L'ultima sigaretta
Inviato: sabato 20 giugno 2020, 15:25
«Vuoi?» mi chiede porgendomi i rimasugli di una sigaretta, poco più che un mozzicone.
Scuoto la testa. Franco sa che non fumo, ma ogni volta che dobbiamo prepararci per uscire me lo chiede.
Un rituale da condannati a morte, penso. L’ultimo desiderio prima di quello che ci aspetta fuori.
Mi dà una mano con la tuta e io faccio lo stesso, mentre aspira i rimasugli di tabacco come un tossico prima di gettare il filtro consumato.
«Questa volta magari trovi qualche pacchetto» gli dico, ma non riesco a essere convincente. Lui fa spallucce.
La tuta mi fa sudare. Non mi ci abituerò mai a questa armatura. Preferivo le mascherine, ma non bastano più. Pensavo che il virus fosse la cosa peggiore che potesse capitarci, poi sono arrivate le piogge. Dei monsoni che sono durati per mesi e mesi, torrenziali e devastanti, che ci hanno di nuovo costretto a rimanere chiusi in casa. E quando finalmente hanno smesso, è cominciata la piaga dei funghi. Dalla sera alla mattina una micosi planetaria.
All’inizio sembrava fossero solo più abbondanti, ci dicevamo che dopo le esondazioni era normale. Però continuavano ad aumentare, fino a che la situazione è diventata insostenibile. Usavamo il fuoco, ma non facevano che ritornare, più resistenti, sempre più grandi.
Hanno invaso le strade, ce li trovavamo perfino in casa: abbiamo dovuto abbandonare intere aree della città. Sono scoppiate crisi ovunque, governi sono caduti e la gente ha iniziato a impazzire, a diventare sempre più violenta, provata dalle piaghe che ci hanno colpito l’una dopo l’altra.
Alcune persone hanno preferito farla finita, entrare in una di quelle sette che promettevano salvezza e regalavano un suicidio di massa con l’iscrizione. Altri si sono riuniti in bande con l’intento di provare finalmente l’ebrezza del braccio più violento del caos, nutrendosi di saccheggi e devastazione.
Vi lascio immaginare cosa ho fatto io.
Mi sono sempre considerato un moderato, voglio precisarlo, comunque.
Il vero panico però è scoppiato quando i funghi più vecchi hanno rilasciato le loro spore. Nuvole di particelle microscopiche, si sono depositate ovunque, un tappeto innaturale di polvere arancione, impalpabile. Abbiamo visto quel pulviscolo attaccarsi alle persone, attecchire come su un suolo fertile e trasformarle ancora vive in un’incubatrice per dare nuova vita a quell’infestazione. Ci siamo nascosti, barricati sottoterra ed è a quel punto che le tute sono diventato un bene prezioso. Magari un giorno vi dirò come io e Franco ci siamo procurato le nostre. Una storia divertente, da un certo punto di vista.
«Andiamo a prendere i funghi per il risotto!» esclama Franco e ridacchia. Ogni volta quella battuta idiota. Ogni volta ride. Sbuffo e il vetro del casco si appanna. Dannate tute.
Montiamo in macchina e iniziamo la nostra caccia. Trovare risorse è sempre più difficile e ogni volta che usciamo dobbiamo spingerci più lontano.
L’auto è appesantita da lamiere e rostri. Abbiamo dovuto blindarla, proteggere i vetri. Siamo rimasti in pochi, ma gli assalti sono più frequenti di quanto si possa credere. Cerchiamo di rubarci le cose tra gruppi, fa parte del gioco. Alle volte capita anche che qualcuno dei “fungati”, come abbiamo deciso di chiamarli, ci assalga quando facciamo troppo rumore. Non so se siano ancora in grado di capire qualcosa della loro vecchia vita, forse sono solo folli di dolore.
Solitamente alleviamo le loro sofferenze. Basta un colpo e vanno in frantumi, si sfaldano come una crisalide. È sorprendente come riescano a muoversi in quelle condizioni. Marionette senza fili, quasi come se fosse una vera invasione zombi.
L’auto solleva volute di polvere mentre affrontiamo i viali deserti della città. Quello schifo si infila nelle feritoie della lamiera davanti al parabrezza, tanto che guidiamo quasi alla cieca. Ogni tanto Franco spruzza acqua per lavare via quello strato spesso, ma quella roba si mischia con il liquido e diventa un blocco che mi toccherà pulire quando ci fermeremo. Continuo a spiegarglielo, ma gli piace così: lo fa sentire utile, dice.
Controllo che le bocchette dell’aria condizionata siano sigillate. La prudenza non è mai troppa anche se siamo bardati e protetti.
Gigantesche corone gettano la loro ombra sulle strade, mentre facciamo lo slalom tra alberi fungini. Scogliere spugnose e frastagliate, colori giallastri e malsani che hanno preso il dominio del mondo.
Il giro è lungo, pesante, e per la prima volta per recuperare del cibo dobbiamo spingerci fuori dalla città. Le campagne sono ancora più selvagge e le muffe sono cresciute incontrollate, diventando ben presto impenetrabili. Siamo fortunati però e non dobbiamo girare ancora a lungo: troviamo un supermercato dove facciamo scorta di cibi precotti, gli unici ancora commestibili. Chissà per quanto riusciremo a resistere con la carne in scatola.
«Uno per me, uno per te e uno per la figlia del re!» cantilena Franco riempiendo le borse.
E ride, quella risatina aspirata che ricorda un po’ un grugnito. Qualsiasi cosa faccia, deve dire qualcuna delle sue cazzate. È un anno che condividiamo il rifugio e ormai ho sentito tutto il repertorio.
Con l’auto piena rientriamo in città e ci fermiamo in una di quelle associazioni di appassionati di immersioni e pesca subacquea. Sono l’unico posto dove possiamo ricaricare di ossigeno le nostre bombole. Le teniamo al sicuro e ben protette, non vorremmo trovarci a respirare spore per sbaglio, nè che qualcuno ce le rubi.
«Cronaca del giorno in cui… l’aquila volò… SU CONFINIIIII DOVE L’ARIA È POLVEREEE!» canta a squarciagola Franco. Canta Laura Pausini e quella canzone sull’aria e la polvere. Un sibilo interrompe la performance canora.
Si volta e mi guarda stupito.
Io lo guardo.
Poi abbassa lo sguardo per cercare di capire. Credo che il casco non gli permetta di vedere la punta dell’arpione che gli spunta dal petto.
Lo sguardo si alza nuovamente su di me, guarda il fucile. Un rivolo di sangue gli esce dalla bocca.
A distanza ravvicinata l’ho trapassato da parte a parte. Come una cernia, penso. La cosa mi fa sorridere.
«Sai quante volte hai cantato questa canzone di merda? Duecentosessantaqua... duecentosessantacinque volte» gli dico. «Se vuoi ti dico quante volte hai fatto la battuta sul risotto ai funghi.»
Gli cade la bombola e fa un rumore infernale, ma non ci sono fungati lì intorno, niente di cui preoccuparsi. Si accascia sulle ginocchia, terrorizzato. Mi avvicino e inizio a spogliarlo: in fin dei conti con una piccola toppa mi guadagno una tuta di scorta in più.
«Dicevano che le difficoltà ci avrebbero resi migliori… ricordi, Franco? Invece tu continui a fare sempre le stesse cazzo di battute, a cantare le stesse canzoni. Trecentosessantacinque giorni l’anno» gli dico e lui mi guarda boccheggiando. Mi viene ancora più da ridere pensando a lui come a un pesce che si dibatte sul ponte di una barca.
Per un attimo mi fermo a pensare che rimarrò solo, che l’umanità si sta estinguendo, che questa è l’Apocalisse e dobbiamo tutti essere fratelli. Ma poi mi torna in mente la battuta sul risotto e Laura Pausini e ricomincio a spogliarlo dello scafandro. Scommetto che se dovessi incontrare altri sopravvissuti avrebbero gusti migliori.
«Scusami eh… se no la tuta si rompe» dico strappandogli l’arpione. Franco tossisce un fiotto di sangue. Dovrò pulirla bene prima di usarla. Anche la riparazione non dovrebbe essere difficile.
Una volta che ho finito, carico le ultime bombole e mi avvio all’uscita.
Mi giro e guardo il corpo di Franco che sta già iniziando a coprirsi di funghi.
Credo sia ancora vivo. Mi abbasso e gli prendo le sigarette dalla tasca.
Magari prima della fine del mondo potrei provare a fumarne una.
Scuoto la testa. Franco sa che non fumo, ma ogni volta che dobbiamo prepararci per uscire me lo chiede.
Un rituale da condannati a morte, penso. L’ultimo desiderio prima di quello che ci aspetta fuori.
Mi dà una mano con la tuta e io faccio lo stesso, mentre aspira i rimasugli di tabacco come un tossico prima di gettare il filtro consumato.
«Questa volta magari trovi qualche pacchetto» gli dico, ma non riesco a essere convincente. Lui fa spallucce.
La tuta mi fa sudare. Non mi ci abituerò mai a questa armatura. Preferivo le mascherine, ma non bastano più. Pensavo che il virus fosse la cosa peggiore che potesse capitarci, poi sono arrivate le piogge. Dei monsoni che sono durati per mesi e mesi, torrenziali e devastanti, che ci hanno di nuovo costretto a rimanere chiusi in casa. E quando finalmente hanno smesso, è cominciata la piaga dei funghi. Dalla sera alla mattina una micosi planetaria.
All’inizio sembrava fossero solo più abbondanti, ci dicevamo che dopo le esondazioni era normale. Però continuavano ad aumentare, fino a che la situazione è diventata insostenibile. Usavamo il fuoco, ma non facevano che ritornare, più resistenti, sempre più grandi.
Hanno invaso le strade, ce li trovavamo perfino in casa: abbiamo dovuto abbandonare intere aree della città. Sono scoppiate crisi ovunque, governi sono caduti e la gente ha iniziato a impazzire, a diventare sempre più violenta, provata dalle piaghe che ci hanno colpito l’una dopo l’altra.
Alcune persone hanno preferito farla finita, entrare in una di quelle sette che promettevano salvezza e regalavano un suicidio di massa con l’iscrizione. Altri si sono riuniti in bande con l’intento di provare finalmente l’ebrezza del braccio più violento del caos, nutrendosi di saccheggi e devastazione.
Vi lascio immaginare cosa ho fatto io.
Mi sono sempre considerato un moderato, voglio precisarlo, comunque.
Il vero panico però è scoppiato quando i funghi più vecchi hanno rilasciato le loro spore. Nuvole di particelle microscopiche, si sono depositate ovunque, un tappeto innaturale di polvere arancione, impalpabile. Abbiamo visto quel pulviscolo attaccarsi alle persone, attecchire come su un suolo fertile e trasformarle ancora vive in un’incubatrice per dare nuova vita a quell’infestazione. Ci siamo nascosti, barricati sottoterra ed è a quel punto che le tute sono diventato un bene prezioso. Magari un giorno vi dirò come io e Franco ci siamo procurato le nostre. Una storia divertente, da un certo punto di vista.
«Andiamo a prendere i funghi per il risotto!» esclama Franco e ridacchia. Ogni volta quella battuta idiota. Ogni volta ride. Sbuffo e il vetro del casco si appanna. Dannate tute.
Montiamo in macchina e iniziamo la nostra caccia. Trovare risorse è sempre più difficile e ogni volta che usciamo dobbiamo spingerci più lontano.
L’auto è appesantita da lamiere e rostri. Abbiamo dovuto blindarla, proteggere i vetri. Siamo rimasti in pochi, ma gli assalti sono più frequenti di quanto si possa credere. Cerchiamo di rubarci le cose tra gruppi, fa parte del gioco. Alle volte capita anche che qualcuno dei “fungati”, come abbiamo deciso di chiamarli, ci assalga quando facciamo troppo rumore. Non so se siano ancora in grado di capire qualcosa della loro vecchia vita, forse sono solo folli di dolore.
Solitamente alleviamo le loro sofferenze. Basta un colpo e vanno in frantumi, si sfaldano come una crisalide. È sorprendente come riescano a muoversi in quelle condizioni. Marionette senza fili, quasi come se fosse una vera invasione zombi.
L’auto solleva volute di polvere mentre affrontiamo i viali deserti della città. Quello schifo si infila nelle feritoie della lamiera davanti al parabrezza, tanto che guidiamo quasi alla cieca. Ogni tanto Franco spruzza acqua per lavare via quello strato spesso, ma quella roba si mischia con il liquido e diventa un blocco che mi toccherà pulire quando ci fermeremo. Continuo a spiegarglielo, ma gli piace così: lo fa sentire utile, dice.
Controllo che le bocchette dell’aria condizionata siano sigillate. La prudenza non è mai troppa anche se siamo bardati e protetti.
Gigantesche corone gettano la loro ombra sulle strade, mentre facciamo lo slalom tra alberi fungini. Scogliere spugnose e frastagliate, colori giallastri e malsani che hanno preso il dominio del mondo.
Il giro è lungo, pesante, e per la prima volta per recuperare del cibo dobbiamo spingerci fuori dalla città. Le campagne sono ancora più selvagge e le muffe sono cresciute incontrollate, diventando ben presto impenetrabili. Siamo fortunati però e non dobbiamo girare ancora a lungo: troviamo un supermercato dove facciamo scorta di cibi precotti, gli unici ancora commestibili. Chissà per quanto riusciremo a resistere con la carne in scatola.
«Uno per me, uno per te e uno per la figlia del re!» cantilena Franco riempiendo le borse.
E ride, quella risatina aspirata che ricorda un po’ un grugnito. Qualsiasi cosa faccia, deve dire qualcuna delle sue cazzate. È un anno che condividiamo il rifugio e ormai ho sentito tutto il repertorio.
Con l’auto piena rientriamo in città e ci fermiamo in una di quelle associazioni di appassionati di immersioni e pesca subacquea. Sono l’unico posto dove possiamo ricaricare di ossigeno le nostre bombole. Le teniamo al sicuro e ben protette, non vorremmo trovarci a respirare spore per sbaglio, nè che qualcuno ce le rubi.
«Cronaca del giorno in cui… l’aquila volò… SU CONFINIIIII DOVE L’ARIA È POLVEREEE!» canta a squarciagola Franco. Canta Laura Pausini e quella canzone sull’aria e la polvere. Un sibilo interrompe la performance canora.
Si volta e mi guarda stupito.
Io lo guardo.
Poi abbassa lo sguardo per cercare di capire. Credo che il casco non gli permetta di vedere la punta dell’arpione che gli spunta dal petto.
Lo sguardo si alza nuovamente su di me, guarda il fucile. Un rivolo di sangue gli esce dalla bocca.
A distanza ravvicinata l’ho trapassato da parte a parte. Come una cernia, penso. La cosa mi fa sorridere.
«Sai quante volte hai cantato questa canzone di merda? Duecentosessantaqua... duecentosessantacinque volte» gli dico. «Se vuoi ti dico quante volte hai fatto la battuta sul risotto ai funghi.»
Gli cade la bombola e fa un rumore infernale, ma non ci sono fungati lì intorno, niente di cui preoccuparsi. Si accascia sulle ginocchia, terrorizzato. Mi avvicino e inizio a spogliarlo: in fin dei conti con una piccola toppa mi guadagno una tuta di scorta in più.
«Dicevano che le difficoltà ci avrebbero resi migliori… ricordi, Franco? Invece tu continui a fare sempre le stesse cazzo di battute, a cantare le stesse canzoni. Trecentosessantacinque giorni l’anno» gli dico e lui mi guarda boccheggiando. Mi viene ancora più da ridere pensando a lui come a un pesce che si dibatte sul ponte di una barca.
Per un attimo mi fermo a pensare che rimarrò solo, che l’umanità si sta estinguendo, che questa è l’Apocalisse e dobbiamo tutti essere fratelli. Ma poi mi torna in mente la battuta sul risotto e Laura Pausini e ricomincio a spogliarlo dello scafandro. Scommetto che se dovessi incontrare altri sopravvissuti avrebbero gusti migliori.
«Scusami eh… se no la tuta si rompe» dico strappandogli l’arpione. Franco tossisce un fiotto di sangue. Dovrò pulirla bene prima di usarla. Anche la riparazione non dovrebbe essere difficile.
Una volta che ho finito, carico le ultime bombole e mi avvio all’uscita.
Mi giro e guardo il corpo di Franco che sta già iniziando a coprirsi di funghi.
Credo sia ancora vivo. Mi abbasso e gli prendo le sigarette dalla tasca.
Magari prima della fine del mondo potrei provare a fumarne una.