La mia piccola vittima
Inviato: martedì 17 marzo 2020, 0:23
La seguo ogni giorno, fin dai tempi in cui il suo mondo oltrepassava appena il cortile di casa.
Aveva tre amiche; due abitavano nella sua stessa via. Una di loro – Chiara, mi pare – la salutava dal balcone del dirimpettaio tutti i pomeriggi, sul tardi, quando le ombre si allungavano ai piedi di alberi e lampioni. Chissà se intuiva, dagli occhi bassi della mia piccola vittima, che quello era il momento peggiore.
La seguo ogni notte, da quando si svegliava nel panico in un letto bagnato.
Suo padre era estremamente comprensivo sulla Questione, come la chiamava. Ho sempre sospettato che lo fosse perché era la moglie, nove volte su dieci, a ripulire il fattaccio. Gli incubi della piccola li avevo intessuti io, certo; io pesavo sul suo sonno.
Alle medie, non c’era più modo di farle bagnare il letto, ma non mi diedi per vinto: la nuova scuola offriva un magnifico ventaglio di ansie e terrori inediti con cui sperimentare. C’era un vecchio capanno per gli attrezzi, nei giardini dietro il parcheggio, che nessuno era in grado di chiudere a dovere: volete indovinare chi si annidava nella tenebra lercia, appena oltre la soglia, ogni mattina, quando passava la piccola?
A quattordici anni non poteva credere ancora alla mia esistenza, non sul serio, ma questo non le impediva di intravedermi, né mi vietava di sferzarla per farle rizzare i peli sulla nuca.
Lasciò il suo primo fidanzato per me: sissignore, niente di meno. Chiedetelo al vostro boogeyman di quartiere, se lui è riuscito a fare qualcosa del genere.
Mi accocolavo in fondo alle sue pupille, di quando in quando, come un gatto nero appisolato su un davanzale, e la mia piccola vittima non poteva guardarlo senza che un brivido la riportasse ai terrori notturni dell’infanzia.
Comunque, non era il suo tipo. Io l’ho sempre saputo che le sarebbe servita una brava donna, piuttosto; da prima che lo sospettasse sua madre, e da prima che lei, fresca di diploma, lo ammettesse a se stessa.
No, non le ho fatto mollare anche la moglie.
Sarebbe stato monotono, ecco perché.
La piccola si diceva fortunata: aveva raggiunto la maggiore età senza episodi gravi di depressione, al contrario di tanti compagni.
Fortunata un cavolo: quei demonietti neri e oleosi le erano stati appresso per tutto il liceo, e l’avrebbero ridotta a uno straccio, se non me ne fossi liberato io.
Perché lei era la mia vittima, ecco perché: ci avevo lavorato un sacco, e non l’avrei ceduta solo perché “così va la vita, quando si cresce”.
All’università, però, lo stress l’ha ingoiata: la madre si è ammalata, lei ha mandato in vacca un paio di esami, e il suo controllo di sé si è incrinato.
Odiosi ragnetti, i mostricciattoli dello stress, ma astuti: zampettano sulla pelle, rosicchiano la colonna vertebrale e s’infilano nelle scarpe e sotto i colletti. È impossibile beccarli tutti in una volta, ma ho imparato a conoscerli: so dove cercarli, e quali pezzi staccare subito per renderli inermi (le zampe posteriori, se v’interessa).
Altre due settimane, e la piccola starà molto meglio.
Sì, lo so, è grande ormai, ma le vecchie abitudini sono dure a morire, e quando m’intravede nell’armadio socchiuso, o sotto un cavalcavia, di notte, o in un sogno pauroso, è ancora la mia piccola vittima – mia, e di nessun altro.
Anche se ormai, anziché strillare o accelerare il passo, mi pare che sorrida.
Vai a capire perché.
Aveva tre amiche; due abitavano nella sua stessa via. Una di loro – Chiara, mi pare – la salutava dal balcone del dirimpettaio tutti i pomeriggi, sul tardi, quando le ombre si allungavano ai piedi di alberi e lampioni. Chissà se intuiva, dagli occhi bassi della mia piccola vittima, che quello era il momento peggiore.
La seguo ogni notte, da quando si svegliava nel panico in un letto bagnato.
Suo padre era estremamente comprensivo sulla Questione, come la chiamava. Ho sempre sospettato che lo fosse perché era la moglie, nove volte su dieci, a ripulire il fattaccio. Gli incubi della piccola li avevo intessuti io, certo; io pesavo sul suo sonno.
Alle medie, non c’era più modo di farle bagnare il letto, ma non mi diedi per vinto: la nuova scuola offriva un magnifico ventaglio di ansie e terrori inediti con cui sperimentare. C’era un vecchio capanno per gli attrezzi, nei giardini dietro il parcheggio, che nessuno era in grado di chiudere a dovere: volete indovinare chi si annidava nella tenebra lercia, appena oltre la soglia, ogni mattina, quando passava la piccola?
A quattordici anni non poteva credere ancora alla mia esistenza, non sul serio, ma questo non le impediva di intravedermi, né mi vietava di sferzarla per farle rizzare i peli sulla nuca.
Lasciò il suo primo fidanzato per me: sissignore, niente di meno. Chiedetelo al vostro boogeyman di quartiere, se lui è riuscito a fare qualcosa del genere.
Mi accocolavo in fondo alle sue pupille, di quando in quando, come un gatto nero appisolato su un davanzale, e la mia piccola vittima non poteva guardarlo senza che un brivido la riportasse ai terrori notturni dell’infanzia.
Comunque, non era il suo tipo. Io l’ho sempre saputo che le sarebbe servita una brava donna, piuttosto; da prima che lo sospettasse sua madre, e da prima che lei, fresca di diploma, lo ammettesse a se stessa.
No, non le ho fatto mollare anche la moglie.
Sarebbe stato monotono, ecco perché.
La piccola si diceva fortunata: aveva raggiunto la maggiore età senza episodi gravi di depressione, al contrario di tanti compagni.
Fortunata un cavolo: quei demonietti neri e oleosi le erano stati appresso per tutto il liceo, e l’avrebbero ridotta a uno straccio, se non me ne fossi liberato io.
Perché lei era la mia vittima, ecco perché: ci avevo lavorato un sacco, e non l’avrei ceduta solo perché “così va la vita, quando si cresce”.
All’università, però, lo stress l’ha ingoiata: la madre si è ammalata, lei ha mandato in vacca un paio di esami, e il suo controllo di sé si è incrinato.
Odiosi ragnetti, i mostricciattoli dello stress, ma astuti: zampettano sulla pelle, rosicchiano la colonna vertebrale e s’infilano nelle scarpe e sotto i colletti. È impossibile beccarli tutti in una volta, ma ho imparato a conoscerli: so dove cercarli, e quali pezzi staccare subito per renderli inermi (le zampe posteriori, se v’interessa).
Altre due settimane, e la piccola starà molto meglio.
Sì, lo so, è grande ormai, ma le vecchie abitudini sono dure a morire, e quando m’intravede nell’armadio socchiuso, o sotto un cavalcavia, di notte, o in un sogno pauroso, è ancora la mia piccola vittima – mia, e di nessun altro.
Anche se ormai, anziché strillare o accelerare il passo, mi pare che sorrida.
Vai a capire perché.