Redenzione
Inviato: sabato 18 aprile 2020, 16:54
“Peggio di così non può andare” pensa Zecca, e non ha finito di pensarlo che una grassa goccia di pioggia lo centra dritta dritta sulla chierica.
Lui si rimastica tra i denti un’imprecazione talmente schifosa e infame da far impallidire il Domnineddio in persona, dopodiché s’incammina svelto verso l’insenatura nella roccia che aveva scorto poco prima da lontano. La pioggia aumenta ad ogni suo passo, e più quella aumenta, più lui impreca, manco fosse una gara tra lui e l’Altissimo lassù, che evidentemente vuole punirlo ogni secondo di più.
Nella caverna, Zecca ci arriva zuppo da capo a piedi e ormai a corto d’insulti contro il cielo e la terra, ma almeno adesso è al coperto e può provare a ragionare su quello che gli è capitato.
Il “lavoretto di tutto riposo” datogli dal Capo per recuperare un mucchio d’oro, su alla tana del Bigatto, è andato a farsi benedire, e forse i suoi compagni sono tutti crepati.
“Se non se li è pappati il Bigatto” pensa Zecca, “lo avranno fatto le altre bestiacce che infestano questi boschi, o peggio ancora saranno stati catturati da qualche banda di tagliagole. Ad ogni modo, su di loro non posso contare. Deve vedermela da me.”
La caverna è alta e profonda, ma Zecca non ha intenzione di spingersi oltre un piccolo spiazzo un po’ più asciutto degli altri.
“All’alba ritroverò la strada e ritornerò in città, non appena questo dannato nubifragio smetterà!” si dice, sedendosi per terra, appoggiato alla parete umida della grotta.
La notte passa, ma il nubifragio no. Anzi, aumenta, e Zecca inizia a temere che tutta quella storia, forse, è davvero una punizione per la sua vita non proprio onesta… o per le imprecazioni… sì… probabilmente è una punizione per quelle.
Quando ormai non sa più nemmeno che ore sono, visto che il cielo resta sempre nero, lo stomaco gli ricorda che sono ormai tre giorni che lo lascia senza uno straccio di cibo. Zecca allora si affaccia dalla caverna ed esamina qualche cespuglio con delle bacche che crescono accanto all’entrata.
“Sembrano proprio succose” pensa. “Ma saranno velenose? Meglio non rischiare. La pioggia finirà prima o poi, no? E allora potrò alzare i tacchi e filarmela da questo buco. Anche perché non vorrei essere entrato nella tana di qualche bestia schifosa. Quanto alle bacche… è sempre meglio non mettersi in bocca robe che non sai cosa sono. Devo solo aspettare e avere pazienza. La pioggia starà per finire. Quanta maledetta acqua può contenere lo stramaledetto cielo?”
Tanta… può contenerne tanta, di acqua, il cielo… ma proprio tanta.
Passa un altro giorno e di smettere di piovere, a quanto pare, non se ne parla nemmeno. Ormai il terreno fuori è una palude e Zecca non ne può più. È riuscito ad accendere un fuocherello stitico, ma di certo non basta per asciugargli le ossa, che sente bagnate fin nel midollo. La tosse lo sconquassa e lo piega in due, per non parlare della fame, che comincia a fargli perdere la ragione.
“Se esco vivo da questa faccenda” dice a voce alta, “giuro che divento una persona perbene e mi trovo un lavoro onesto. Niente più imbrogli, niente più lavoretti, niente più rapine e niente più bordelli pieni di donnacce lascive. E se incontro il Capo, lo riempio di mazzate, quel bastardo!”
Prima di mettersi a dormire, Zecca si ripete di “non mangiare quelle dannate bacche… quelle grosse… grasse bacche succose. Di cosa sapranno? Chi se ne fotte. Non devo mangiarle!”
Un’ora dopo, Zecca mangia le bacche.
Ne strappa una manciata e senza starci troppo a pensare se le mette in bocca, pure con qualche foglia. Le mastica giusto il tempo per farne poltiglia e poterle mandar giù senza strozzarsi, dopodiché si sciacqua tutto con un po’ d’acqua piovana… che non smette ancora di scendere.
“Sarà mica una maledizione di qualche fattucchiera?” si chiede Zecca, staccandosi un pezzo di foglia incastratosi tra i molari.
Passa qualche… minuto? Ora? Giorno? Zecca non lo sa più. La fame diminuisce però… e pure il freddo… anzi… adesso ha un caldo porco.
Fuori è buio e forse piove ancora, ma dentro è cambiato qualcosa.
C’è una luce. Sì… una luce. Proviene dal fondo della caverna, così Zecca, incuriosito, la segue, svoltando dietro una parete umida e appiccicosa. Lì, sparsi sul terreno, ci sono i resti di un uomo in armatura. Una bella armatura, di quelle che si mettono i cavalieri, i cavalieri quelli importanti, mica quei quattro ubriaconi della guardia cittadina. Proprio una bella armatura, e ancor più bella è la spada che sta sotto quei miseri resti. Ed è proprio lei a far luce nel buio della caverna: un grosso spadone che Zecca a stento riesce a sollevare, figurarsi tirarlo in faccia ad un nemico, come quel cavaliere morto sicuramente aveva fatto centinaia di volte, in vita sua, sempre con grande valore e forza e coraggio.
“Chissà…” si domanda Zecca, e mentre, con grande sforzo, solleva la spada, che brilla come una lanterna, il caldo gli prende alla testa e lo fa barcollare. “Chissà come ci è finito qua, stecchito e ammuffito come l’ultima delle canaglie in fuga.”
La lama luccica, quasi gli ferisce gli occhi, ma, ad un certo punto, Zecca si rende conto che la spada non sa fare solo quello. Gli parla, anche. Sì… gli parla nel cervello e lo insulta con voce tonante: gli dà del gaglioffo, del manigoldo. Come osa una bestia men che bestia come lui a brandirla con siffatta impudenza? Zecca si scusa, fa per rimettere lo spadone là dove l’aveva preso, ma quello lo ferma e gli dice di no… che non osasse a buttarlo via, eh!
“Ma voi chi siete?” chiede Zecca, sempre più accaldato, la voce che riecheggia nel vuoto della caverna.
La spada risponde di essere Lucelama, veneratissima arma dell’invincibile e valoroso Cavalier Crociato Tormisda Griffo di Comneno, Duca di Monte Zamolo, Contestabile di Alazia e tutta un’altra serie di titoli e nomi di posti che Zecca dimentica nell’istante stesso in cui li sente. A quanto pareva, l’impareggiabile cavaliere, di ritorno da violentissima pugna, s’era accasciato, ferito a morte, in quella putrida grotta, e lì aveva restituito l’anima pura al Domineddio, che per primo gli aveva fornito quella spada dotata d’intelletto proprio per guidarlo nelle sue scelte e per renderlo invincibile contro i propri nemici. Ma ora, il prode e audace cavaliere era morto, e lei, Lucelama, era rimasta senza un padrone da render forte nella sua lotta per il Bene e la Giustezza.
“E adesso?” domanda ancora Zecca, strabuzzando gli occhi, e Lucelama, dopo un lungo attimo di silenzio, gli risponde seriosa, affermando d’aver compreso tutto: se il Domineddio ha fatto incrociare le loro strade, dice, ciò deve esser perché, dopo aver servito e rafforzato un cavaliere già di per sé votato al bene, adesso le tocca indirizzare sulla retta via un losco figuro, dedito ad ogni sorta di indegni affari, quale Zecca chiaramente è, vista la conformazione della sua mente.
“Ma cosa dovrei fare?” chiede per l’ennesima volta Zecca, e la risposta, questa volta, è un colpo di elsa sul naso, sferrato come se la spada potesse muovere da sola il pugno che la teneva.
Lucelama ordina al suo nuovo portatore di smettere di fare domande ed agire: visto che fuori è tornato il sereno, continua l’arma, adesso lui deve rientrare in città da uomo nuovo, rinato, finalmente lavatosi delle vecchie infamie e pronto ad incamminarsi sul luminoso sentiero dei Paladini del Domineddio. E non finisce qui: il primo passo lungo questa nuova strada, la sua prima prova per dimostrare e concretizzare la sua Luce Ritrovata, sarà quella di sterminare ciò che resta della teppaglia alla quale aveva, per troppo tempo, prestato i propri servigi, insozzandosi l’anima. Il primo colpo, nemmeno a dirlo, sarebbe stato per quel gaglioffo del Capo.
Zecca ha tante domande, e anche se non le fa ad alta voce, la spada gliele legge dentro e lo colpisce in faccia e in testa e nella pancia e sulle ginocchia, ancora e ancora, finché il poveraccio smette di farsele e semplicemente s’incammina nella giornata fredda ed umida, ma nuovamente limpida.
Lucelama non rifulge più, ma parla ancora, e già suggerisce a Zecca il piano per cogliere di sorpresa il Capo e ammazzarlo come il cane che è.
Anche se confuso e stordito e impaurito e accaldato, adesso Zecca ha uno scopo da compiere, che forse gli è stato davvero affidato come ultima possibilità di redenzione in risposta alla sua disperata preghiera.
“Anzi… sicuramente… sicuramente… non v’è ombra di dubbio. Adesso io sono un Paladino del Domineddio, Vincitore d’Orrori, Sterminatore di Briganti, Punitore d’Infami!”
Arrivato in vista della città, Zecca si sente assolutamente convinto della sua nuova missione, e ad essere perfettamente sinceri, non vede l’ora di infilare Lucelama nelle budella peccaminose del Capo.
Era da tempo che desiderava farlo, in effetti.
Lui si rimastica tra i denti un’imprecazione talmente schifosa e infame da far impallidire il Domnineddio in persona, dopodiché s’incammina svelto verso l’insenatura nella roccia che aveva scorto poco prima da lontano. La pioggia aumenta ad ogni suo passo, e più quella aumenta, più lui impreca, manco fosse una gara tra lui e l’Altissimo lassù, che evidentemente vuole punirlo ogni secondo di più.
Nella caverna, Zecca ci arriva zuppo da capo a piedi e ormai a corto d’insulti contro il cielo e la terra, ma almeno adesso è al coperto e può provare a ragionare su quello che gli è capitato.
Il “lavoretto di tutto riposo” datogli dal Capo per recuperare un mucchio d’oro, su alla tana del Bigatto, è andato a farsi benedire, e forse i suoi compagni sono tutti crepati.
“Se non se li è pappati il Bigatto” pensa Zecca, “lo avranno fatto le altre bestiacce che infestano questi boschi, o peggio ancora saranno stati catturati da qualche banda di tagliagole. Ad ogni modo, su di loro non posso contare. Deve vedermela da me.”
La caverna è alta e profonda, ma Zecca non ha intenzione di spingersi oltre un piccolo spiazzo un po’ più asciutto degli altri.
“All’alba ritroverò la strada e ritornerò in città, non appena questo dannato nubifragio smetterà!” si dice, sedendosi per terra, appoggiato alla parete umida della grotta.
La notte passa, ma il nubifragio no. Anzi, aumenta, e Zecca inizia a temere che tutta quella storia, forse, è davvero una punizione per la sua vita non proprio onesta… o per le imprecazioni… sì… probabilmente è una punizione per quelle.
Quando ormai non sa più nemmeno che ore sono, visto che il cielo resta sempre nero, lo stomaco gli ricorda che sono ormai tre giorni che lo lascia senza uno straccio di cibo. Zecca allora si affaccia dalla caverna ed esamina qualche cespuglio con delle bacche che crescono accanto all’entrata.
“Sembrano proprio succose” pensa. “Ma saranno velenose? Meglio non rischiare. La pioggia finirà prima o poi, no? E allora potrò alzare i tacchi e filarmela da questo buco. Anche perché non vorrei essere entrato nella tana di qualche bestia schifosa. Quanto alle bacche… è sempre meglio non mettersi in bocca robe che non sai cosa sono. Devo solo aspettare e avere pazienza. La pioggia starà per finire. Quanta maledetta acqua può contenere lo stramaledetto cielo?”
Tanta… può contenerne tanta, di acqua, il cielo… ma proprio tanta.
Passa un altro giorno e di smettere di piovere, a quanto pare, non se ne parla nemmeno. Ormai il terreno fuori è una palude e Zecca non ne può più. È riuscito ad accendere un fuocherello stitico, ma di certo non basta per asciugargli le ossa, che sente bagnate fin nel midollo. La tosse lo sconquassa e lo piega in due, per non parlare della fame, che comincia a fargli perdere la ragione.
“Se esco vivo da questa faccenda” dice a voce alta, “giuro che divento una persona perbene e mi trovo un lavoro onesto. Niente più imbrogli, niente più lavoretti, niente più rapine e niente più bordelli pieni di donnacce lascive. E se incontro il Capo, lo riempio di mazzate, quel bastardo!”
Prima di mettersi a dormire, Zecca si ripete di “non mangiare quelle dannate bacche… quelle grosse… grasse bacche succose. Di cosa sapranno? Chi se ne fotte. Non devo mangiarle!”
Un’ora dopo, Zecca mangia le bacche.
Ne strappa una manciata e senza starci troppo a pensare se le mette in bocca, pure con qualche foglia. Le mastica giusto il tempo per farne poltiglia e poterle mandar giù senza strozzarsi, dopodiché si sciacqua tutto con un po’ d’acqua piovana… che non smette ancora di scendere.
“Sarà mica una maledizione di qualche fattucchiera?” si chiede Zecca, staccandosi un pezzo di foglia incastratosi tra i molari.
Passa qualche… minuto? Ora? Giorno? Zecca non lo sa più. La fame diminuisce però… e pure il freddo… anzi… adesso ha un caldo porco.
Fuori è buio e forse piove ancora, ma dentro è cambiato qualcosa.
C’è una luce. Sì… una luce. Proviene dal fondo della caverna, così Zecca, incuriosito, la segue, svoltando dietro una parete umida e appiccicosa. Lì, sparsi sul terreno, ci sono i resti di un uomo in armatura. Una bella armatura, di quelle che si mettono i cavalieri, i cavalieri quelli importanti, mica quei quattro ubriaconi della guardia cittadina. Proprio una bella armatura, e ancor più bella è la spada che sta sotto quei miseri resti. Ed è proprio lei a far luce nel buio della caverna: un grosso spadone che Zecca a stento riesce a sollevare, figurarsi tirarlo in faccia ad un nemico, come quel cavaliere morto sicuramente aveva fatto centinaia di volte, in vita sua, sempre con grande valore e forza e coraggio.
“Chissà…” si domanda Zecca, e mentre, con grande sforzo, solleva la spada, che brilla come una lanterna, il caldo gli prende alla testa e lo fa barcollare. “Chissà come ci è finito qua, stecchito e ammuffito come l’ultima delle canaglie in fuga.”
La lama luccica, quasi gli ferisce gli occhi, ma, ad un certo punto, Zecca si rende conto che la spada non sa fare solo quello. Gli parla, anche. Sì… gli parla nel cervello e lo insulta con voce tonante: gli dà del gaglioffo, del manigoldo. Come osa una bestia men che bestia come lui a brandirla con siffatta impudenza? Zecca si scusa, fa per rimettere lo spadone là dove l’aveva preso, ma quello lo ferma e gli dice di no… che non osasse a buttarlo via, eh!
“Ma voi chi siete?” chiede Zecca, sempre più accaldato, la voce che riecheggia nel vuoto della caverna.
La spada risponde di essere Lucelama, veneratissima arma dell’invincibile e valoroso Cavalier Crociato Tormisda Griffo di Comneno, Duca di Monte Zamolo, Contestabile di Alazia e tutta un’altra serie di titoli e nomi di posti che Zecca dimentica nell’istante stesso in cui li sente. A quanto pareva, l’impareggiabile cavaliere, di ritorno da violentissima pugna, s’era accasciato, ferito a morte, in quella putrida grotta, e lì aveva restituito l’anima pura al Domineddio, che per primo gli aveva fornito quella spada dotata d’intelletto proprio per guidarlo nelle sue scelte e per renderlo invincibile contro i propri nemici. Ma ora, il prode e audace cavaliere era morto, e lei, Lucelama, era rimasta senza un padrone da render forte nella sua lotta per il Bene e la Giustezza.
“E adesso?” domanda ancora Zecca, strabuzzando gli occhi, e Lucelama, dopo un lungo attimo di silenzio, gli risponde seriosa, affermando d’aver compreso tutto: se il Domineddio ha fatto incrociare le loro strade, dice, ciò deve esser perché, dopo aver servito e rafforzato un cavaliere già di per sé votato al bene, adesso le tocca indirizzare sulla retta via un losco figuro, dedito ad ogni sorta di indegni affari, quale Zecca chiaramente è, vista la conformazione della sua mente.
“Ma cosa dovrei fare?” chiede per l’ennesima volta Zecca, e la risposta, questa volta, è un colpo di elsa sul naso, sferrato come se la spada potesse muovere da sola il pugno che la teneva.
Lucelama ordina al suo nuovo portatore di smettere di fare domande ed agire: visto che fuori è tornato il sereno, continua l’arma, adesso lui deve rientrare in città da uomo nuovo, rinato, finalmente lavatosi delle vecchie infamie e pronto ad incamminarsi sul luminoso sentiero dei Paladini del Domineddio. E non finisce qui: il primo passo lungo questa nuova strada, la sua prima prova per dimostrare e concretizzare la sua Luce Ritrovata, sarà quella di sterminare ciò che resta della teppaglia alla quale aveva, per troppo tempo, prestato i propri servigi, insozzandosi l’anima. Il primo colpo, nemmeno a dirlo, sarebbe stato per quel gaglioffo del Capo.
Zecca ha tante domande, e anche se non le fa ad alta voce, la spada gliele legge dentro e lo colpisce in faccia e in testa e nella pancia e sulle ginocchia, ancora e ancora, finché il poveraccio smette di farsele e semplicemente s’incammina nella giornata fredda ed umida, ma nuovamente limpida.
Lucelama non rifulge più, ma parla ancora, e già suggerisce a Zecca il piano per cogliere di sorpresa il Capo e ammazzarlo come il cane che è.
Anche se confuso e stordito e impaurito e accaldato, adesso Zecca ha uno scopo da compiere, che forse gli è stato davvero affidato come ultima possibilità di redenzione in risposta alla sua disperata preghiera.
“Anzi… sicuramente… sicuramente… non v’è ombra di dubbio. Adesso io sono un Paladino del Domineddio, Vincitore d’Orrori, Sterminatore di Briganti, Punitore d’Infami!”
Arrivato in vista della città, Zecca si sente assolutamente convinto della sua nuova missione, e ad essere perfettamente sinceri, non vede l’ora di infilare Lucelama nelle budella peccaminose del Capo.
Era da tempo che desiderava farlo, in effetti.