Rospo e la Manticora
Inviato: domenica 15 marzo 2020, 13:47
Rospo e la Manticora
di Danilo Riccio (Kiljedayn)
“Rospo, buono a nulla, datti una mossa con quella roba, che San Fracassio ti faccia cadere i denti a suon di cazzotti!”
Rospo farfugliò qualcosa che si perse nel rumore delle ruote del carretto che il ragazzino stava trascinando lungo la strada fangosa.
“Fango e merda,” aveva sputato il Condottiero, “non si può trovare nient’altro da queste parti. Maledizione, ‘sto dannato porcile è più lurido della fregna di Sant’Allegra!”
Rospo, che non era esattamente cresciuto in un collegio per educande, restava sempre affascinato dalla capacità del vecchio mercenario di trovare il santo o la santa più adatti da insultare per ogni occasione. Naturalmente provava ad imitarlo, ma le sue bestemmie suonavano come i buffi pigolii di un uccellino spennacchiato; anzi, come i patetici gracidii di un rospetto pallido e denutrito. Niente a che vedere con la voce di cannone del Condottiero.
“Oh, pestamerde! Vuoi tenere quegli occhi strabici sulla strada o preferisci ritrovarti in una pozza, prima? Bada, di te non me ne frega niente, ma la roba sul carretto mi serve, imbecille.”
Troppo tardi, il ragazzetto s’era distratto un secondo di troppo: il fondo limaccioso di quella specie di strada aveva afferrato una delle due ruote del piccolo carro malandato trainato da Rospo. Temendo di venire lasciato indietro dal Condottiero, il ragazzo s’era messo a tirare con tutte le sue forze, come un animale in trappola. Funzionò, in parte; il carretto compì un balzo in avanti e si rovesciò su un fianco, riversando il suo contenuto di armi, provviste e (cosa peggiore) di pezzi d’armatura del Condottiero in una vicina pozza di mota scura e puzzolente. Gli occhi di Rospo, che già di loro erano gonfi e sporgenti, divennero due volte più larghi del normale. Probabilmente il Condottiero potè specchiarcisi, mentre si preparava ad affibbiargli il primo di una lunga serie di scapaccioni furibondi.
Non era andata poi tanto male, si diceva fra sé e sé Rospo. Forse, complici la fame e la lunga marcia della giornata, la sfuriata del Condottiero si era rivelata lunga, ma non di particolare intensità; i denti erano tutti al loro posto, il deretano non era eccessivamente indolenzito dalle pedate e l’occhio sinistro, per quanto tumefatto, non era completamente chiuso. Ai santi e alle sante della Dottrina, invece, non era stata risparmiata mezza angheria: San Placido s’era beccato diversi auguri di rogna, San Lupo un serie di improperi che avrebbero fatto cedere le ginocchia di un soldato di ventura in qualsiasi taverna e, per ultima, Santa Allegra la Sorridente (che da sempre occupava il posto d’onore nei moccoli del Condottiero) si era vista accostare ad un tale assortimento di animali da cortile da rabbuiare perfino il suo mite sorriso che, stando alla leggenda, aveva fermato le lame dei barbari che avevano attaccato la Piana tanti secoli prima.
Pesto e con la pancia vuota, dato che il poco cibo recuperato era andato al suo tirannico duce, a Rospo non era rimasto altro da fare se non ripescare uno ad uno tutti i pezzi della corazza del padrone, mentre il prode capitano sonnecchiava sotto a un albero posto in cima alla collinetta che dominava quell’angolo della Fanga, la regione più schifosamente fangosa dell’intera Piana. Quando il giovane aveva iniziato quel compito improbo era da poco passato il mezzodì e il sole, quasi a volerlo prendere ulteriormente per il suo dolorante culo, gli aveva fatto da spettatore per tutto il pomeriggio, seccando il fango e rendendo il già mefitico odore di quella specie di palude ancora peggiore; cotto dal caldo, mangiato dalle zanzare e ricoperto da una crosta grigiastra che copriva la sua abituale sporcizia, Rospo trasse un sospiro di sollievo mentre estraeva l’elmo del Condottiero dal pantano. L’intera armatura era lorda, ma i pezzi sembravano esserci tutti. Un sorriso involontario spaccò le labbra riarse del ragazzo: forse il padrone gli avrebbe persino dato qualcosa da bere. Sempre che ne fosse avanzato. Il giovanotto raccolse quell’ammasso di metallo e lo ammonticchiò su un sasso piatto e largo nelle vicinanze, poi rimase a fissarlo, grattandosi la testa. L’armatura l’aveva recuperata, certo, ma ora come l’avrebbe trasportata in cima alla collinetta? Anche se avesse fatto più viaggi, la pendenza dell’avvallamento era, comunque, una sfida notevole da affrontare portando in mano dei pezzi di pesante metallo; per non dire, poi, che al di là delle botte e delle ore passate a sgobbare sotto al sole, Rospo non ricordava l’ultima volta in cui avesse messo del cibo vero sotto ai denti. La sua colazione della giornata era consistita in una crosta di pane e un paio di sorsi d’acqua calda presi dal suo vecchio otre, che ora giaceva da qualche parte in fondo al fango. Il ragazzino si rassegnò: l’unica soluzione consisteva nel rimettere in piedi il carretto, pregando che le ruote vi fossero ancora attaccate saldamente e in grado di funzionare, e trascinare armi e bagagli fino alla collinetta; una volta giunto ai piedi della stessa, si sarebbe arrampicato, avrebbe svegliato il Condottiero e si sarebbero rimessi in marcia. Ma no, era impossibile, il sole aveva già iniziato a tramontare. Non sarebbero mai arrivati a Laquercia prima del buio. Si sarebbero dovuti accampare lì, nella Fanga, e il Condottiero non avrebbe avuto abbastanza vino per andare a letto tranquillo, perciò, Rospo lo sapeva fin troppo bene, il giorno dopo sarebbe stato ancora più perfido. Sacramentando una novena di bestemmie col suo patetico gracidio, il ragazzino si mise all’opera e si incamminò. Si chiese se almeno i santi, dovunque essi fossero, prendessero sul serio i suoi insulti. Ma ne dubitava. Era sempre stato una nullità e sempre lo sarebbe stato.
C’era voluto del bello e del buono, ma alla fine era arrivato. Il sole, ormai quasi del tutto tramontato, tingeva di rosso scuro il fango e le macchie di vegetazione incolta che punteggiavano la Fanga. La collinetta, che da vicino sembrava decisamente più imponente di quanto Rospo avesse stimato in precedenza, stava lì, beffarda e ricoperta di rovi e sterpaglie. Rospo sospirò. Però, proprio mentre si accingeva ad iniziare la scalata, i suoi occhi di ranocchio vennero attratti da qualcosa. Qualcosa che strisciava lentamente fra il fango e le spine dei cespugli selvaggi, con quella grazia fantasma che solo un predatore in caccia poteva esibire; era troppo buio per poter capire di che bestia si trattasse, tuttavia il cuore del ragazzino accelerò involontariamente il suo battito: se c’era una bestia, c’era della carne; se c’era della carne, c’era del cibo. Quasi a voler sottolineare quel pensiero, lo stomaco di Rospo gorgogliò famelico. Forse i santi, finalmente rimessi al loro posto dalle sue imprecazioni, avevano deciso di mandargli un regalo? Se era così, bisognava agire. Il giovane prese la spada del Condottiero, l’unica arma che era riuscito a recuperare che fosse ancora servibile, e si inerpicò lungo il pendio scosceso della collina, cercando di non perdere di vista la macchia che ondeggiava sinuosa verso la cima.
Fu solo a metà della salita, all’ennesimo inciampo, che a Rospo vennero in mente due cose. La prima era che le orme che stava cercando di seguire erano davvero bizzarre: la cosa lasciava dei segni che ricordavano quelli di una serpe che striscia nel fango, perfino i segni delle squame rimanevano impressi nel terreno umido della collina. Ma, al contempo, la creatura lasciava anche due orme simili a quelle di un gatto… un gatto molto, molto grosso, e per completare quel folle ritratto, in corrispondenza del punto nel quale avrebbe dovuto avere le zampe anteriori, le impronte di un paio di zampe da uccello. La seconda epifania del ragazzo, invece, fu quella che gli ricordò che in cima a quella zolla di terra troppo cresciuta c’era un’unica, possibile preda: il Condottiero. Solo, disarmato e probabilmente con i postumi di una sbronza (Rospo sapeva perfettamente che il Condottiero teneva sempre con sé una fiaschetta “segreta” contenente qualsiasi liquore torcibudella su cui il vecchio mercenario riuscisse a posare le grinfie). Se il padrone finiva mangiato, lui che fine avrebbe fatto? Non aveva nessun altro. Decise che avrebbe accelerato l’andatura; mise la spada a tracolla, si accucciò a quattro zampe e iniziò a muoversi tastando le orme della bestia, incurante dei rovi che gli laceravano gambe, volto e braccia.
Nella sua vita, Rospo non era mai stato uno che brillava per tempismo. Ne ebbe riprova nell’esatto momento in cui mise il naso al di là del bordo della collina. Il Condottiero aveva attrezzato un bivacco, con un piccolo fuoco al centro di una sorta di anello di cespugli che cingeva la sommità del pendio come una corona d’alloro grottesca. Attraverso un’apertura nel roveto, Rospo poteva vedere il suo prode capitano che si scaldava le mani, borbottando. Gli dava le spalle, così come le dava alla grossa sagoma che avanzava nel buio, pronta all’assalto.
“Condottiero, mio Condottiero!” Fece appena in tempo a rantolare, scosso dal fiatone.
Il Condottiero si voltò nella direzione di quel gracidio sgraziato. Fu l’ultima azione che compì in vita sua.
Con un ringhio mostruoso, la belva scattò in avanti e serrò un paio di potenti mascelle intorno alla testa del Condottiero.
Splotch.
Rospo non riuscì mai a dimenticare quel suono osceno e liquido. Gli ricordava quando, da piccolo, aveva fatto cadere una cesta di uova per terra; era stato lo stesso giorno in cui i genitori l’avevano venduto al Condottiero. Era un pensiero buffo, la testa del suo padrone faceva un suono simile a quello di un cestino di piccole, fragili uova. Ma non c’era niente da ridere. La bestia aveva preso a scuotere il corpo del Condottiero, sbatacchiandolo contro il tronco dell’albero che gli aveva fornito riparo nel pomeriggio e spaccandogli le ossa, in una sanguinolenta parodia di un aspersorio, col quale benediceva l’accampamento. Si udì uno strappo. Non c’era altro modo per definire quel suono, era uno strappo, poi il corpo ormai decapitato del Condottiero si afflosciò al suolo come un burattino rotto, in uno zampillare di rossa linfa vitale. Alla luce del falò, Rospo potè finalmente vedere il muso della creatura, che ricordava un orribile incrocio fra un lupo e un orso, spaccare con un morso la scatola cranica del suo ormai defunto padrone. Coperto di sangue, il mostro iniziò a divorare il cervello dell’uomo.
Manticora.
La parola riemerse dai ricordi d’infanzia di Rospo. “Mangia la zuppa, altrimenti viene la Manticora e sarà lei a mangiare te!”, “Lavati, sudicione, altrimenti la Manticora potrà fiutarti nel buio e ti mangerà!”
Da quel che poteva vedere, nessuno degli adulti che ne avevano agitato lo spauracchio aveva mai realmente incontrato la Manticora. Nelle storie cantate dai menestrelli la bestia aveva tratti caprini, serpenti vivi come coda, un numero di teste variabile (però mai inferiore a due) e, soprattutto, le dimensioni di una casetta. Niente a che vedere con quell’incubo compatto che si trovava davanti, che forse non superava la stazza di un grosso lupo, ma in compenso aveva muscoli d’acciaio che si contraevano sotto un mosaico di pelliccia e scaglie ed una coda irta di spine che sferzava l’aria producendo schiocchi di frusta.
Rospo si pisciò addosso. Ma non se ne accorse fino a quando la bestiaccia, che aveva finito di divorare la testa del Condottiero, non si voltò nella sua direzione col naso fremente. Anche se aveva il muso intriso di sangue fresco, il ragazzino era certo che l’odore acre della sua urina, del suo terrore distillato, era chiaramente percepibile per la belva; le zampe rostrate da gallo ipertrofico presero a raspare furiosamente il terreno, poi la Manticora piantò gli occhi sul cespuglio. Per un breve, orribile, istante gli sguardi del cacciatore e della preda si erano incontrati attraverso la feritoia del roveto.
“San Svelto, protettore di chi corre, e Santa Ritirata, che fuggi oggi per combattere domani, salvatemi voi!”
Quasi come se la sua supplica mentale l’avesse infastidita, la Manticora spiccò un balzo, emettendo un ruggito che riecheggiò per miglia attraverso la palude buia e marcia. Con uno schianto roboante, il cespuglio di rami secchi e spine esplose sotto al peso della bestia. Rospo venne investito da una pioggia di saliva e sangue, quando le fauci del mostro si serrarono a pochi millimetri dal suo volto pallido. Era vivo. L’anello di cespugli era sufficientemente fitto da aver rallentato lo slancio della Manticora, che in quel momento si ritrovava stretta ai fianchi dalla vegetazione superstite. Rospo comprese di avere pochi istanti, prima che la coda della creatura spaccasse quei calappi improvvisati; le sue opzioni erano, però, limitate: voltarsi e scappare? Impossibile, significava correre lungo la collina, al buio. Se non lo avesse ucciso la Manticora, probabilmente sarebbe caduto e si sarebbe rotto l’osso del collo, poi la bestia se lo sarebbe mangiato. Involontariamente, le sue mani corsero verso il peso che avvertiva sulla schiena, la spada che era appartenuta al condottiero. Il padrone aveva dato a Rospo alcune lezioni di scherma, ma il ragazzo dubitava che qualche duello fasullo con bastoni di legno gli sarebbe stato di qualche utilità, contro un avversario del genere. Tuttavia, snudò la lama. E immediatamente senti le braccia rinsecchite che tremavano sotto al peso dell’acciaio; aveva sentito dire al Condottiero che la sua lama era “da una mano e mezzo”, ma per riuscire a sollevarla Rospo la doveva impugnare a mo’ di spadone.
Si lanciò, a testa bassa, cercando di urlare con quanto fiato aveva in gola. Non ci riuscì, emise solo una buffa nota strozzata. Ma la Manticora, non avvezza a vedersi correre incontro le prede, rimase a fissarlo senza reagire, interrompendo momentaneamente la sua lotta col roveto. Scaricando il peso della lama in un unico affondo disperato, Rospo chiuse gli occhi. Un rumore simile a quello dell’ascia di un boscaiolo contro al tronco di una grande quercia gli confermò di essere andato a segno. Aprì l’occhio destro, quello meno pesto, proprio mentre il cervello del mostro realizzava il dolore: la lama della spada si era piantata in corrispondenza dell’occhio sinistro della Manticora. Infuriata come un mare in tempesta, la creatura aveva ripreso il suo dibattersi forsennato, triturando i cespugli con zampe, denti e coda; uno scatto della grossa testa aveva strappato l’elsa della spada dalle mani del ragazzino. Prima di poter compiere qualsiasi altra azione, Rospo sentì un sibilo ed uno schiocco, poi il terreno lo abbandonò.
Riatterò a pochi centimetri dal corpo senza vita del Condottiero. Diede un colpo di tosse e sputò un grumo di sangue. Il dolore che stava provando superava di gran lunga qualsiasi pestaggio avesse subito nella sua pur breve vita; La Manticora, comprese, doveva aver compiuto una spazzata con la coda che aveva disintegrato i cespugli e spedito lui verso il centro dell’anello, dove c’era l’accampamento, con il grande albero alle sue spalle. La spada del Condottiero era rimasta incastrata nell’occhio del mostro, che tentava inutilmente di rimuoverla con le zampe da gallinaccio. La lama era dentro al bulo oculare, ma solo per pochi centimetri. In un ultimo, disperato, lampo di genio, Rospo si rimise in piedi, tremando. Iniziò a dire qualsiasi imprecazione gli passasse per la testa, a battere le mani e i piedi, a insultare la bestia. Funzionò. La Manticora si acquattò, preparò l’assalto e spiccò un balzo, con gli artigli e le fauci protratte. Rospo rimase in piedi e chiuse gli occhi. Si udì uno schianto terribile.
Dopo quella che sembrò un’eternità, Rospo strisciò fuori da sotto alla Manticora, il suo corpo era un coro di dolore composto da mille voci diverse. Guardò la bestia: era morta! Il suo piano aveva miracolosamente funzionato. Si era lasciato cadere a terra al momento opportuno e il mostro, ormai in aria e senza possibilità di modificare la sua rotta di collisione con l’albero, era andato a sbatter contro il tronco duro della pianta. L’impatto aveva spinto la lama a fondo nel cranio della creatura, uccidendola. Rospo cercò di estrarre l’arma dal corpo della Manticora, ma quella si spezzò in due, lasciandogli solo l’elsa ed un moncone di acciaio in mano. I suoi occhi di rana si soffermarono a lungo su quel rottame: anche l’ultimo legame che aveva col Condottiero era stato tagliato. Era solo, era abbandonato. Era Libero. Rospo si abbandonò contro al tronco dell’albero, fra il cadavere del Condottiero e quello della bestia che l’aveva ucciso, e rise, fissando la luna.
Rise come non aveva mai riso prima.
di Danilo Riccio (Kiljedayn)
“Rospo, buono a nulla, datti una mossa con quella roba, che San Fracassio ti faccia cadere i denti a suon di cazzotti!”
Rospo farfugliò qualcosa che si perse nel rumore delle ruote del carretto che il ragazzino stava trascinando lungo la strada fangosa.
“Fango e merda,” aveva sputato il Condottiero, “non si può trovare nient’altro da queste parti. Maledizione, ‘sto dannato porcile è più lurido della fregna di Sant’Allegra!”
Rospo, che non era esattamente cresciuto in un collegio per educande, restava sempre affascinato dalla capacità del vecchio mercenario di trovare il santo o la santa più adatti da insultare per ogni occasione. Naturalmente provava ad imitarlo, ma le sue bestemmie suonavano come i buffi pigolii di un uccellino spennacchiato; anzi, come i patetici gracidii di un rospetto pallido e denutrito. Niente a che vedere con la voce di cannone del Condottiero.
“Oh, pestamerde! Vuoi tenere quegli occhi strabici sulla strada o preferisci ritrovarti in una pozza, prima? Bada, di te non me ne frega niente, ma la roba sul carretto mi serve, imbecille.”
Troppo tardi, il ragazzetto s’era distratto un secondo di troppo: il fondo limaccioso di quella specie di strada aveva afferrato una delle due ruote del piccolo carro malandato trainato da Rospo. Temendo di venire lasciato indietro dal Condottiero, il ragazzo s’era messo a tirare con tutte le sue forze, come un animale in trappola. Funzionò, in parte; il carretto compì un balzo in avanti e si rovesciò su un fianco, riversando il suo contenuto di armi, provviste e (cosa peggiore) di pezzi d’armatura del Condottiero in una vicina pozza di mota scura e puzzolente. Gli occhi di Rospo, che già di loro erano gonfi e sporgenti, divennero due volte più larghi del normale. Probabilmente il Condottiero potè specchiarcisi, mentre si preparava ad affibbiargli il primo di una lunga serie di scapaccioni furibondi.
Non era andata poi tanto male, si diceva fra sé e sé Rospo. Forse, complici la fame e la lunga marcia della giornata, la sfuriata del Condottiero si era rivelata lunga, ma non di particolare intensità; i denti erano tutti al loro posto, il deretano non era eccessivamente indolenzito dalle pedate e l’occhio sinistro, per quanto tumefatto, non era completamente chiuso. Ai santi e alle sante della Dottrina, invece, non era stata risparmiata mezza angheria: San Placido s’era beccato diversi auguri di rogna, San Lupo un serie di improperi che avrebbero fatto cedere le ginocchia di un soldato di ventura in qualsiasi taverna e, per ultima, Santa Allegra la Sorridente (che da sempre occupava il posto d’onore nei moccoli del Condottiero) si era vista accostare ad un tale assortimento di animali da cortile da rabbuiare perfino il suo mite sorriso che, stando alla leggenda, aveva fermato le lame dei barbari che avevano attaccato la Piana tanti secoli prima.
Pesto e con la pancia vuota, dato che il poco cibo recuperato era andato al suo tirannico duce, a Rospo non era rimasto altro da fare se non ripescare uno ad uno tutti i pezzi della corazza del padrone, mentre il prode capitano sonnecchiava sotto a un albero posto in cima alla collinetta che dominava quell’angolo della Fanga, la regione più schifosamente fangosa dell’intera Piana. Quando il giovane aveva iniziato quel compito improbo era da poco passato il mezzodì e il sole, quasi a volerlo prendere ulteriormente per il suo dolorante culo, gli aveva fatto da spettatore per tutto il pomeriggio, seccando il fango e rendendo il già mefitico odore di quella specie di palude ancora peggiore; cotto dal caldo, mangiato dalle zanzare e ricoperto da una crosta grigiastra che copriva la sua abituale sporcizia, Rospo trasse un sospiro di sollievo mentre estraeva l’elmo del Condottiero dal pantano. L’intera armatura era lorda, ma i pezzi sembravano esserci tutti. Un sorriso involontario spaccò le labbra riarse del ragazzo: forse il padrone gli avrebbe persino dato qualcosa da bere. Sempre che ne fosse avanzato. Il giovanotto raccolse quell’ammasso di metallo e lo ammonticchiò su un sasso piatto e largo nelle vicinanze, poi rimase a fissarlo, grattandosi la testa. L’armatura l’aveva recuperata, certo, ma ora come l’avrebbe trasportata in cima alla collinetta? Anche se avesse fatto più viaggi, la pendenza dell’avvallamento era, comunque, una sfida notevole da affrontare portando in mano dei pezzi di pesante metallo; per non dire, poi, che al di là delle botte e delle ore passate a sgobbare sotto al sole, Rospo non ricordava l’ultima volta in cui avesse messo del cibo vero sotto ai denti. La sua colazione della giornata era consistita in una crosta di pane e un paio di sorsi d’acqua calda presi dal suo vecchio otre, che ora giaceva da qualche parte in fondo al fango. Il ragazzino si rassegnò: l’unica soluzione consisteva nel rimettere in piedi il carretto, pregando che le ruote vi fossero ancora attaccate saldamente e in grado di funzionare, e trascinare armi e bagagli fino alla collinetta; una volta giunto ai piedi della stessa, si sarebbe arrampicato, avrebbe svegliato il Condottiero e si sarebbero rimessi in marcia. Ma no, era impossibile, il sole aveva già iniziato a tramontare. Non sarebbero mai arrivati a Laquercia prima del buio. Si sarebbero dovuti accampare lì, nella Fanga, e il Condottiero non avrebbe avuto abbastanza vino per andare a letto tranquillo, perciò, Rospo lo sapeva fin troppo bene, il giorno dopo sarebbe stato ancora più perfido. Sacramentando una novena di bestemmie col suo patetico gracidio, il ragazzino si mise all’opera e si incamminò. Si chiese se almeno i santi, dovunque essi fossero, prendessero sul serio i suoi insulti. Ma ne dubitava. Era sempre stato una nullità e sempre lo sarebbe stato.
C’era voluto del bello e del buono, ma alla fine era arrivato. Il sole, ormai quasi del tutto tramontato, tingeva di rosso scuro il fango e le macchie di vegetazione incolta che punteggiavano la Fanga. La collinetta, che da vicino sembrava decisamente più imponente di quanto Rospo avesse stimato in precedenza, stava lì, beffarda e ricoperta di rovi e sterpaglie. Rospo sospirò. Però, proprio mentre si accingeva ad iniziare la scalata, i suoi occhi di ranocchio vennero attratti da qualcosa. Qualcosa che strisciava lentamente fra il fango e le spine dei cespugli selvaggi, con quella grazia fantasma che solo un predatore in caccia poteva esibire; era troppo buio per poter capire di che bestia si trattasse, tuttavia il cuore del ragazzino accelerò involontariamente il suo battito: se c’era una bestia, c’era della carne; se c’era della carne, c’era del cibo. Quasi a voler sottolineare quel pensiero, lo stomaco di Rospo gorgogliò famelico. Forse i santi, finalmente rimessi al loro posto dalle sue imprecazioni, avevano deciso di mandargli un regalo? Se era così, bisognava agire. Il giovane prese la spada del Condottiero, l’unica arma che era riuscito a recuperare che fosse ancora servibile, e si inerpicò lungo il pendio scosceso della collina, cercando di non perdere di vista la macchia che ondeggiava sinuosa verso la cima.
Fu solo a metà della salita, all’ennesimo inciampo, che a Rospo vennero in mente due cose. La prima era che le orme che stava cercando di seguire erano davvero bizzarre: la cosa lasciava dei segni che ricordavano quelli di una serpe che striscia nel fango, perfino i segni delle squame rimanevano impressi nel terreno umido della collina. Ma, al contempo, la creatura lasciava anche due orme simili a quelle di un gatto… un gatto molto, molto grosso, e per completare quel folle ritratto, in corrispondenza del punto nel quale avrebbe dovuto avere le zampe anteriori, le impronte di un paio di zampe da uccello. La seconda epifania del ragazzo, invece, fu quella che gli ricordò che in cima a quella zolla di terra troppo cresciuta c’era un’unica, possibile preda: il Condottiero. Solo, disarmato e probabilmente con i postumi di una sbronza (Rospo sapeva perfettamente che il Condottiero teneva sempre con sé una fiaschetta “segreta” contenente qualsiasi liquore torcibudella su cui il vecchio mercenario riuscisse a posare le grinfie). Se il padrone finiva mangiato, lui che fine avrebbe fatto? Non aveva nessun altro. Decise che avrebbe accelerato l’andatura; mise la spada a tracolla, si accucciò a quattro zampe e iniziò a muoversi tastando le orme della bestia, incurante dei rovi che gli laceravano gambe, volto e braccia.
Nella sua vita, Rospo non era mai stato uno che brillava per tempismo. Ne ebbe riprova nell’esatto momento in cui mise il naso al di là del bordo della collina. Il Condottiero aveva attrezzato un bivacco, con un piccolo fuoco al centro di una sorta di anello di cespugli che cingeva la sommità del pendio come una corona d’alloro grottesca. Attraverso un’apertura nel roveto, Rospo poteva vedere il suo prode capitano che si scaldava le mani, borbottando. Gli dava le spalle, così come le dava alla grossa sagoma che avanzava nel buio, pronta all’assalto.
“Condottiero, mio Condottiero!” Fece appena in tempo a rantolare, scosso dal fiatone.
Il Condottiero si voltò nella direzione di quel gracidio sgraziato. Fu l’ultima azione che compì in vita sua.
Con un ringhio mostruoso, la belva scattò in avanti e serrò un paio di potenti mascelle intorno alla testa del Condottiero.
Splotch.
Rospo non riuscì mai a dimenticare quel suono osceno e liquido. Gli ricordava quando, da piccolo, aveva fatto cadere una cesta di uova per terra; era stato lo stesso giorno in cui i genitori l’avevano venduto al Condottiero. Era un pensiero buffo, la testa del suo padrone faceva un suono simile a quello di un cestino di piccole, fragili uova. Ma non c’era niente da ridere. La bestia aveva preso a scuotere il corpo del Condottiero, sbatacchiandolo contro il tronco dell’albero che gli aveva fornito riparo nel pomeriggio e spaccandogli le ossa, in una sanguinolenta parodia di un aspersorio, col quale benediceva l’accampamento. Si udì uno strappo. Non c’era altro modo per definire quel suono, era uno strappo, poi il corpo ormai decapitato del Condottiero si afflosciò al suolo come un burattino rotto, in uno zampillare di rossa linfa vitale. Alla luce del falò, Rospo potè finalmente vedere il muso della creatura, che ricordava un orribile incrocio fra un lupo e un orso, spaccare con un morso la scatola cranica del suo ormai defunto padrone. Coperto di sangue, il mostro iniziò a divorare il cervello dell’uomo.
Manticora.
La parola riemerse dai ricordi d’infanzia di Rospo. “Mangia la zuppa, altrimenti viene la Manticora e sarà lei a mangiare te!”, “Lavati, sudicione, altrimenti la Manticora potrà fiutarti nel buio e ti mangerà!”
Da quel che poteva vedere, nessuno degli adulti che ne avevano agitato lo spauracchio aveva mai realmente incontrato la Manticora. Nelle storie cantate dai menestrelli la bestia aveva tratti caprini, serpenti vivi come coda, un numero di teste variabile (però mai inferiore a due) e, soprattutto, le dimensioni di una casetta. Niente a che vedere con quell’incubo compatto che si trovava davanti, che forse non superava la stazza di un grosso lupo, ma in compenso aveva muscoli d’acciaio che si contraevano sotto un mosaico di pelliccia e scaglie ed una coda irta di spine che sferzava l’aria producendo schiocchi di frusta.
Rospo si pisciò addosso. Ma non se ne accorse fino a quando la bestiaccia, che aveva finito di divorare la testa del Condottiero, non si voltò nella sua direzione col naso fremente. Anche se aveva il muso intriso di sangue fresco, il ragazzino era certo che l’odore acre della sua urina, del suo terrore distillato, era chiaramente percepibile per la belva; le zampe rostrate da gallo ipertrofico presero a raspare furiosamente il terreno, poi la Manticora piantò gli occhi sul cespuglio. Per un breve, orribile, istante gli sguardi del cacciatore e della preda si erano incontrati attraverso la feritoia del roveto.
“San Svelto, protettore di chi corre, e Santa Ritirata, che fuggi oggi per combattere domani, salvatemi voi!”
Quasi come se la sua supplica mentale l’avesse infastidita, la Manticora spiccò un balzo, emettendo un ruggito che riecheggiò per miglia attraverso la palude buia e marcia. Con uno schianto roboante, il cespuglio di rami secchi e spine esplose sotto al peso della bestia. Rospo venne investito da una pioggia di saliva e sangue, quando le fauci del mostro si serrarono a pochi millimetri dal suo volto pallido. Era vivo. L’anello di cespugli era sufficientemente fitto da aver rallentato lo slancio della Manticora, che in quel momento si ritrovava stretta ai fianchi dalla vegetazione superstite. Rospo comprese di avere pochi istanti, prima che la coda della creatura spaccasse quei calappi improvvisati; le sue opzioni erano, però, limitate: voltarsi e scappare? Impossibile, significava correre lungo la collina, al buio. Se non lo avesse ucciso la Manticora, probabilmente sarebbe caduto e si sarebbe rotto l’osso del collo, poi la bestia se lo sarebbe mangiato. Involontariamente, le sue mani corsero verso il peso che avvertiva sulla schiena, la spada che era appartenuta al condottiero. Il padrone aveva dato a Rospo alcune lezioni di scherma, ma il ragazzo dubitava che qualche duello fasullo con bastoni di legno gli sarebbe stato di qualche utilità, contro un avversario del genere. Tuttavia, snudò la lama. E immediatamente senti le braccia rinsecchite che tremavano sotto al peso dell’acciaio; aveva sentito dire al Condottiero che la sua lama era “da una mano e mezzo”, ma per riuscire a sollevarla Rospo la doveva impugnare a mo’ di spadone.
Si lanciò, a testa bassa, cercando di urlare con quanto fiato aveva in gola. Non ci riuscì, emise solo una buffa nota strozzata. Ma la Manticora, non avvezza a vedersi correre incontro le prede, rimase a fissarlo senza reagire, interrompendo momentaneamente la sua lotta col roveto. Scaricando il peso della lama in un unico affondo disperato, Rospo chiuse gli occhi. Un rumore simile a quello dell’ascia di un boscaiolo contro al tronco di una grande quercia gli confermò di essere andato a segno. Aprì l’occhio destro, quello meno pesto, proprio mentre il cervello del mostro realizzava il dolore: la lama della spada si era piantata in corrispondenza dell’occhio sinistro della Manticora. Infuriata come un mare in tempesta, la creatura aveva ripreso il suo dibattersi forsennato, triturando i cespugli con zampe, denti e coda; uno scatto della grossa testa aveva strappato l’elsa della spada dalle mani del ragazzino. Prima di poter compiere qualsiasi altra azione, Rospo sentì un sibilo ed uno schiocco, poi il terreno lo abbandonò.
Riatterò a pochi centimetri dal corpo senza vita del Condottiero. Diede un colpo di tosse e sputò un grumo di sangue. Il dolore che stava provando superava di gran lunga qualsiasi pestaggio avesse subito nella sua pur breve vita; La Manticora, comprese, doveva aver compiuto una spazzata con la coda che aveva disintegrato i cespugli e spedito lui verso il centro dell’anello, dove c’era l’accampamento, con il grande albero alle sue spalle. La spada del Condottiero era rimasta incastrata nell’occhio del mostro, che tentava inutilmente di rimuoverla con le zampe da gallinaccio. La lama era dentro al bulo oculare, ma solo per pochi centimetri. In un ultimo, disperato, lampo di genio, Rospo si rimise in piedi, tremando. Iniziò a dire qualsiasi imprecazione gli passasse per la testa, a battere le mani e i piedi, a insultare la bestia. Funzionò. La Manticora si acquattò, preparò l’assalto e spiccò un balzo, con gli artigli e le fauci protratte. Rospo rimase in piedi e chiuse gli occhi. Si udì uno schianto terribile.
Dopo quella che sembrò un’eternità, Rospo strisciò fuori da sotto alla Manticora, il suo corpo era un coro di dolore composto da mille voci diverse. Guardò la bestia: era morta! Il suo piano aveva miracolosamente funzionato. Si era lasciato cadere a terra al momento opportuno e il mostro, ormai in aria e senza possibilità di modificare la sua rotta di collisione con l’albero, era andato a sbatter contro il tronco duro della pianta. L’impatto aveva spinto la lama a fondo nel cranio della creatura, uccidendola. Rospo cercò di estrarre l’arma dal corpo della Manticora, ma quella si spezzò in due, lasciandogli solo l’elsa ed un moncone di acciaio in mano. I suoi occhi di rana si soffermarono a lungo su quel rottame: anche l’ultimo legame che aveva col Condottiero era stato tagliato. Era solo, era abbandonato. Era Libero. Rospo si abbandonò contro al tronco dell’albero, fra il cadavere del Condottiero e quello della bestia che l’aveva ucciso, e rise, fissando la luna.
Rise come non aveva mai riso prima.