con un baule di legno che, in poche e rapide mosse, si trasformò in un bancone da lavoro dove comparvero una miriade di bottiglie e bottigliette contenenti liquidi dei più svariati colori.
Cornelius gesticolò per far avvicinare il titubante pubblico:
“Venite nobili signori e graziose signore, non siate timidi, offro i miei servigi e le mie conoscenze a modici prezzi, qui ci sono rimedi per molti mali e la mia padronanza delle arti divinatorie può anche prevenire quelli futuri”.
Notando la ritrosia degli astanti decise di adottare una tattica più attiva; individuò tra il pubblico una vecchia signora, i capelli grigio topo erano scarmigliati e annodati tra loro e il viso sporco rendeva impossibile valutarne l’era geologica che ne vide i natali. Era gobba e sciancata e quando il sapiente la indicò sorrise mostrando una dentatura che aveva l’aria di essere atta alla coltivazione di funghi o alghe.
“Venga qui da me, cara nonnina” la esortò l’imbonitore e immediatamente si pentì quando, dopo pochi trascinati passi della megera, venne sopraffatto dal di lei aroma che trionfava nella straordinaria impresa di contrastare il puzzo permanente del luogo.
Cornelius mantenne il suo sorriso professionale ma i suoi occhi tradirono per un attimo il terrore che lo stava assalendo mentre la vegliarda si avvicinava.
“Come si chiama mia cara signora?”
“Sigrid” gracchiò l’antica con voce d’arpia, insufflando il suo alito di morte sul volto del venditore che trattenne a stento nello stomaco la cena della sera prima.
“Ah, che splendido nome per una signora con i suoi nobili lineamenti, le si addice proprio. Dalla luce del suo sguardo posso già intuire la magnanimità del suo cuore e la mitezza del carattere, immagino lei abbia un sacco di nipotini che le sono molto affezionati.
Mi scusi l’ardire, posso chiederle qual è la sua età?”
La bacucca lo guardò sognante esibendo ancora il suo sorriso smagliante e rispose con quello che sembrava il verso di un corvo “Ventitré cicli”.
Cornelius strabuzzò gli occhi, era già pronto a rispondere,come sua consuetudine, che non dimostrava certamente la sua veneranda età ma sicuramente almeno due decadi in meno,ma la realtà lo sorprese lasciandolo senza fiato e quasi senza parole.
L’esperienza accumulata gli venne in soccorso, non si perse d’animo, aveva sicuramente sbagliato a valutare quel caso umano credendo la donna una signora a cui sarebbe bastato un unguento contro i reumatismi invece di una giovane con la necessità di diversi miracoli.
Come ogni mercante, la sua voce era il suo potere, creava verità con arte sopraffina.
“Ichabod, la vasca, svelto” proferì risoluto alla volta del suo garzone.
Il ragazzo staccò da un lato del carrozzone una tinozza e la portò davanti al pubblico che ora mormorava incuriosito.
Cornelius intanto era andato a prendere un barattolone di latta dall’interno della sua casa mobile.
Fece entrare la paziente nella tinozza, le innalzò una sorta di barriera attorno con una tela liscia che celava gran parte dello sguardo ma comunque permetteva di osservare le operazioni che venivano compiute.
Le ordinò di spogliarsi e le assicurò che, con l’aiuto della protezione che era stata imbastita, nessuno avrebbe potuto ammirare le sue grazie, anche se dubitava che qualcuno sano di mente l’avrebbe voluto.
Versò quindi abbondante acqua calda nella tinozza.
Si rivolse al pubblico che ora era totalmente avvinto dalla curiosità.
“Miei cari, qui, in questo barattolo, c’è un composto di mia invenzione le cui componenti e proporzioni sono segrete, ne darò una piccola quantità alla vostra compaesana e le illustrerò come farne uso.
Solo un abile alchimista, quale io sono, è in grado di preparare tale composto in quanto alcune sue parti non possono essere maneggiate senza una ferrea educazione e disciplina et financo il procurarsele è sì arduo da far desistere molti impavidi cavalieri, per esempio le lacrime di un basilisco raccolte durante la luna piena, il sangue di una viverna dopo che ha mangiato un capro nero, il latte di una sirena che ha partorito tre tritoni gemelli”.
I villani ora seguivano il suo discorso con attenzione, chi ammirato, chi spaventato, chi rapito da quei nomi esotici.
Cornelius prese dal barattolone una manciata di una sostanza rosea di consistenza simile alla creta, la passò alla sua assistita e le disse con un tono paterno e rassicurante:
“Tenga mia cara, se lo strofini addosso con vigore e senza paura, anche sul capo, stia solo attenta agli occhi, potrebbero bruciarle un pochino ma non ne avrà nocumento”.
La donna, titubante in principio, cominciò a massaggiarsi con quella sostanza, quando ne sentì il dolce profumo e vide che la sua pelle cambiava colore perse gli indugi, cominciò a strofinarsi furiosamente il corpo ed il capo. Consumato il composto si immerse nella vasca per sciacquarsi.
Cornelius le passò una sorta di spesso lenzuolo e le ordinò di utilizzarlo per asciugarsi e coprirsi, l’aiutò quindi ad uscire dalla tinozza e la condusse davanti al pubblico.
Il miracolo era avvenuto, la trasformazione fu sorprendente, i capelli, prima grigi ed opachi ora erano color dell’oro e altrettanto lucenti, luminosi. La pelle del viso era distesa ed il colorito sano, le rughe erano sparite. Sprigionava un profumo dolce che copriva quello di uova marce che imperava nel circondario. Anche il portamento ne aveva giovato, era armoniosa e slanciata, il corpo tonico.
La folla rumoreggio lodando Cornelius ma più ancora Sigrid che, sorpresa e stordita dal getto di complimenti, arrossi e sorrise beata esibendo la coltivazione micotica e riportando il silenzio.
Cornelius sorrise sornione e da sotto la veste estrasse un piccolo contenitore, prese la mano della (ora) avvenente fanciulla, mise un po' di una sostanza cremosa su un dito di questa e le suggerì di lustrarsi la dentatura. Sigrid eseguì e la metamorfosi arrivò a compimento, il suo bianco sorriso illuminò la plebe.
Cornelius si rivolse ai villani:
“Come avete potuto vedere miei cari, le mie conoscenze sono in grado di compiere atti mirabolanti e sono a vostra disposizione.
Il composto nel barattolone vi costerà solo tre svanziche d’argento l’oncia, quello nel barattolino cinque scudi di bronzo l’oncia, se acquistati in coppia vi regalerò una tesa di tessuto pulente che altrimenti costerebbe una svanzica d’argento.
Il banco dei due girovaghi venne assaltato dai popolani, i preparati vennero acquistati da tutti i presenti.
Fioccarono le più disparate suppliche:
“Oh Kaldun, ogni di volta che piove io male di anca, aiuta me prego”
“Moscnosti Kaldun, domovoj cativo tormenta casa, aiuta me con tua magia”
“Versovi Kaldun, mio uomo qui morto, resuscita qui lui che ritorna uomo e fa me molie contenta”
Cornelius accontentava tutti, dava ad Ichabod secche indicazioni ed egli consegnava un flaconcino al maestro, questi lo consegnava a sua volta al cliente di turno ed illustrava le istruzioni per l’uso in cambio di una spropositata quantità di monete.
L’attività continuò ininterrotta fino a che la notte venne a reclamare il suo tempo.
Cornelius fece smontare il banco da Ichabod e la coppia si ritirò nel carro.
Quando furono certi che nessuno potesse sentirli, i due scoppiarono in grasse risate.
“Ah ah ah maestro, sapone, SAPONE! Hai venduto sapone a peso d’oro a quei fecciosi!” Ichabod sghignazzava fino alle lacrime e si teneva la pancia ed aggiunse “Hai visto che facce hanno fatto quei bifolchi quando la ragazza si è lavata? Alcuni hanno gridato al miracolo! Al prodigio!”
Cornelius rideva e si batteva il ginocchio con una mano ma il suo sguardo sembrava comunicare altro.
“E le panzane che gli hai raccontato?” Chiese allora Ichabod “Lacrime di basilisco? Sangue di viverna? Ci mancavano solo i coglioni di un minotauro!”
I due ghignarono ancora più forte per alcuni minuti poi, esaurita la vena d’allegria, decisero di andare a riposare, il giorno seguente avrebbero avuto ancora occasione di spennare i polli di KameiSceltā.
La notte passò tranquilla donando un sonno ristoratore alla coppia di girovaghi e sogni felici ai soddisfatti clienti.
Si prospettava una mattina produttiva e proficua.
Cornelius e Ichabod erano svegli e di buon umore, pronti a una robusta colazione quando la porta di legno esplose verso l’interno del carrozzone abbattuta da un enorme maglio di metallo, un’ombra occupò il varco creatosi dalla deflagrazione e seguì un urlo bestiale e inarticolato
“VOI!! MALEDETIBASTARDIAARGHHH!”
Cornelius, nonostante la stagionatura, fu il più lesto a reagire, si portò dietro a Ichabod e lo spinse verso il Koscmar che era comparso all'improvviso.
Lo sfortunato giovane ruzzolò ai piedi dell’essere e questi fece calare il suo maglio su una gamba del tapino maciullandola all'altezza del ginocchio.
Ichabod urlò selvaggiamente, l’ombra urlò ancora più forte, lo afferrò por il capo e lo alzò con un solo braccio.
Cornelius, aprì una botola nascosta sul fondo del carro e uscì, si ritrovò a strisciare nel fango sottostante il mezzo in cerca della salvezza.
Si mosse velocemente pur essendo un vegliardo tanto che fu più rapido dell’oscuro assalitore e si portò nello spiazzo antistante il carro prima dell’orrido aggressore.
Quando questo uscì dal vagone portandosi appresso lo sfortunato Ichabod, vide che non era un demone della notte ma un uomo furioso.
Cornelius si calmò e cercò di ricordare chi fosse e quale truffa avesse cercato di perpetrare a suo danno ma non riusciva proprio a rammentare nulla.
L’uomo guardò per un attimo Ichabod e poi lo gettò via come fosse un pupazzo di pezza, questi finì violentemente contro il muro della casa comune producendo un terrificante rumore liquido, cadde al suolo, dalla bocca e dalle orecchie gli uscirono dei rivoli di sangue.
“Oh potente signore, vi prego, ragioniamo, parliamone, quale torto vi ho mai fatto? Forse che i miei rimedi non vi han soddisfatto? Possiamo trattare un risarcimento, non occorre scatenare tale violenza” disse Cornelius cercando di rabbonire il titano.
“AAAARGH” fu la risposta del colosso seguita da un colpo del suo martello che sfiorò il vecchio che stava strisciando via.
“Calmatevi, vi prego, sono solo un vecchio, non avrete certo soddisfazione ne gloria a percuotermi, ma solo rimorsi e tristezza fino alle lacrime”.
“MISERABILEBASTARDO!” gridò allora il gigante e colpì il fango con il suo strumento, ancora vicino a Cornelius.
L'errante indietreggiò fino a sbattere contro il muro di una casa, la furia umana gli si fece sotto, sollevò il martellone con due mani ma, un attimo prima di calarlo violentemente sull’anziano emise un urlo bestiale alla volta del cielo, crollò in ginocchio e si mise a piangere.
Tra i singhiozzi, finalmente, si spiegò con l’alchimista.
“Andata, amore fugito, colpa tua caronnia”.
Cornelius non capiva cosa dicesse quella montagna di muscoli singhiozzante.
“Lei perfietta, tu, doemon, con pozioni hai stregato lei”
Timidamente Cornelius chiese “Perdonatemi signore, ma non capisco di chi tu stia parlando”
“SIGRID, BASTARDO, Sigrid, tornata casa diversa, scapata con Yur, alba parlato con di molie Yur, deto me lui casa fato magia di sechio e anche lui diverso”
Cornelius allora gli parlò con il suo tono più suadente.
“Mio caro, vedi che con la calma e la favella possiamo risolvere tutto, per fortuna ci sono io qui a consigliarti, ora ti preparerò un potente filtro d’amore, tu non dovrai far altro che ritrovare la tua amata e farglielo bere e vedrai che tornerà e non ti abbandonerà mai più” e fece l’occhiolino al maciste.
Questi si fece immediatamente docile, s’illumino di speranza e tra le lacrime chiese “Di vero tu, Kaldun?”
“Certamente” rispose l’anziano sorridendo “e visto che mi sembri un bravo giovane, non te lo farò nemmeno pagare”.
Prese da sotto la veste una bottiglietta colorata, la depose nella manona del disperato e gli augurò buona fortuna guardandolo negli occhi.
Si scusò con la gente che stava accorrendo, adducendo al fatto che non poteva fermarsi. Purtroppo l’incidente lo aveva lasciato sfornito di un assistente, una vera sfortuna, ma giurò che sarebbe tornato non appena ne avesse trovato uno degno e che ci avrebbe messo poco, il tempo di un sogno.
Lo salutarono senza entusiasmo, come se lo stessero già dimenticando.
Cornelius salì sul carro a cassetta e se ne andò com'era arrivato, nessuno aveva visto da dove era venuto e nemmeno dove sarebbe andato.
Non versò lacrime per Ichabod, era solo un misero e stupido umano in fondo, uno dei molti che aveva incantato e reso suo servo nel suo continuo vagare tra i mondi.
“Zabludsci Doemon ti vende i tuoi sogni a peso d'oro”
Detto delle popolazioni della zona montuosa del KameiZulfur
Tom
Il borgo di KameiSceltā prendeva il nome dalle miniere di zolfo sulla montagna ed il tanfo di uova marce appestava tutto: l’aria, l’acqua, le case e gli abitanti, donando una sfumatura gialla che dava l’idea di malsano al primo sguardo.
Essendo situato ai piedi del monte Burnaia, le poche ore di luce erano compensate dall’abbondate umidità che rendeva tutto scivoloso e marcescente.
Formalmente faceva parte del Principato di Volk ma era profondamente incuneato all’interno del Ducato di Podnori: questo connubio di geografia e politica faceva si che KameiSceltā fosse perlopiù ignorato da entrambe le fazioni.
I viaggiatori arrivarono a tarda ora, nessuno li vide ma molti sentirono il frastuono provocato dal loro carrozzone sgangherato.
A dire il vero, la colpa di quel rumore non era tutta loro, il mezzo era malridotto per l’uso e l’incuria, vi era appeso ciarpame d’ogni sorta che cozzava fragorosamente ad ogni movimento.
Avrebbero potuto essere più accorti nell’accomodarlo e certamente più solerti nelle manutenzioni, ma anche se fosse stato un mezzo nuovo fiammante, su quel manto sconquassato, sarebbe stato impossibile non fare rumore.
Ci voleva una buona dose di fantasia per chiamare “strada” quella serie di buche circondate da pantano putrido, gli abitanti si erano arresi generazioni orsono all’idea di avere un regolare manto dove poter circolare agevolmente con carri, cavalli o somari.
Si posizionarono nello spiazzo più grande che riuscirono ad individuare confidando di essere approdati nella piazza principale.
La luce del mattino, filtrando dalle lerce finestre del carro, accarezzò i loro volti e li fece destare.
“Ichabod! Maledetto buono a nulla mangia a sbaffo che non sei altro! Oltre a costarmi una fortuna in viveri devi anche cercare di avvelenarmi con le tue flatulenze! Che razza di visceri malati contiene quel tue ventre senza fondo?”.
Il giovane apprendista si destò di soprassalto socchiudendo gli occhi ancora cisposi dopo il sonno.
“Ecc… eccc… eccomi mastro Cornelius, sono sveglio, si, sono al tuo servizio”. Fiutò l’aria e produsse una smorfia di disgusto, innocentemente si rivolse all’anziano al suo fianco:
“Mastro Cornelius, stai marcendo? Potenti miasmi di morte hai generato nel sonno”.
Mentre l’ira del maestro cresceva fino a raggiungere vette mai esplorate da l’uomo, nel borgo, i villani incuriositi lentamente si radunavano nei pressi del carro che quel mattino era comparso nel giardino della casa comune.
Si era formato un capannello di gente intorno al veicolo, i paesani parlottavano tra loro producendo un leggero brusio che ratto terminò quando il carrozzone cominciò a dondolare e si sentì provenire dal suo interno dei tonfi e uno sbattere di metallo oltre a delle urla:
“Maledetto ingrato!”
“No maestro, piano, piano ahh!”
“Screanzato!”
“Smettila, per favore maestro!”
“Vieni qui che non ti faccio niente”
“Aaaaahhh”
“Torna qui! Accetta la punizione del tuo maestro!”
“Io non c’entro! Non sono stato io!”
“Ah no? E da dove viene questo tanfo immondo? Tu nascondi le porte degli inferi tra quelle chiappe secche! Vieni qui che ti esorcizzo porco di un demonio!”
“No, No, NOOOOOOO!”
La porta di quel vagone con le ruote si spalancò improvvisamente sbattendo con fragore e venne scagliato fuori un giovinetto lungo e secco come il ramo di un giunco che, dopo un brevissimo volo, atterrò malamente nella mota ai piedi degli abitanti li radunatisi. Questi non mostrarono reazione alcuna, si limitarono a guardare indifferenti e silenziosi, sembravano quasi dei mansueti bovini durante il loro continuo e infinito ruminare.
Dall’interno del veicolo furono espulse con la stessa violenza le urla di una voce malvagia e con molte primavere sulla groppa: “Per i sette inferni di Zandruh! In che posto dimenticato dalla civiltà mi hai portato, maledetto idiota! C’è più puzza fuori che dentro! Che razza di ratti possono mai vivere in questa fogna putrida?!”.
Dopo la voce comparse anche il suo padrone, un vecchio storto e nodoso avvolto in un cencio consunto che un tempo era stato un vestito pulito o perlomeno un vestito.
Appena vide la folla il suo volto abbandonò l’espressione ingrugnata e si distese, per quanto possibile, in un sorriso viscido.
“Buongiorno miei cari amici” ammiccò allora con un tono mellifluo, tanto subdolo e sibillino che se tra i suoi denti fosse comparsa una lingua biforcuta non avrebbe stonato per nulla.
Spalancò le braccia e si produsse in uno sgraziato inchino.
“Io sono il famosissimo Cornelius Oculus, itinerante alchimista, farmacista, dentista, dottore delle arti arcane, medico chirurgo, maestro dell’ignoto, dell’insondabile e dello scibile umano” ne seguì una pausa ad effetto che non produsse alcuna reazione dalla platea.
“Vengo qui da voi, signori e signore, accompagnato dal mio allievo ed apprendista, il mio fido vassallo, Ichabod LeBaudet, per portarvi cure e giovamento, lozioni, pozioni, intrugli e consigli ed aiutarvi a guarire dai mali che vi affliggono, risolvere i problemi che vi turbano e scacciare i demoni che vi tormentano” inchino finale.
Un ometto in prima fila avanzò di un passo, era vestito con una camicia color pozzanghera ed un gilet nero di lana di capra sopra a delle brache lise, di una taglia indefinibile, troppo lunghe per essere corte, troppo corte per essere lunghe, mentre ai piedi calzava degli zoccoli di tipo neerlandese.
Era di gran lunga il più elegante della ghenga.
La sua voce era come l’espressione della sua faccia, piatta ed atona: “Vostro caro su giardino di casa di popolo, vostri cavali cacato su di prato, voi pagare gabela.”
Cornelius rimase interdetto per un attimo mentre Ichabod che si era alzato e si percuoteva vigorosamente il fondoschiena cercando di mondarlo, trattenne a stento una risata.
“Oh certo, anzi, ci scusiamo con lor signori per la nostra arroganza” riprese Cornelius “Purtroppo nottetempo siamo giunti nel Vostro splendido borgo quando le tenebre già l’avevano avvolto, se poteste indicarci chi è o dove alloggia il Vostro capo villaggio saremo lieti di poterci accordare con lui per il saldo della gabella”.
La mente di Cornelius stava già calcolando quanto gli sarebbe convenuto pagare una sanzione piuttosto che cercare di corrompere il detentore del pubblico potere, magari con qualche intruglio, quando notò che i popolani di fronte a lui indicavano un punto in alto alle sue spalle.
I due professionisti itineranti si voltarono all’unisono osservando che, dietro la casa del popolo, appesi ad un alto palo levigato, c’erano i resti di quelli che un tempo erano tre corpi umani ed ora erano il rimasuglio del banchetto degli avvoltoi.
L’omuncolo, di capra vestito, spiegò: “Quelo è nostro ultimo starosta, noi sorprenduto lui che cerca di intascare gabela di ultimi stragnieri venuti qui, altri due è stragnieri che cercato di paga meno di gabela”.
Cornelius deglutì rumorosamente mentre Ichabod smise di pulirsi i calzoni e di ridere sotto i baffi.
“Ah giusto. Giusto. La giustizia del popolo, non c’è niente di peggio della corruzione dell’ordine costituito! Ma vedo che Voi siete un gruppo civico attento ed organizzato.
Ora però smettiamola di parlare di questi tristi fatti, sono qui per alleviare le vostre pene, fisiche, psicologiche e spirituali.
Ichabod, di grazia, il campionario”.
Il giovane si mosse velocissimo, da consumato assistente qual era, sparì dentro il carrozzone e riapparve con un baule di legno che, in poche e rapide mosse, si trasformò in un bancone da lavoro dove comparvero una miriade di bottiglie e bottigliette contenenti liquidi dei più svariati colori.
Cornelius gesticolò per far avvicinare il titubante pubblico:
“Venite nobili signori e graziose signore, non siate timidi, offro i miei servigi e le mie conoscenze a modici prezzi, qui ci sono rimedi per molti mali e la mia padronanza delle arti divinatorie può anche prevenire quelli futuri”.
Notando la ritrosia degli astanti decise di adottare una tattica più attiva; individuò tra il pubblico una vecchia signora, i capelli grigio topo erano scarmigliati e annodati tra loro e il viso sporco rendeva impossibile valutarne l’era geologica che ne vide i natali. Era gobba e sciancata e quando il sapiente la indicò sorrise mostrando una dentatura che aveva l’aria di essere atta alla coltivazione di funghi o alghe.
“Venga qui da me, cara nonnina” la esortò l’imbonitore e immediatamente si pentì quando, dopo pochi trascinati passi della megera, venne sopraffatto dal di lei aroma che trionfava nella straordinaria impresa di contrastare il puzzo permanente del luogo.
Cornelius mantenne il suo sorriso professionale ma i suoi occhi tradirono per un attimo il terrore che lo stava assalendo mentre la vegliarda si avvicinava.
“Come si chiama mia cara signora?”
“Sigrid” gracchiò l’antica con voce d’arpia, insufflando il suo alito di morte sul volto del venditore che trattenne a stento nello stomaco la cena della sera prima.
“Ah, che splendido nome per una signora con i suoi nobili lineamenti, le si addice proprio. Dalla luce del suo sguardo posso già intuire la magnanimità del suo cuore e la mitezza del carattere, immagino lei abbia un sacco di nipotini che le sono molto affezionati.
Mi scusi l’ardire, posso chiederle qual è la sua età?”
La bacucca lo guardò sognante esibendo ancora il suo sorriso smagliante e rispose con quello che sembrava il verso di un corvo “Ventitré cicli”.
Cornelius strabuzzò gli occhi, era già pronto a rispondere,come sua consuetudine, che non dimostrava certamente la sua veneranda età ma sicuramente almeno due decadi in meno,ma la realtà lo sorprese lasciandolo senza fiato e quasi senza parole.
L’esperienza accumulata gli venne in soccorso, non si perse d’animo, aveva sicuramente sbagliato a valutare quel caso umano credendo la donna una signora a cui sarebbe bastato un unguento contro i reumatismi invece di una giovane con la necessità di diversi miracoli.
Come ogni mercante, la sua voce era il suo potere, creava verità con arte sopraffina.
“Ichabod, la vasca, svelto” proferì risoluto alla volta del suo garzone.
Il ragazzo staccò da un lato del carrozzone una tinozza e la portò davanti al pubblico che ora mormorava incuriosito.
Cornelius intanto era andato a prendere un barattolone di latta dall’interno della sua casa mobile.
Fece entrare la paziente nella tinozza, le innalzò una sorta di barriera attorno con una tela liscia che celava gran parte dello sguardo ma comunque permetteva di osservare le operazioni che venivano compiute.
Le ordinò di spogliarsi e le assicurò che, con l’aiuto della protezione che era stata imbastita, nessuno avrebbe potuto ammirare le sue grazie, anche se dubitava che qualcuno sano di mente l’avrebbe voluto.
Versò quindi abbondante acqua calda nella tinozza.
Si rivolse al pubblico che ora era totalmente avvinto dalla curiosità.
“Miei cari, qui, in questo barattolo, c’è un composto di mia invenzione le cui componenti e proporzioni sono segrete, ne darò una piccola quantità alla vostra compaesana e le illustrerò come farne uso.
Solo un abile alchimista, quale io sono, è in grado di preparare tale composto in quanto alcune sue parti non possono essere maneggiate senza una ferrea educazione e disciplina et financo il procurarsele è sì arduo da far desistere molti impavidi cavalieri, per esempio le lacrime di un basilisco raccolte durante la luna piena, il sangue di una viverna dopo che ha mangiato un capro nero, il latte di una sirena che ha partorito tre tritoni gemelli”.
I villani ora seguivano il suo discorso con attenzione, chi ammirato, chi spaventato, chi rapito da quei nomi esotici.
Cornelius prese dal barattolone una manciata di una sostanza rosea di consistenza simile alla creta, la passò alla sua assistita e le disse con un tono paterno e rassicurante:
“Tenga mia cara, se lo strofini addosso con vigore e senza paura, anche sul capo, stia solo attenta agli occhi, potrebbero bruciarle un pochino ma non ne avrà nocumento”.
La donna, titubante in principio, cominciò a massaggiarsi con quella sostanza, quando ne sentì il dolce profumo e vide che la sua pelle cambiava colore perse gli indugi, cominciò a strofinarsi furiosamente il corpo ed il capo. Consumato il composto si immerse nella vasca per sciacquarsi.
Cornelius le passò una sorta di spesso lenzuolo e le ordinò di utilizzarlo per asciugarsi e coprirsi, l’aiutò quindi ad uscire dalla tinozza e la condusse davanti al pubblico.
Il miracolo era avvenuto, la trasformazione fu sorprendente, i capelli, prima grigi ed opachi ora erano color dell’oro e altrettanto lucenti, luminosi. La pelle del viso era distesa ed il colorito sano, le rughe erano sparite. Sprigionava un profumo dolce che copriva quello di uova marce che imperava nel circondario. Anche il portamento ne aveva giovato, era armoniosa e slanciata, il corpo tonico.
La folla rumoreggio lodando Cornelius ma più ancora Sigrid che, sorpresa e stordita dal getto di complimenti, arrossi e sorrise beata esibendo la coltivazione micotica e riportando il silenzio.
Cornelius sorrise sornione e da sotto la veste estrasse un piccolo contenitore, prese la mano della (ora) avvenente fanciulla, mise un po' di una sostanza cremosa su un dito di questa e le suggerì di lustrarsi la dentatura. Sigrid eseguì e la metamorfosi arrivò a compimento, il suo bianco sorriso illuminò la plebe.
Cornelius si rivolse ai villani:
“Come avete potuto vedere miei cari, le mie conoscenze sono in grado di compiere atti mirabolanti e sono a vostra disposizione.
Il composto nel barattolone vi costerà solo tre svanziche d’argento l’oncia, quello nel barattolino cinque scudi di bronzo l’oncia, se acquistati in coppia vi regalerò una tesa di tessuto pulente che altrimenti costerebbe una svanzica d’argento.
Il banco dei due girovaghi venne assaltato dai popolani, i preparati vennero acquistati da tutti i presenti.
Fioccarono le più disparate suppliche:
“Oh Kaldun, ogni di volta che piove io male di anca, aiuta me prego”
“Moscnosti Kaldun, domovoj cativo tormenta casa, aiuta me con tua magia”
“Versovi Kaldun, mio uomo qui morto, resuscita qui lui che ritorna uomo e fa me molie contenta”
Cornelius accontentava tutti, dava ad Ichabod secche indicazioni ed egli consegnava un flaconcino al maestro, questi lo consegnava a sua volta al cliente di turno ed illustrava le istruzioni per l’uso in cambio di una spropositata quantità di monete.
L’attività continuò ininterrotta fino a che la notte venne a reclamare il suo tempo.
Cornelius fece smontare il banco da Ichabod e la coppia si ritirò nel carro.
Quando furono certi che nessuno potesse sentirli, i due scoppiarono in grasse risate.
“Ah ah ah maestro, sapone, SAPONE! Hai venduto sapone a peso d’oro a quei fecciosi!” Ichabod sghignazzava fino alle lacrime e si teneva la pancia ed aggiunse “Hai visto che facce hanno fatto quei bifolchi quando la ragazza si è lavata? Alcuni hanno gridato al miracolo! Al prodigio!”
Cornelius rideva e si batteva il ginocchio con una mano ma il suo sguardo sembrava comunicare altro.
“E le panzane che gli hai raccontato?” Chiese allora Ichabod “Lacrime di basilisco? Sangue di viverna? Ci mancavano solo i coglioni di un minotauro!”
I due ghignarono ancora più forte per alcuni minuti poi, esaurita la vena d’allegria, decisero di andare a riposare, il giorno seguente avrebbero avuto ancora occasione di spennare i polli di KameiSceltā.
La notte passò tranquilla donando un sonno ristoratore alla coppia di girovaghi e sogni felici ai soddisfatti clienti.
Si prospettava una mattina produttiva e proficua.
Cornelius e Ichabod erano svegli e di buon umore, pronti a una robusta colazione quando la porta di legno esplose verso l’interno del carrozzone abbattuta da un enorme maglio di metallo, un’ombra occupò il varco creatosi dalla deflagrazione e seguì un urlo bestiale e inarticolato
“VOI!! MALEDETIBASTARDIAARGHHH!”
Cornelius, nonostante la stagionatura, fu il più lesto a reagire, si portò dietro a Ichabod e lo spinse verso il Koscmar che era comparso all'improvviso.
Lo sfortunato giovane ruzzolò ai piedi dell’essere e questi fece calare il suo maglio su una gamba del tapino maciullandola all'altezza del ginocchio.
Ichabod urlò selvaggiamente, l’ombra urlò ancora più forte, lo afferrò por il capo e lo alzò con un solo braccio.
Cornelius, aprì una botola nascosta sul fondo del carro e uscì, si ritrovò a strisciare nel fango sottostante il mezzo in cerca della salvezza.
Si mosse velocemente pur essendo un vegliardo tanto che fu più rapido dell’oscuro assalitore e si portò nello spiazzo antistante il carro prima dell’orrido aggressore.
Quando questo uscì dal vagone portandosi appresso lo sfortunato Ichabod, vide che non era un demone della notte ma un uomo furioso.
Cornelius si calmò e cercò di ricordare chi fosse e quale truffa avesse cercato di perpetrare a suo danno ma non riusciva proprio a rammentare nulla.
L’uomo guardò per un attimo Ichabod e poi lo gettò via come fosse un pupazzo di pezza, questi finì violentemente contro il muro della casa comune producendo un terrificante rumore liquido, cadde al suolo, dalla bocca e dalle orecchie gli uscirono dei rivoli di sangue.
“Oh potente signore, vi prego, ragioniamo, parliamone, quale torto vi ho mai fatto? Forse che i miei rimedi non vi han soddisfatto? Possiamo trattare un risarcimento, non occorre scatenare tale violenza” disse Cornelius cercando di rabbonire il titano.
“AAAARGH” fu la risposta del colosso seguita da un colpo del suo martello che sfiorò il vecchio che stava strisciando via.
“Calmatevi, vi prego, sono solo un vecchio, non avrete certo soddisfazione ne gloria a percuotermi, ma solo rimorsi e tristezza fino alle lacrime”.
“MISERABILEBASTARDO!” gridò allora il gigante e colpì il fango con il suo strumento, ancora vicino a Cornelius.
L'errante indietreggiò fino a sbattere contro il muro di una casa, la furia umana gli si fece sotto, sollevò il martellone con due mani ma, un attimo prima di calarlo violentemente sull’anziano emise un urlo bestiale alla volta del cielo, crollò in ginocchio e si mise a piangere.
Tra i singhiozzi, finalmente, si spiegò con l’alchimista.
“Andata, amore fugito, colpa tua caronnia”.
Cornelius non capiva cosa dicesse quella montagna di muscoli singhiozzante.
“Lei perfietta, tu, doemon, con pozioni hai stregato lei”
Timidamente Cornelius chiese “Perdonatemi signore, ma non capisco di chi tu stia parlando”
“SIGRID, BASTARDO, Sigrid, tornata casa diversa, scapata con Yur, alba parlato con di molie Yur, deto me lui casa fato magia di sechio e anche lui diverso”
Cornelius allora gli parlò con il suo tono più suadente.
“Mio caro, vedi che con la calma e la favella possiamo risolvere tutto, per fortuna ci sono io qui a consigliarti, ora ti preparerò un potente filtro d’amore, tu non dovrai far altro che ritrovare la tua amata e farglielo bere e vedrai che tornerà e non ti abbandonerà mai più” e fece l’occhiolino al maciste.
Questi si fece immediatamente docile, s’illumino di speranza e tra le lacrime chiese “Di vero tu, Kaldun?”
“Certamente” rispose l’anziano sorridendo “e visto che mi sembri un bravo giovane, non te lo farò nemmeno pagare”.
Prese da sotto la veste una bottiglietta colorata, la depose nella manona del disperato e gli augurò buona fortuna guardandolo negli occhi.
Si scusò con la gente che stava accorrendo, adducendo al fatto che non poteva fermarsi. Purtroppo l’incidente lo aveva lasciato sfornito di un assistente, una vera sfortuna, ma giurò che sarebbe tornato non appena ne avesse trovato uno degno e che ci avrebbe messo poco, il tempo di un sogno.
Lo salutarono senza entusiasmo, come se lo stessero già dimenticando.
Cornelius salì sul carro a cassetta e se ne andò com'era arrivato, nessuno aveva visto da dove era venuto e nemmeno dove sarebbe andato.
Non versò lacrime per Ichabod, era solo un misero e stupido umano in fondo, uno dei molti che aveva incantato e reso suo servo nel suo continuo vagare tra i mondi.
“Zabludsci Doemon ti vende i tuoi sogni a peso d'oro”
Detto delle popolazioni della zona montuosa del KameiZulfur
Tom