Bella Zazzera e i Tre Orsi
Inviato: sabato 18 aprile 2020, 17:26
Il capo dell’ormai dispersa Cricca della Viola borbottava ed imprecava senza sosta da un tempo incalcolabile. Lo chiamavano “Bella Zazzera” o “Zazzera”, per via dei folti boccoli color granturco, sempre puliti, sempre in ordine e sempre curati. Ora però, di quella bella zazzera non pareva esser rimasto che il ricordo, incrostata di fango ed alghe secche com’era, e forse anche di sterco a giudicare dall’odore. Ogni volta che un ciuffo lezzo sfuggiva da dietro l’orecchio per penzolargli sugli occhi cerulei, lo spadaccino imprecava, chiamando in causa santi e diavoli in egual misura.
Lo Zazzera, ovvero Brando Deglinnocenti, fiero fioraccino e promettente Canaglia, scalciò un sasso con la poca convinzione rimastagli. Le sue vesti, logore, infangate ed umide da far schifo, cominciavano ad infastidirlo a tal punto che fu lì lì per liberarsene. Tuttavia, l’idea di proseguire in mezzo a quella nebbiosa foresta nudo come un verme non gli garbava poi tanto. Alzò lo sguardo al cielo e sospirò con rassegnazione. Il sole stava inabissandosi dietro le folte chiome degli alberi bitorzoluti che infestavano le colline su cui arrancava da ore. Presto sarebbe stato buio. Buio pesto. Senza viveri ed equipaggiamento, e senza le minime conoscenze di sopravvivenza per cui si era sempre affidato ai compagni non avrebbe sinceramente saputo dire quanto sarebbe durato laggiù. Già cominciava a presagir la morte in ogni scricchiolìo e cinguettìo, in ogni goccia raccolta dal sottobosco, in ogni sinistro gracidìo in lontananza. Inciampò nell’ennesima buca e ruzzolò in terra malamente. Sfogò i peggio moccoli, mentre un terribile senso di impotenza, isteria ed inadeguatezza divampavano in lui. Come un campo arato di fresco, il terriccio che imbrattava il volto del giovane venne rigato dalle amare lacrime che i nervi avevan sospinto oltre il ciglio della rima dei suoi occhi arrossati. Nel rialzarsi, per poco non capicollò giù per un irto pendio nascosto dalla vegetazione. Lì, lo vide. Sotto di lui, un rustico edificio trasandato faceva capolino in una piccola radura. Dal camino, che a stento pareva reggere gli anni e le intemperie sulle proprie spalle di mattoni, usciva un sottile rivolo di fumo bianco. “Pe’ santi dì calendario! Che bucio!” esclamò Zazzera, cominciando svelto la calata per lo scosceso declivio.
Una volta di sotto, osservò meglio il rudere male in arnese. Dalle finestre mezze infrante della catapecchia fuoriusciva un buon aroma, “odore di zuppa.. funghi..” asserì lo spadaccino, avvicinandosi. Lo stomaco non brontolava, sbraitava proprio, e lo Zazzera - che sarebbe anche entrato di gran carriera per soddisfare il proprio lancinante appetito - dovette fare appello a tutta la propria forza di volontà per acquattarsi invece, ed aspettare di aver dato un’occhiata in giro. Affamato e stanco si, ma bischero no. La giornata già era andata oltremodo storta, stortissima. Di dritta c’era solo l’alabarda che lui e la sua Cricca s’eran presi in quel posto, in quella miserabile, iellata faccenda.
Non pareva esserci nessuno. Bussò alla porta. Nessuno rispose. Lento e silente estrasse le lame dal fodero, pugnale nella mancina, e stocco nella mano forte. Fece il suo cigolante ingresso nell’umida penombra dell’edificio. Entrò in una grande stanza spoglia. Una catasta di legna marcia giaceva rigonfia in un angolo. Cocci, rami, ossa d’animale e detriti di vario genere scricchiolavano sotto le suole vonce dei suoi stivali ad ogni passo. L’odore all’interno era pungente, selvatico, ed il profumo del cibo che ribolliva sommessamente sul piccolo fuocherello del camino non era sufficiente a coprirlo.
Scrutava l’ombra la Canaglia, le armi strette nei pugni fino a far impallidir le nocche. Rimase sulla difensiva per lunghi istanti, ma non giunse alcun agguato dall’ombra. In un balzo, Zazzera fu alla pentola. Con le mani rovistò il pavimento lì intorno. Tra la sporcizia, trovò un paio di scodelle sbeccate, ma erano ricoperte di muffa. Le lasciò cadere con disgusto e riprese a cercare, finchè non trovò una ciotola di legno più piccola e grossomodo pulita. La immerse nel calderone con foga. Si scottò, ma non gli importava. Soffiando sulla scodella ricolma, si guardò attorno cercando dove sedersi. Scorse un paio di sgabelli malconci. Una volta seduto cominciò a mangiare. Un mugolìo di approvazione accompagnò la sbobba lungo il gargarozzo. Non era esattamente gustosa, ma non era neanche da sgotto, e questo era già tanto. Funghi, patate, rape forse? Si, e sicuramente c’era anche della carne lì dentro, dal sapore si capiva. “Che bucio!” eslamò nuovamente il giovane, sentendosi riavere man mano che il calore del cibo gli ridestava le membra. Dopo pochi sorsi già stava rileccando il fondo della ciotola. Aveva ancora fame, parecchia. Sospirò con un cruccio serioso sul volto. Chiunque avesse messo su per cena - nonostante fosse particolarmente difficile per Zazzera pensare che qualcuno abitasse davvero in un letamaio simile - sarebbe probabilmente tornato di lì a poco. Pochissimo anzi, ormai era quasi buio, ed il pallore lugubre dell’imbrunire stava adagiandosi sulla radura. Si rialzò in fretta dallo sgabello, ma fu troppo impetuoso in quel gesto, e dopo un secco scricchiolio, la seduta cedette. Il duellante si ritrovò culo a terra, il coccige dolorante e un par di santi stretti tra i denti. Gattonò per rialzarsi e ponderò il da farsi. Pensò che avrebbe potuto ingollarsi al volo un altro poco di sbobba, prima di levar le tende. Tornò al calderone. Un lieve ticchettìo cominciò a picchiettare sul tetto, facendosi via via più intenso. “Pure la pioggia! Ti parea!” sbottò. L’occupante di quel troiaio ora sarebbe sicuramente rientrato di corsa. La mano destra si strinse sull’elsa - Non che Brando Deglinnocenti e’un sia’n grado di liberassi d’un eremita bifolco che dorme nì lercio! - pensò tra sè, con un’alzata di spalle. Fece per ingollar l’ultimo sorso di brodaglia, per poi uscire alla svelta. Nella scodella vide galleggiare qualcosa di strano e familiare al contempo. “Finarmente un po’ di ciccia?”. Che bucio, stava per dire, ma un improvviso orrore gli distorse il volto. La scodella cadde a terra con uno schiocco, e così anche il pollice stracotto, con tanto d’unghia, che per un secondo il Bella Zazzera aveva osservato speranzoso. Un conato precedette di poco il fiotto di vomito. In quel preciso istante, un lampo illuminò la radura e in controluce, sulla porta, comparirono due oscure figure, alte e massicce, e una terza più bassae minuta dietro di loro. Avevano braccia e gambe coperte di pelliccia e delle abominevoli quanto inconcepibili teste d’orso. A Zazzera venne un coccolone. Ancora in preda ai conati indietreggiò terrorizzato, mettendo mano all’armi. incespicò in una radice che con gli anni era riuscita a trovare un pertugio attraverso la pavimentazione imbarcata della stamberga. Il coccige, di nuovo. Ma il dolore non era nulla in confronto alla paura che provava. Durò tutto pochi istanti, i tre orsi gli si scagliarono addosso ringhiando e ruggendo, asce e mazze in pugno. Zazzera schivò un primo attacco furibondo rotolando verso destra, e deviò il secondo all’ultimo con un’abile colpo di stocco. Si rialzò con un guizzo, fendette l’aria con un colpo a vuoto mentre con una giravolta cercava di guadagnar terreno verso l’uscita. Disorientato, non riusciva a seguire i loro movimenti rapidi e confusi. Era spacciato. Gridò, sentendo un bruciore infernale alla coscia destra. Abbassò lo sguardo giusto in tempo per vedere il più piccolo dei tre che gli piantava un pugnale d’osso nella gamba. Lo sentì ridere. Un brivido percorse la schiena del duellante - ma icchè vu siete? - pensò in preda allo sgomento. Sarebbe probabilmente morto di lì a poco se la sua memoria muscolare non avesse agito per lui. Con un arco stretto, l’elsa dello stocco impattò sul capo della belva, mentre il busto si torceva verso destra per trafiggerle il collo col pugnale. L’impatto della lama non fu assolutamente come si sarebbe aspettato, così come non lo fu l’urlo di dolore che seguì. L’urlo di un ragazzino. Ritraendo il pugnale notò, infilzato al centro della lama come uno spiedo, un bulbo oculare che riluceva viscido al bagliore del camino. Si abbassò svelto, evitando per un soffio l’ascia che gli avrebbe altrimenti mozzato la testa di netto. Il piccoletto era crollato a terra, ma gli altri gli erano addosso. Era spacciato. Un colpo di mazza alla bocca dello stomaco gli spezzò il fiato. Sventolò un dritto ed un rovescio di stocco mentre cercava con poco successo di rimaner saldo sulle gambe. Colpì qualcosa, ma non capì cosa. Sentì dei gorgoglii orrbili e vide l’orso con l’ascia avvicinarsi di nuovo a sinistra, con la mano allungata a tentare di afferrarlo. Il pugnale scattò. Elsa, bulbo, palmo di mano. Lo spiedino di sangue prendeva forma. Con una testata l’energumeno gli fracassò il naso. Sentì le ossa frantumarsi, i sensi abbandonarlo. Prima di soccombere però.. un ultimo colpo. Lo stocco saettò verso il busto della bestia. Lo sentì penetrare carne e scheggiare ossa mentre quello gli crollava addosso. Sentì la lama spezzarsi. Sentì calare il sipario.
Aprì gli occhi gonfi alla luce pallida del tardo mattino. Si accorse di respirare a fatica sotto il corpo pesantissimo che lo sovrastava. Faticò parecchio, ma strisciò fuori. Sputò sangue. Sembrò rendersi conto di dove fosse solo qualche attimo più tardi. balzò in piedi barcollando. Ai suoi piedi, tre corpi, ma non di belve. Una donna giaceva stesa sulla schiena, le mani strette attorno al collo squarciato, rosso di sangue rappreso. Sul capo una pelliccia d’orso. Anche l’energumeno aveva una pelliccia simile, e così il ragazzino che giaceva esanime, faccia a terra, in una pozza nerastra. Selvatici. Pagani. Cannibali.
Il Bella Zazzera uscì dalla catapecchia. Con il chiarore del mattino vide un piccolo villaggio sulle rive di un fiume a valle.
Si mise in marcia, con un sorriso tirato in volto. “Dopotutto, che altro potrebbe mai anda’ storto?”
Lo Zazzera, ovvero Brando Deglinnocenti, fiero fioraccino e promettente Canaglia, scalciò un sasso con la poca convinzione rimastagli. Le sue vesti, logore, infangate ed umide da far schifo, cominciavano ad infastidirlo a tal punto che fu lì lì per liberarsene. Tuttavia, l’idea di proseguire in mezzo a quella nebbiosa foresta nudo come un verme non gli garbava poi tanto. Alzò lo sguardo al cielo e sospirò con rassegnazione. Il sole stava inabissandosi dietro le folte chiome degli alberi bitorzoluti che infestavano le colline su cui arrancava da ore. Presto sarebbe stato buio. Buio pesto. Senza viveri ed equipaggiamento, e senza le minime conoscenze di sopravvivenza per cui si era sempre affidato ai compagni non avrebbe sinceramente saputo dire quanto sarebbe durato laggiù. Già cominciava a presagir la morte in ogni scricchiolìo e cinguettìo, in ogni goccia raccolta dal sottobosco, in ogni sinistro gracidìo in lontananza. Inciampò nell’ennesima buca e ruzzolò in terra malamente. Sfogò i peggio moccoli, mentre un terribile senso di impotenza, isteria ed inadeguatezza divampavano in lui. Come un campo arato di fresco, il terriccio che imbrattava il volto del giovane venne rigato dalle amare lacrime che i nervi avevan sospinto oltre il ciglio della rima dei suoi occhi arrossati. Nel rialzarsi, per poco non capicollò giù per un irto pendio nascosto dalla vegetazione. Lì, lo vide. Sotto di lui, un rustico edificio trasandato faceva capolino in una piccola radura. Dal camino, che a stento pareva reggere gli anni e le intemperie sulle proprie spalle di mattoni, usciva un sottile rivolo di fumo bianco. “Pe’ santi dì calendario! Che bucio!” esclamò Zazzera, cominciando svelto la calata per lo scosceso declivio.
Una volta di sotto, osservò meglio il rudere male in arnese. Dalle finestre mezze infrante della catapecchia fuoriusciva un buon aroma, “odore di zuppa.. funghi..” asserì lo spadaccino, avvicinandosi. Lo stomaco non brontolava, sbraitava proprio, e lo Zazzera - che sarebbe anche entrato di gran carriera per soddisfare il proprio lancinante appetito - dovette fare appello a tutta la propria forza di volontà per acquattarsi invece, ed aspettare di aver dato un’occhiata in giro. Affamato e stanco si, ma bischero no. La giornata già era andata oltremodo storta, stortissima. Di dritta c’era solo l’alabarda che lui e la sua Cricca s’eran presi in quel posto, in quella miserabile, iellata faccenda.
Non pareva esserci nessuno. Bussò alla porta. Nessuno rispose. Lento e silente estrasse le lame dal fodero, pugnale nella mancina, e stocco nella mano forte. Fece il suo cigolante ingresso nell’umida penombra dell’edificio. Entrò in una grande stanza spoglia. Una catasta di legna marcia giaceva rigonfia in un angolo. Cocci, rami, ossa d’animale e detriti di vario genere scricchiolavano sotto le suole vonce dei suoi stivali ad ogni passo. L’odore all’interno era pungente, selvatico, ed il profumo del cibo che ribolliva sommessamente sul piccolo fuocherello del camino non era sufficiente a coprirlo.
Scrutava l’ombra la Canaglia, le armi strette nei pugni fino a far impallidir le nocche. Rimase sulla difensiva per lunghi istanti, ma non giunse alcun agguato dall’ombra. In un balzo, Zazzera fu alla pentola. Con le mani rovistò il pavimento lì intorno. Tra la sporcizia, trovò un paio di scodelle sbeccate, ma erano ricoperte di muffa. Le lasciò cadere con disgusto e riprese a cercare, finchè non trovò una ciotola di legno più piccola e grossomodo pulita. La immerse nel calderone con foga. Si scottò, ma non gli importava. Soffiando sulla scodella ricolma, si guardò attorno cercando dove sedersi. Scorse un paio di sgabelli malconci. Una volta seduto cominciò a mangiare. Un mugolìo di approvazione accompagnò la sbobba lungo il gargarozzo. Non era esattamente gustosa, ma non era neanche da sgotto, e questo era già tanto. Funghi, patate, rape forse? Si, e sicuramente c’era anche della carne lì dentro, dal sapore si capiva. “Che bucio!” eslamò nuovamente il giovane, sentendosi riavere man mano che il calore del cibo gli ridestava le membra. Dopo pochi sorsi già stava rileccando il fondo della ciotola. Aveva ancora fame, parecchia. Sospirò con un cruccio serioso sul volto. Chiunque avesse messo su per cena - nonostante fosse particolarmente difficile per Zazzera pensare che qualcuno abitasse davvero in un letamaio simile - sarebbe probabilmente tornato di lì a poco. Pochissimo anzi, ormai era quasi buio, ed il pallore lugubre dell’imbrunire stava adagiandosi sulla radura. Si rialzò in fretta dallo sgabello, ma fu troppo impetuoso in quel gesto, e dopo un secco scricchiolio, la seduta cedette. Il duellante si ritrovò culo a terra, il coccige dolorante e un par di santi stretti tra i denti. Gattonò per rialzarsi e ponderò il da farsi. Pensò che avrebbe potuto ingollarsi al volo un altro poco di sbobba, prima di levar le tende. Tornò al calderone. Un lieve ticchettìo cominciò a picchiettare sul tetto, facendosi via via più intenso. “Pure la pioggia! Ti parea!” sbottò. L’occupante di quel troiaio ora sarebbe sicuramente rientrato di corsa. La mano destra si strinse sull’elsa - Non che Brando Deglinnocenti e’un sia’n grado di liberassi d’un eremita bifolco che dorme nì lercio! - pensò tra sè, con un’alzata di spalle. Fece per ingollar l’ultimo sorso di brodaglia, per poi uscire alla svelta. Nella scodella vide galleggiare qualcosa di strano e familiare al contempo. “Finarmente un po’ di ciccia?”. Che bucio, stava per dire, ma un improvviso orrore gli distorse il volto. La scodella cadde a terra con uno schiocco, e così anche il pollice stracotto, con tanto d’unghia, che per un secondo il Bella Zazzera aveva osservato speranzoso. Un conato precedette di poco il fiotto di vomito. In quel preciso istante, un lampo illuminò la radura e in controluce, sulla porta, comparirono due oscure figure, alte e massicce, e una terza più bassae minuta dietro di loro. Avevano braccia e gambe coperte di pelliccia e delle abominevoli quanto inconcepibili teste d’orso. A Zazzera venne un coccolone. Ancora in preda ai conati indietreggiò terrorizzato, mettendo mano all’armi. incespicò in una radice che con gli anni era riuscita a trovare un pertugio attraverso la pavimentazione imbarcata della stamberga. Il coccige, di nuovo. Ma il dolore non era nulla in confronto alla paura che provava. Durò tutto pochi istanti, i tre orsi gli si scagliarono addosso ringhiando e ruggendo, asce e mazze in pugno. Zazzera schivò un primo attacco furibondo rotolando verso destra, e deviò il secondo all’ultimo con un’abile colpo di stocco. Si rialzò con un guizzo, fendette l’aria con un colpo a vuoto mentre con una giravolta cercava di guadagnar terreno verso l’uscita. Disorientato, non riusciva a seguire i loro movimenti rapidi e confusi. Era spacciato. Gridò, sentendo un bruciore infernale alla coscia destra. Abbassò lo sguardo giusto in tempo per vedere il più piccolo dei tre che gli piantava un pugnale d’osso nella gamba. Lo sentì ridere. Un brivido percorse la schiena del duellante - ma icchè vu siete? - pensò in preda allo sgomento. Sarebbe probabilmente morto di lì a poco se la sua memoria muscolare non avesse agito per lui. Con un arco stretto, l’elsa dello stocco impattò sul capo della belva, mentre il busto si torceva verso destra per trafiggerle il collo col pugnale. L’impatto della lama non fu assolutamente come si sarebbe aspettato, così come non lo fu l’urlo di dolore che seguì. L’urlo di un ragazzino. Ritraendo il pugnale notò, infilzato al centro della lama come uno spiedo, un bulbo oculare che riluceva viscido al bagliore del camino. Si abbassò svelto, evitando per un soffio l’ascia che gli avrebbe altrimenti mozzato la testa di netto. Il piccoletto era crollato a terra, ma gli altri gli erano addosso. Era spacciato. Un colpo di mazza alla bocca dello stomaco gli spezzò il fiato. Sventolò un dritto ed un rovescio di stocco mentre cercava con poco successo di rimaner saldo sulle gambe. Colpì qualcosa, ma non capì cosa. Sentì dei gorgoglii orrbili e vide l’orso con l’ascia avvicinarsi di nuovo a sinistra, con la mano allungata a tentare di afferrarlo. Il pugnale scattò. Elsa, bulbo, palmo di mano. Lo spiedino di sangue prendeva forma. Con una testata l’energumeno gli fracassò il naso. Sentì le ossa frantumarsi, i sensi abbandonarlo. Prima di soccombere però.. un ultimo colpo. Lo stocco saettò verso il busto della bestia. Lo sentì penetrare carne e scheggiare ossa mentre quello gli crollava addosso. Sentì la lama spezzarsi. Sentì calare il sipario.
Aprì gli occhi gonfi alla luce pallida del tardo mattino. Si accorse di respirare a fatica sotto il corpo pesantissimo che lo sovrastava. Faticò parecchio, ma strisciò fuori. Sputò sangue. Sembrò rendersi conto di dove fosse solo qualche attimo più tardi. balzò in piedi barcollando. Ai suoi piedi, tre corpi, ma non di belve. Una donna giaceva stesa sulla schiena, le mani strette attorno al collo squarciato, rosso di sangue rappreso. Sul capo una pelliccia d’orso. Anche l’energumeno aveva una pelliccia simile, e così il ragazzino che giaceva esanime, faccia a terra, in una pozza nerastra. Selvatici. Pagani. Cannibali.
Il Bella Zazzera uscì dalla catapecchia. Con il chiarore del mattino vide un piccolo villaggio sulle rive di un fiume a valle.
Si mise in marcia, con un sorriso tirato in volto. “Dopotutto, che altro potrebbe mai anda’ storto?”