Gastone e Fortunella
Inviato: domenica 19 aprile 2020, 23:41
Gastone e Fortunella
Gastone roteò il braccio destro per scioglierne l’articolazione indolenzita. Non aveva niente di rotto, il che era positivo.
Sì, la missione non era andata a buon fine - l’eufemismo del secolo! - e sì, la banda era stata dispersa ai quattro venti da quel ramarro col gigantismo. Se aveva imparato una cosa dai suoi viaggi, però, al chiudersi di una porta corrispondeva lo spalancarsi di un portone.
Di solito.
Diede qualche colpetto alle sue vesti per spolverarle alla meglio e si abbassò per non sbattere contro le fronde di un grande pioppo viola. Nella sua stessa situazione un altro si sarebbe fatto prendere dal panico, vagabondando per la campagna.
Era proprio una buona cosa che quella risma tendesse a non vivere a lungo.
«Oh, andiamo!» esordì, dando un colpetto al pomello della sua spada. Aver perso la borsa da viaggio era grave, ma aveva ancora con sé Fortunella e tanto bastava. «Non mi sono perso. So esattamente dove sono.»
All’aperto, tanto per cominciare. In campagna.
Certo, campagna era un termine un po’ vago. Aveva quel piccolo, anzi minuscolo difetto di dire sia tutto che niente. E che il luogo rappresentato avesse il simpatico difetto d’essere più spazioso del necessario, oh beh… quella era una sgradita gabella.
Non era insormontabile, però. Invece di procedere a spron battuto per la prima stradicciola senza né capo né coda – ma poi chi le costruiva, quelle? -, Gastone aveva preso ad inerpicarsi un passo alla volta per il fianco di un colle. Dopotutto, dall’alto si aveva una visuale migliore.
Si lasciò il pioppo alle spalle, continuando a roteare il braccio indolenzito. Il nulla filosofico si stendeva a macchia dai piedi del rilievo. Ondulava, assecondando il terreno e le sue basse gobbe coperte di prato e qualche pianta selvatica.
«E allora? Che dicevo?» esclamò, piantandosi un pugno sul fianco. Sventolo l’altra mano con noncuranza, quasi a voler disdegnare quel vasto niente d’utile, fresco e piegato dal vento, steso davanti ai suoi occhi. «Lo vedi che avevo ragione?»
«Non xè mia vero» borbottò la voce nella spada. «Ti sì più perso d’un cencio nei panni, credimi.»
«Questo lo dici tu.»
«E, bon. Mi g’ho sempre ragione, toso.»
Alle volte, una spada magica parlante non era la migliore e più fiduciosa delle compagnie. Una che poi aveva l’accento di Veziane, ecco… quella richiedeva anche un notevole sforzo di traduzione.
«E allora che dovrei fare, sapientona? Sentiamo.»
Il pomello lampeggiò verdognolo. «Ma ‘sa casso ti chiedi a me che sono una spada? Vai tra quegli alberi, cosa vuto che ti dica?»
«Ah! Al solito!» borbottò Gastone, avviandosi a scendere la china, incontro ad un filare d’alberi che si allungava al fianco d’un ramo secondario della stradicciola sterrata. Se non altro, aveva avuto modo di accorgersi che fino a quel momento era andato nella direzione sbagliata. «Certo che per essere una spada magica, sei abbastanza inutile.»
«Alora!» sbottò la lama. «Mi intanto non sono una spada magica ma una spada incantata. Ghè ‘na solida differensa, toso. Secondo, te fai quel che te digo mì. Vai verso quegli alberi.»
Provare non gli avrebbe fatto alcun male. Continuò a scendere, scalpicciando in mezzo all’erba alta. Calciò un ciottolo lontano da sé, spedendolo ad arco oltre gli steli più alti. Un sonoro lamento, molto vicino all’oscena profanità, salì incontro al cielo imbrunito.
Oh, e adesso cosa?
Con un rivolo di sangue che gli scorreva lungo la fronte, e massaggiandosi la testa tra una bestemmia e l’altra, un religioso uscì dall’erba. Nella cintura della tonaca aveva uno strale di pergamena, tutto bello riavvolto e protetto. Solo la testa del rotolo spuntava, sporgendosi da una bisaccia scura.
«State bene?» gli chiese Gastone, ricomponendosi e gonfiando il petto.
Il religioso, forse un frate di Domineddio o qualsiasi altra simile scemenza, gli rispose scagliandogli un’occhiata rovente. «Ma sei un ribaldo, tu! Un furfante, un mascalzone, un senzadddio, un cretino, un bravo, un…» Lanciò un’occhiata alla stradina e s’irrigidì.
C’erano cinque figure, tra gli alberi. Erano degli armati con calzoni e giustacuore a fasce colorate alternate, rosse e gialle e verdi. Tutti quanti avevano lunghi spadoni in spalla, stocchi e pistole ai fianchi. Uno aveva anche un archibugio.
«Volevo dire, un bravo figliolo!» esordì il frate, ora paternale e benevolo. Scalpicciò per nascondersi dietro al pioppo, accucciandosi al riparo delle sue fronde più spesse. «Un bravo, bravissimo ragazzo pio e capace con una spada. Ve’, non faresti mai del male ad una veste di Santa Madre Chiesa, vero?»
Dipende. «Certo!»
«E la difenderesti, se necessario?»
In cambio di quanti soldi? «Potrei farlo.»
«Oh, un cavaliere! Distrai quei briganti e ti sarò debitore. Uccidili tutti, se puoi! Ma solo se devi! Sappi che il Signore riconoscerà i suoi!»
Dopo aver occhieggiato il religioso, Gastone mosse qualche passo incontro ai cinque fini gentiluomini che stavano risalendo la china. Il più alto di loro, un bravo messere con il naso schiacciato da una rissa di troppo, venne avanti e lo salutò con un vago cenno della mano. «Direi buona sera», borbottò con l’accento d’uno straniero, «ma se lo è dipende. Amico, hai mica visto un frate?»
Gli altri quattro armigeri fiancheggiarono il loro capo. Sì, nessuno di loro era del posto. Le loro armi, però, erano di buona fattura. Inoltre, erano tutte sporche di sangue. Mercenari. Bravi, a giudicare dal cappello con lo sbuffo.
Come diceva quel detto? Dove ci sono i bravi, ci sono i… «Uno di quelli con la tonaca marrone castagna?»
Il capitano degli sgherri annuì. «Sì. Il nostro capitano ci ha ordinato di trovarlo. Il frate ha un debito nei suoi confronti.»
Uno dei suoi quattro compagni sputò per terra. «Un grosso debito! Ah, nei confronti di un tale gentiluomo, poi!»
Diamine, non riesco a ricordarmi come finiva il detto. Combatterli all’arma bianca non era una buona idea. «Se l’ho visto, eh? Allora, mi pare di no…»
«Ti si un mona!» esclamò la spada, facendo brillare il pomello. Zittendola con una pacca sull’elsa, Gastone fischiettò.
«No, perché… ebbene…»
«Ebbene?!» sbuffò il capitano. «Se mi stai nascondendo qualcosa, amico, ti farò vomitare l’intestino. Ma se sai qualcosa e mi sei d’aiuto…»
Ah, ecco! Soldi! Gastone scattò dietro l’albero, scavalcando le loro urla di fermarsi e afferrando il frate per la collottola. Ignorando le sue proteste e i suoi innumerevoli insulti, lo incoraggiò con la punta di Fortunella a seguirlo davanti ai cinque mercenari. «Perché l’ho già catturato io, amici!»
«Ecco, finalmente te ghè avuto una buona idea, toso!»
Il capitano rise. «Oh, questo toglie un problema. Se ce lo consegni, ora, dirò al gransignore che sei stato utile. Magari si ricorda di te.»
«Ma suvvia, amici!» commentò Gastone, stringendo la collottola del religioso. «Vi ho reso facile la vita e volete lasciarmi a mani vuote? Accompagnatemi dal vostro gransignore, così il merito sarà di tutti.»
Incrociate le braccia contro il giustacuore, il capitano scosse la testa. «Sentì, lo so che stai cercando di fregarmi. Ci vuoi guadagnare qualcosa e sai che ti dico? Va bene. Vieni con noi.»
«Dopo di voi, elegantissimi messeri!» Sempre stringendo Fortunella, Gastone tallonò la discesa dei suoi cinque, improvvisati nuovi amici. «A proposito, ho una domanda.»
«Vuoi sapere cosa doveva al gransignore?» domandò lo sputatore.
«Ah, sì! Anche quello, ma prima… state reclutando?»
«Se stiamo reclutando?» borbottò il più basso dei cinque, grattandosi la corta barbetta bionda che gli cresceva lungo il mento. «Certo che sì, ma da queste parti c’è poca gente.»
«Allora potremmo essere amici per molto tempo. Quindi, cosa doveva questa palla di lardo al gransignore?»
«La ricetta della birra del suo monastero.»
Considerando com’era cominciata la giornata, non era la cosa più strana che avesse sentito. «Un uomo che nasconde come si fa la birra a qualcuno è degno solo delle fiamme dell’inferno!»
«Sai, hai detto una cosa giusta» gli replicò il capitano, lanciandogli un’occhiata divertita. «Potresti davvero diventare uno dei nostri…»
Gastone roteò il braccio destro per scioglierne l’articolazione indolenzita. Non aveva niente di rotto, il che era positivo.
Sì, la missione non era andata a buon fine - l’eufemismo del secolo! - e sì, la banda era stata dispersa ai quattro venti da quel ramarro col gigantismo. Se aveva imparato una cosa dai suoi viaggi, però, al chiudersi di una porta corrispondeva lo spalancarsi di un portone.
Di solito.
Diede qualche colpetto alle sue vesti per spolverarle alla meglio e si abbassò per non sbattere contro le fronde di un grande pioppo viola. Nella sua stessa situazione un altro si sarebbe fatto prendere dal panico, vagabondando per la campagna.
Era proprio una buona cosa che quella risma tendesse a non vivere a lungo.
«Oh, andiamo!» esordì, dando un colpetto al pomello della sua spada. Aver perso la borsa da viaggio era grave, ma aveva ancora con sé Fortunella e tanto bastava. «Non mi sono perso. So esattamente dove sono.»
All’aperto, tanto per cominciare. In campagna.
Certo, campagna era un termine un po’ vago. Aveva quel piccolo, anzi minuscolo difetto di dire sia tutto che niente. E che il luogo rappresentato avesse il simpatico difetto d’essere più spazioso del necessario, oh beh… quella era una sgradita gabella.
Non era insormontabile, però. Invece di procedere a spron battuto per la prima stradicciola senza né capo né coda – ma poi chi le costruiva, quelle? -, Gastone aveva preso ad inerpicarsi un passo alla volta per il fianco di un colle. Dopotutto, dall’alto si aveva una visuale migliore.
Si lasciò il pioppo alle spalle, continuando a roteare il braccio indolenzito. Il nulla filosofico si stendeva a macchia dai piedi del rilievo. Ondulava, assecondando il terreno e le sue basse gobbe coperte di prato e qualche pianta selvatica.
«E allora? Che dicevo?» esclamò, piantandosi un pugno sul fianco. Sventolo l’altra mano con noncuranza, quasi a voler disdegnare quel vasto niente d’utile, fresco e piegato dal vento, steso davanti ai suoi occhi. «Lo vedi che avevo ragione?»
«Non xè mia vero» borbottò la voce nella spada. «Ti sì più perso d’un cencio nei panni, credimi.»
«Questo lo dici tu.»
«E, bon. Mi g’ho sempre ragione, toso.»
Alle volte, una spada magica parlante non era la migliore e più fiduciosa delle compagnie. Una che poi aveva l’accento di Veziane, ecco… quella richiedeva anche un notevole sforzo di traduzione.
«E allora che dovrei fare, sapientona? Sentiamo.»
Il pomello lampeggiò verdognolo. «Ma ‘sa casso ti chiedi a me che sono una spada? Vai tra quegli alberi, cosa vuto che ti dica?»
«Ah! Al solito!» borbottò Gastone, avviandosi a scendere la china, incontro ad un filare d’alberi che si allungava al fianco d’un ramo secondario della stradicciola sterrata. Se non altro, aveva avuto modo di accorgersi che fino a quel momento era andato nella direzione sbagliata. «Certo che per essere una spada magica, sei abbastanza inutile.»
«Alora!» sbottò la lama. «Mi intanto non sono una spada magica ma una spada incantata. Ghè ‘na solida differensa, toso. Secondo, te fai quel che te digo mì. Vai verso quegli alberi.»
Provare non gli avrebbe fatto alcun male. Continuò a scendere, scalpicciando in mezzo all’erba alta. Calciò un ciottolo lontano da sé, spedendolo ad arco oltre gli steli più alti. Un sonoro lamento, molto vicino all’oscena profanità, salì incontro al cielo imbrunito.
Oh, e adesso cosa?
Con un rivolo di sangue che gli scorreva lungo la fronte, e massaggiandosi la testa tra una bestemmia e l’altra, un religioso uscì dall’erba. Nella cintura della tonaca aveva uno strale di pergamena, tutto bello riavvolto e protetto. Solo la testa del rotolo spuntava, sporgendosi da una bisaccia scura.
«State bene?» gli chiese Gastone, ricomponendosi e gonfiando il petto.
Il religioso, forse un frate di Domineddio o qualsiasi altra simile scemenza, gli rispose scagliandogli un’occhiata rovente. «Ma sei un ribaldo, tu! Un furfante, un mascalzone, un senzadddio, un cretino, un bravo, un…» Lanciò un’occhiata alla stradina e s’irrigidì.
C’erano cinque figure, tra gli alberi. Erano degli armati con calzoni e giustacuore a fasce colorate alternate, rosse e gialle e verdi. Tutti quanti avevano lunghi spadoni in spalla, stocchi e pistole ai fianchi. Uno aveva anche un archibugio.
«Volevo dire, un bravo figliolo!» esordì il frate, ora paternale e benevolo. Scalpicciò per nascondersi dietro al pioppo, accucciandosi al riparo delle sue fronde più spesse. «Un bravo, bravissimo ragazzo pio e capace con una spada. Ve’, non faresti mai del male ad una veste di Santa Madre Chiesa, vero?»
Dipende. «Certo!»
«E la difenderesti, se necessario?»
In cambio di quanti soldi? «Potrei farlo.»
«Oh, un cavaliere! Distrai quei briganti e ti sarò debitore. Uccidili tutti, se puoi! Ma solo se devi! Sappi che il Signore riconoscerà i suoi!»
Dopo aver occhieggiato il religioso, Gastone mosse qualche passo incontro ai cinque fini gentiluomini che stavano risalendo la china. Il più alto di loro, un bravo messere con il naso schiacciato da una rissa di troppo, venne avanti e lo salutò con un vago cenno della mano. «Direi buona sera», borbottò con l’accento d’uno straniero, «ma se lo è dipende. Amico, hai mica visto un frate?»
Gli altri quattro armigeri fiancheggiarono il loro capo. Sì, nessuno di loro era del posto. Le loro armi, però, erano di buona fattura. Inoltre, erano tutte sporche di sangue. Mercenari. Bravi, a giudicare dal cappello con lo sbuffo.
Come diceva quel detto? Dove ci sono i bravi, ci sono i… «Uno di quelli con la tonaca marrone castagna?»
Il capitano degli sgherri annuì. «Sì. Il nostro capitano ci ha ordinato di trovarlo. Il frate ha un debito nei suoi confronti.»
Uno dei suoi quattro compagni sputò per terra. «Un grosso debito! Ah, nei confronti di un tale gentiluomo, poi!»
Diamine, non riesco a ricordarmi come finiva il detto. Combatterli all’arma bianca non era una buona idea. «Se l’ho visto, eh? Allora, mi pare di no…»
«Ti si un mona!» esclamò la spada, facendo brillare il pomello. Zittendola con una pacca sull’elsa, Gastone fischiettò.
«No, perché… ebbene…»
«Ebbene?!» sbuffò il capitano. «Se mi stai nascondendo qualcosa, amico, ti farò vomitare l’intestino. Ma se sai qualcosa e mi sei d’aiuto…»
Ah, ecco! Soldi! Gastone scattò dietro l’albero, scavalcando le loro urla di fermarsi e afferrando il frate per la collottola. Ignorando le sue proteste e i suoi innumerevoli insulti, lo incoraggiò con la punta di Fortunella a seguirlo davanti ai cinque mercenari. «Perché l’ho già catturato io, amici!»
«Ecco, finalmente te ghè avuto una buona idea, toso!»
Il capitano rise. «Oh, questo toglie un problema. Se ce lo consegni, ora, dirò al gransignore che sei stato utile. Magari si ricorda di te.»
«Ma suvvia, amici!» commentò Gastone, stringendo la collottola del religioso. «Vi ho reso facile la vita e volete lasciarmi a mani vuote? Accompagnatemi dal vostro gransignore, così il merito sarà di tutti.»
Incrociate le braccia contro il giustacuore, il capitano scosse la testa. «Sentì, lo so che stai cercando di fregarmi. Ci vuoi guadagnare qualcosa e sai che ti dico? Va bene. Vieni con noi.»
«Dopo di voi, elegantissimi messeri!» Sempre stringendo Fortunella, Gastone tallonò la discesa dei suoi cinque, improvvisati nuovi amici. «A proposito, ho una domanda.»
«Vuoi sapere cosa doveva al gransignore?» domandò lo sputatore.
«Ah, sì! Anche quello, ma prima… state reclutando?»
«Se stiamo reclutando?» borbottò il più basso dei cinque, grattandosi la corta barbetta bionda che gli cresceva lungo il mento. «Certo che sì, ma da queste parti c’è poca gente.»
«Allora potremmo essere amici per molto tempo. Quindi, cosa doveva questa palla di lardo al gransignore?»
«La ricetta della birra del suo monastero.»
Considerando com’era cominciata la giornata, non era la cosa più strana che avesse sentito. «Un uomo che nasconde come si fa la birra a qualcuno è degno solo delle fiamme dell’inferno!»
«Sai, hai detto una cosa giusta» gli replicò il capitano, lanciandogli un’occhiata divertita. «Potresti davvero diventare uno dei nostri…»