O R
Inviato: mercoledì 8 luglio 2020, 13:46
L’uomo in fila davanti a Johann cadde all’improvviso, le ossa del braccio scrocchiarono come un ramo spezzato, sotto al peso della catasta di mattoni che stava trasportando. Il grido arrivò subito dopo, tanto acuto da sembrare femminile. Johann lasciò cadere il proprio carico e lo raggiunse in un paio di passi. «Ehi, non muoverti, ti aiuto.» Lo sollevò con il massimo garbo possibile, mentre il resto della fila li superava in silenzio. Una lunga fila di formiche a righe bianche e nere, curve ed emaciate.
«I mattoni...» Balbettó l’uomo, gli occhi grigi persi nello stesso vuoto dove annaspava con la mano buona.
Una delle formiche fece loro un cenno, senza smettere di camminare. «Lascialo stare, campione, non ce la farà, vieni via.»
Johann agitò la mano, un sorriso brillò quasi stonato sulla pelle scura. «Lo porto alla baracca, almeno ci provo.» Ebbe appena il tempo di caricarselo in spalla, poi il buio, evocato dal calcio di un fucile, lo avvolse.
Si svegliò nello stesso posto in cui era stato colpito, impiegò qualche secondo a muovere le braccia, intorpidite dal gelo. La catasta di mattoni e il corpo dell’uomo cui era caduta, erano coperti da un sottile strato di neve lì accanto. Si scrollò la casacca irrigidita con le mani e si levò in piedi. Raccolse i mattoni e seguì la fila, una piacevole sensazione di calore sul collo, lo informò che stava ancora sanguinando.
«Lo toglieremo di lì stasera.» Sentenziò l’uomo che lo seguiva, rispondendo a una domanda non posta. «Ma non tu, meglio che rimani in baracca. Mentre eri a terra, ho visto che portavano via altri sinti. Forse ti hanno creduto morto e ti hanno lasciato lì.»
«Dove li stavano portando?»
«Non lo so, parlavano di un altro campo. Di un dottore.»
La brodaglia nelle scodelle era fredda e insipida. Difficile capire da cosa fosse composta. Comunque, Johann ci tuffò il pane nero. A metà pasto reclinò la testa indietro, poggiandola sulla parete e prese un respiro. Si guardò intorno: nei loculi di legno che chiamavano brande, decine di paia di occhi lo osservavano.
«Allora?» Karl, seduto accanto a lui, sorrise. «Siamo preoccupati per te Rukeli, stanno prendendo tutti i sinti del campo.»
«Non chiamarmi in quel modo.»
«Perché no? Eri fantastico! Il grande Rukeli! Il Gipsy!» Gli occhi vagarono qualche istante tra le tavole sconnesse e i ricordi. «Anche se sembra una vita fa.»
Un paio di colpi che sembrarono fracassare la porta e i toraci: la prima si spalancò mentre i secondi rischiarono di scoppiare. «Detenuto Trollmann!» Gracidò un soldato senza nemmeno entrare.
Nessuna esitazione, Johann si alzò in piedi, raddrizzò le spalle e raggiunse la squadriglia, senza smettere di guardare il militare negli occhi, con una forza e una dignità che prevaricava l’istinto di sopravvivenza.
Questi sembrò non notarlo nemmeno, diede una gomitata al commilitone alla propria destra. «Te lo dicevo che c’è ne erano altri. Io porto lui, voi finite il giro.»
Raggiunsero una baracca dipinta di bianco in fondo al campo, seguendo le linee sovrapposte di fanghiglia sul manto nevoso. Johann rabbrividì un momento, prese un respiro, sbuffò una nuvoletta algida e entrò.
Una selezione. Una nuova, interminabile selezione. Non erano solo sinti, come gli avevano detto, riconobbe alcuni rom con cui aveva parlato qualche volta e un paio di nani, probabilmente ebrei. Si mise in fila, incoraggiato da uno spintone, dietro a due ragazzini che sembravano gemelli.
Dopo un paio d’ore maturò la convinzione che non fosse l’ennesima selezione, piuttosto che stessero stilando una lista, perché tutti i nomi finivano nello stesso registro e nel dubbio se questo fosse un bene o un male, prese in braccio uno dei gemelli, che da un po’ faticava a rimanere in piedi.
Il ragazzino gli si addormentò in collo dopo una manciata di minuti, ma gli venne strappato via dalle braccia subito dopo, da uno dei kapò che camminavano tra le file. L’uomo lasciò cadere il bambino come un sacco di patate. «Cosa non ti è chiaro, nelle parole “aspetta e fermo”, zingaro?» Sollevò il manganello per colpirlo, ma Johann inarcò le spalle, alzò la guardia e schivò, spostandosi di lato, con una grazia tale da farlo sembrare un ballerino. Un cigno che si erge da un pollaio sovrappopolato.
Il kapò sgranò gli occhi, dischiudendo appena le labbra. «Parola mia se non sembri... cazzo, io lo so tu chi sei!» Abbassò l’arma e si precipitò verso il tavolaccio, dove una decina di soldati e un paio di ufficiali, annotavano nome e numero dei prigionieri. Johann riuscì a vederlo sbracciarsi, un sorriso ebete nel volto rossiccio e due dita puntate verso di lui.
Tornò alla propria branda qualche ora più tardi e ci crollò sopra. Karl, dal letto a fianco, si sollevò sui gomiti e lo raggiunse strisciando sulle coperte sudice. «Ti hanno lasciato qui alla fine? Credevo non ti avrei più rivisto, campione.»
Uno dei fari esterni illuminò le finestre della baracca, esponendo le brande alla luce. Johann aveva un occhio semichiuso dal gonfiore violaceo che spingeva dallo zigomo e le labbra spaccate da un lato.
«Ma che t’hanno fatto?»
«Uno dei kapò mi ha riconosciuto, ha convinto gli ufficiali a non farmi partire.»
«Ed è un bene o un male?»
«Non lo so.» Si strinse il torace con la destra tremante e si girò di lato. «Però a quel punto è sembrato che tutti gli aspiranti pugili del campo, avessero voglia di provare a battermi.»
«E ci sono riusciti?»
Sollevò un angolo della bocca, scoprendo i denti sporchi di sangue. «No.» Sussurrò, e un istante dopo dormiva.
Il giorno successivo passò uguale agli altri. Tra la malta, le fornaci e il trasporto dei mattoni. Molti cadevano e qualcuno non si rialzava più. Il lavoro e le pause scanditi dalla musica di Kroll e di Kummer, gracchiata dagli altoparlanti. I walzer e gli assoli di violoncello, davano al campo un aria di serenità malsana. Una sensazione di calore appiccicoso, nonostante il gelo e la neve, mentre tra una battuta e l’altra, gli uomini morivano sopraffatti dalla fatica.
Il rientro alle baracche era accompagnato da una marcia veloce e trionfante di ottoni che cozzava con lo strascichio dei piedi e le membra doloranti.
Il kapò fermò Johann e Karl sulla porta. «Tu no, zingaro. Abbiamo organizzato un incontro per te, anche questa sera.» Ridacchiò e gli diede una pacca sulle spalle.
Lasciò indietro gli occhi imploranti di Karl e seguì il kapò fino agli alloggi dei soldati.
Avevano allestito un ring. Con tanto di panche per il pubblico e un paio di riflettori puntati al centro del quadrato. Avevano addirittura rivestito gli angoli con stoffe colorate.
Il kapò gli diede una spinta. «Vatti a cambiare, laggiù.»
Indossò i calzoncini e un paio di stivaletti leggeri, non erano proprio la sua misura, ma per un momento gli parvero perfetti. Chiuse gli occhi e spostò appena la testa di lato. Sembrava il brusio concitato del pubblico prima dell’incontro, anche se probabilmente erano solo le caldaie.
Raccolse le fasce dalla panca. Erano sporche, vecchie, ma le srotolò tra palmo e polso con la cura che si avrebbe per una reliquia. Appoggiò le mani sulle corde e inarcò la schiena, poi infilò i guantoni e salì sul ring.
Il militare che aveva deciso di sfidarlo era un palmo più alto e se ne stava lì, al centro del ring, granitico come una colonna, la guardia alta e le gambe ben piantate per terra.
Rukeli molleggiò un paio di volte sulle punte, portò il peso da una gamba all’altra e subito dopo era al Bock di Berlino, circondato da una folla di ammiratori, a contendersi il titolo dei medio massimi. Non c’era più nulla oltre lui e il gigante che aveva davanti. Non c’era il campo, il filo spinato, il dolore, la morte. Non c’era nemmeno più la fatica, mentre schivava i colpi dell’avversario con la grazia di una danzatrice. Un diretto, un altro, un passo di diagonale e altri diretti in serie. Il pugilato gli concedeva di nuovo il lusso dell’equità: due persone, stesse possibilità, stesse armi. Quando assestò il gancio finale, il tedesco non era riuscito ad andare a segno nemmeno una volta.
Il quarto round fu l’ultimo. Un gancio fece crollare la colonna, inutile il conteggio rallentato del kapò, inutili le grida di incitamento degli altri soldati. La montagna bionda rimase a terra, un ginocchio sollevato e il fiato corto.
Johann tornò al suo angolo. Nessuna celebrazione per una vittoria che non avrebbe mai dovuto esserci. Rimase seduto in silenzio, finché l’avversario fu portato via a braccia e finché la sala non si fu svuotata. Cornelius, il kapò che lo aveva scortato fin lì gli gettò addosso un telo. «E bravo, zingaro. Ti sei meritato un pagamento.» Cacciò del pane e del formaggio da una gavetta e li tirò ai suoi piedi con un gesto annoiato.
«Che stai facendo?» Uno dei soldati che avevano assistito all’incontro si era avvicinato. «Com’è che diceva il francese? Gli atleti non devono ricevere compensi, o si perderebbe il senso stesso dello sport.» Raccolse la borraccia da terra e la rovesciò in testa al campione, poi pestò il pane secco, riducendolo in briciole.
«Quale francese?» Sottolineò Cornelius.
«Quello delle Olimpiadi... De Coubertin, razza di ignorante. E per fortuna dici a tutti di essere stato un pugile.» Passò una mano sulla testa rasata di Johann e la spinse indietro di scatto. «Vattene a dormire, zingaro, domani tocca a me, vediamo se riesci a buttarmi giù.»
Della neve, che si era sciolta da giorni, rimaneva solo una fanghiglia grigia e nera ai bordi delle vie. Qualche mucchio ancora gelato, appiccicato ai muri o ai pali più grossi delle recinzioni.
Alla baracca, Johann, ci arrivò sulle sue gambe ma non riuscì a raggiungere la branda. Karl gli corse incontro e lo prese sotto le ascelle, lo trascinò fino al letto e lo aiutò a coricarsi. «Quanto pensi di andare avanti così?»
«Ancora un po’...» Sorrise, scoprendo una fossetta piena di sangue, al posto del premolare superiore. «Non sono mai stato un buon incassatore.» Sputò un guizzo porpora, che si raggrumò sulla polvere del pavimento.
Karl tirò fuori da sotto alla branda una scodella piena. «Ce la fai a mangiare? L’abbiamo tenuta per te.»
«Magari tra un po’.» Sussurrò con gli occhi socchiusi.
«Tra un po’ sarà l’alba.» Gli sfilò la casacca madida, il fianco destro era livido, come la clavicola e il collo. «Ti ammazzeranno così. Vogliono vederti perdere, da settimane ormai, e allora perdi per Dio!»
«Sono quasi finiti, quanti cazzo di pugili falliti ci potranno mai essere in questo campo?»
Lo aiutò a sedersi, passandosi il suo braccio dietro al collo. Sopra il numero identificativo altre due lettere tatuate, un po’ più distanti: “O R”. «E questo che diavolo è?»
Il campione le sfiorò con due dita. Sorrise e si appoggiò sulla sua spalla. «Questo è il mio cuore, mia moglie e mia figlia.»
«Certo capisco: sono morte?»
«Morte? No, no tutt’altro. Sono riuscito a divorziare appena in tempo perché lei potesse riprendere il nome da nubile e darlo anche alla bambina. Sono partite, sono in salvo.»
«E tu che cazzo ci facevi ancora qui, se avevi capito cosa sarebbe successo?»
«Non sono stato abbastanza veloce.» Chiuse gli occhi di nuovo. «Ironico eh?»
«No, per niente.» Lo aiutò a indossare una casacca asciutta. «Devi stare attento ragazzo, il Kapò Cornelius sono giorni che lo dice a tutti, che è stato una promessa del pugilato, che le tue vittorie sono solo una farsa e che vuole combattere contro di te.» Lo scrollò pretendendone l’attenzione, gli occhi ghiaccio fissi in quelli scuri e profondi del pugile. «E quindi vuole vincere.»
Lui gli diede un colpetto sulla spalla, un gesto affettuoso, increspò appena il labbro superiore nello sforzo di sorridere. «Voglio rimanere vivo quanto te, nessun alzata di testa, te lo prometto.»
«Allora dormi, domani esci al lavoro con noi, poi troveremo il modo di nasconderti. Così potrai riposare, almeno un po’.»
Per un paio di notti consecutive non venne nessuno a cercare Rukeli, nella sua baracca, per un paio di notti gli lasciarono l’illusione che avessero trovato un nuovo diversivo. Una nuova vittima, aveva anche sperato, pentendosene un momento più tardi. Ma non era così.
Raggiunse il ring passando tra decine di soldati, ufficiali anche e per la prima volta, le loro signore. Non vedeva tanta gente ben vestita da un paio d’anni almeno, né tanti sorrisi. Sembrava una serata di festa, era anche caldo, tanto, per essere primavera solo da qualche giorno. Superò la coltre di fumo che avevano prodotto le decine di sigarette consumate nell’attesa e si portò al centro del quadrato. Il kapò Cornelius era già lì, trionfante nel suo accappatoio verde chiaro, sorrideva alle signore nelle prime file, quasi fossero lì per lui.
Volevano vederlo perdere. Sarebbe bastato poco e forse, lo avrebbero lasciato in pace. Il campanello del primo round risuonò nelle orecchie e nel petto, si scosse, strizzò gli occhi e si portò al centro del quadrato. Abbassò un po’ la guardia, i piedi veloci, piantati a terra come radici sicure.
Il primo diretto lo prese al fianco. La spalla, l’osso iliaco, ancora il fianco. Un paio di insulti coloriti dalle prime file, qualche risata, poi un gancio. E lui rimaneva lì, in piedi, a fare da sacco. Era già successo, un paio d’anni prima, quando l’avevano obbligato a perdere e aveva accettato, pur di mantenere la licenza da professionista. Un destro abbastanza forte da farlo barcollare gli arrivò alla mascella. Portò la gamba indietro, una donna lanciò un gridolino da una fila più lontana.
«Non sembri tanto forte!» Gridò Cornelius e spargendo saliva e sudore lo colpì ancora, e ancora, alternando i colpi maldestri alle imprecazioni. Continuò ad affondare in quel corpo immobile anche dopo la campana che annunciava la fine del round.
Ora era davvero Rukeli, l’albero. Arrivò al proprio angolo e si versò l’acqua del secchio in faccia. Sotto di lui decine di persone ridevano, si davano gomitate, finalmente fiere di essere dalla parte vincente.
Tornò al proprio massacro, sarebbe stato veloce, avrebbe preso un paio di ganci e sarebbe andato giù, più per stanchezza che per volontà. Era una farfalla con le ali strappate in mezzo alla pioggia.
«Vai giù zingaro bastardo!» Gli urlò in faccia l’avversario e sembrava più stanco di lui, più disperato.
Johann, abbassò la guardia, socchiuse gli occhi in una strana sensazione di galleggiamento, di oblio. Una ragazza dalla prima fila tolse la mano da quelle del proprio accompagnatore e strinse un fazzoletto. Occhi azzurri, grandi, impauriti. Preoccupati, come quelli della sua bellissima Olga prima di ogni incontro.
«Sei ancora in piedi, zingaro?»
Gli risuonò in testa come un gong, e come se l’incontro fosse appena iniziato, si lanciò contro l’avversario. Scartò un paio di colpi, lenti e mal portati, e saltellando si portò a sinistra in diagonale, la sequenza veloce di uno-due sbilanciò Cornelius che tento una reazione, ma Johann non era più lì. Era balzato dalla parte opposta e aveva continuato a picchiare. Prima che il campanello suonasse la fine del secondo round, Cornelius era a terra, privo di sensi, in un coro di risa.
Era una notte particolarmente silenziosa quella in cui sfondarono la porta di una delle baracche vicino al fiume. I soldati entrarono di corsa, non cercarono, non chiesero. Si diressero verso una specifica branda nel precario castello di letti incolonnati. Afferrarono Johann “Rukeli” Trollmann per le braccia e lo trascinarono fuori, nel cortile. I mitra spianati. Il kapò Cornelius aveva una benda sull’occhio, la mascella annerita e le labbra gonfie. «Hai alzato la testa una volta di troppo, zingaro!» Roteò il badile sopra la testa e lo sprofondò su quel viso che era stato così bello: una volta, due, finché del volto del campione non rimase che poltiglia cremisi sulla ghiaia.
L’archiviazione del decesso del prigioniero 721/1943 creò qualche problema di carattere amministrativo, nulla di complicato da risolvere, quando il soldato semplice incaricato di compilare i moduli decise di ignorare quelle due lettere fuori posto: “O R”.
«I mattoni...» Balbettó l’uomo, gli occhi grigi persi nello stesso vuoto dove annaspava con la mano buona.
Una delle formiche fece loro un cenno, senza smettere di camminare. «Lascialo stare, campione, non ce la farà, vieni via.»
Johann agitò la mano, un sorriso brillò quasi stonato sulla pelle scura. «Lo porto alla baracca, almeno ci provo.» Ebbe appena il tempo di caricarselo in spalla, poi il buio, evocato dal calcio di un fucile, lo avvolse.
Si svegliò nello stesso posto in cui era stato colpito, impiegò qualche secondo a muovere le braccia, intorpidite dal gelo. La catasta di mattoni e il corpo dell’uomo cui era caduta, erano coperti da un sottile strato di neve lì accanto. Si scrollò la casacca irrigidita con le mani e si levò in piedi. Raccolse i mattoni e seguì la fila, una piacevole sensazione di calore sul collo, lo informò che stava ancora sanguinando.
«Lo toglieremo di lì stasera.» Sentenziò l’uomo che lo seguiva, rispondendo a una domanda non posta. «Ma non tu, meglio che rimani in baracca. Mentre eri a terra, ho visto che portavano via altri sinti. Forse ti hanno creduto morto e ti hanno lasciato lì.»
«Dove li stavano portando?»
«Non lo so, parlavano di un altro campo. Di un dottore.»
La brodaglia nelle scodelle era fredda e insipida. Difficile capire da cosa fosse composta. Comunque, Johann ci tuffò il pane nero. A metà pasto reclinò la testa indietro, poggiandola sulla parete e prese un respiro. Si guardò intorno: nei loculi di legno che chiamavano brande, decine di paia di occhi lo osservavano.
«Allora?» Karl, seduto accanto a lui, sorrise. «Siamo preoccupati per te Rukeli, stanno prendendo tutti i sinti del campo.»
«Non chiamarmi in quel modo.»
«Perché no? Eri fantastico! Il grande Rukeli! Il Gipsy!» Gli occhi vagarono qualche istante tra le tavole sconnesse e i ricordi. «Anche se sembra una vita fa.»
Un paio di colpi che sembrarono fracassare la porta e i toraci: la prima si spalancò mentre i secondi rischiarono di scoppiare. «Detenuto Trollmann!» Gracidò un soldato senza nemmeno entrare.
Nessuna esitazione, Johann si alzò in piedi, raddrizzò le spalle e raggiunse la squadriglia, senza smettere di guardare il militare negli occhi, con una forza e una dignità che prevaricava l’istinto di sopravvivenza.
Questi sembrò non notarlo nemmeno, diede una gomitata al commilitone alla propria destra. «Te lo dicevo che c’è ne erano altri. Io porto lui, voi finite il giro.»
Raggiunsero una baracca dipinta di bianco in fondo al campo, seguendo le linee sovrapposte di fanghiglia sul manto nevoso. Johann rabbrividì un momento, prese un respiro, sbuffò una nuvoletta algida e entrò.
Una selezione. Una nuova, interminabile selezione. Non erano solo sinti, come gli avevano detto, riconobbe alcuni rom con cui aveva parlato qualche volta e un paio di nani, probabilmente ebrei. Si mise in fila, incoraggiato da uno spintone, dietro a due ragazzini che sembravano gemelli.
Dopo un paio d’ore maturò la convinzione che non fosse l’ennesima selezione, piuttosto che stessero stilando una lista, perché tutti i nomi finivano nello stesso registro e nel dubbio se questo fosse un bene o un male, prese in braccio uno dei gemelli, che da un po’ faticava a rimanere in piedi.
Il ragazzino gli si addormentò in collo dopo una manciata di minuti, ma gli venne strappato via dalle braccia subito dopo, da uno dei kapò che camminavano tra le file. L’uomo lasciò cadere il bambino come un sacco di patate. «Cosa non ti è chiaro, nelle parole “aspetta e fermo”, zingaro?» Sollevò il manganello per colpirlo, ma Johann inarcò le spalle, alzò la guardia e schivò, spostandosi di lato, con una grazia tale da farlo sembrare un ballerino. Un cigno che si erge da un pollaio sovrappopolato.
Il kapò sgranò gli occhi, dischiudendo appena le labbra. «Parola mia se non sembri... cazzo, io lo so tu chi sei!» Abbassò l’arma e si precipitò verso il tavolaccio, dove una decina di soldati e un paio di ufficiali, annotavano nome e numero dei prigionieri. Johann riuscì a vederlo sbracciarsi, un sorriso ebete nel volto rossiccio e due dita puntate verso di lui.
Tornò alla propria branda qualche ora più tardi e ci crollò sopra. Karl, dal letto a fianco, si sollevò sui gomiti e lo raggiunse strisciando sulle coperte sudice. «Ti hanno lasciato qui alla fine? Credevo non ti avrei più rivisto, campione.»
Uno dei fari esterni illuminò le finestre della baracca, esponendo le brande alla luce. Johann aveva un occhio semichiuso dal gonfiore violaceo che spingeva dallo zigomo e le labbra spaccate da un lato.
«Ma che t’hanno fatto?»
«Uno dei kapò mi ha riconosciuto, ha convinto gli ufficiali a non farmi partire.»
«Ed è un bene o un male?»
«Non lo so.» Si strinse il torace con la destra tremante e si girò di lato. «Però a quel punto è sembrato che tutti gli aspiranti pugili del campo, avessero voglia di provare a battermi.»
«E ci sono riusciti?»
Sollevò un angolo della bocca, scoprendo i denti sporchi di sangue. «No.» Sussurrò, e un istante dopo dormiva.
Il giorno successivo passò uguale agli altri. Tra la malta, le fornaci e il trasporto dei mattoni. Molti cadevano e qualcuno non si rialzava più. Il lavoro e le pause scanditi dalla musica di Kroll e di Kummer, gracchiata dagli altoparlanti. I walzer e gli assoli di violoncello, davano al campo un aria di serenità malsana. Una sensazione di calore appiccicoso, nonostante il gelo e la neve, mentre tra una battuta e l’altra, gli uomini morivano sopraffatti dalla fatica.
Il rientro alle baracche era accompagnato da una marcia veloce e trionfante di ottoni che cozzava con lo strascichio dei piedi e le membra doloranti.
Il kapò fermò Johann e Karl sulla porta. «Tu no, zingaro. Abbiamo organizzato un incontro per te, anche questa sera.» Ridacchiò e gli diede una pacca sulle spalle.
Lasciò indietro gli occhi imploranti di Karl e seguì il kapò fino agli alloggi dei soldati.
Avevano allestito un ring. Con tanto di panche per il pubblico e un paio di riflettori puntati al centro del quadrato. Avevano addirittura rivestito gli angoli con stoffe colorate.
Il kapò gli diede una spinta. «Vatti a cambiare, laggiù.»
Indossò i calzoncini e un paio di stivaletti leggeri, non erano proprio la sua misura, ma per un momento gli parvero perfetti. Chiuse gli occhi e spostò appena la testa di lato. Sembrava il brusio concitato del pubblico prima dell’incontro, anche se probabilmente erano solo le caldaie.
Raccolse le fasce dalla panca. Erano sporche, vecchie, ma le srotolò tra palmo e polso con la cura che si avrebbe per una reliquia. Appoggiò le mani sulle corde e inarcò la schiena, poi infilò i guantoni e salì sul ring.
Il militare che aveva deciso di sfidarlo era un palmo più alto e se ne stava lì, al centro del ring, granitico come una colonna, la guardia alta e le gambe ben piantate per terra.
Rukeli molleggiò un paio di volte sulle punte, portò il peso da una gamba all’altra e subito dopo era al Bock di Berlino, circondato da una folla di ammiratori, a contendersi il titolo dei medio massimi. Non c’era più nulla oltre lui e il gigante che aveva davanti. Non c’era il campo, il filo spinato, il dolore, la morte. Non c’era nemmeno più la fatica, mentre schivava i colpi dell’avversario con la grazia di una danzatrice. Un diretto, un altro, un passo di diagonale e altri diretti in serie. Il pugilato gli concedeva di nuovo il lusso dell’equità: due persone, stesse possibilità, stesse armi. Quando assestò il gancio finale, il tedesco non era riuscito ad andare a segno nemmeno una volta.
Il quarto round fu l’ultimo. Un gancio fece crollare la colonna, inutile il conteggio rallentato del kapò, inutili le grida di incitamento degli altri soldati. La montagna bionda rimase a terra, un ginocchio sollevato e il fiato corto.
Johann tornò al suo angolo. Nessuna celebrazione per una vittoria che non avrebbe mai dovuto esserci. Rimase seduto in silenzio, finché l’avversario fu portato via a braccia e finché la sala non si fu svuotata. Cornelius, il kapò che lo aveva scortato fin lì gli gettò addosso un telo. «E bravo, zingaro. Ti sei meritato un pagamento.» Cacciò del pane e del formaggio da una gavetta e li tirò ai suoi piedi con un gesto annoiato.
«Che stai facendo?» Uno dei soldati che avevano assistito all’incontro si era avvicinato. «Com’è che diceva il francese? Gli atleti non devono ricevere compensi, o si perderebbe il senso stesso dello sport.» Raccolse la borraccia da terra e la rovesciò in testa al campione, poi pestò il pane secco, riducendolo in briciole.
«Quale francese?» Sottolineò Cornelius.
«Quello delle Olimpiadi... De Coubertin, razza di ignorante. E per fortuna dici a tutti di essere stato un pugile.» Passò una mano sulla testa rasata di Johann e la spinse indietro di scatto. «Vattene a dormire, zingaro, domani tocca a me, vediamo se riesci a buttarmi giù.»
Della neve, che si era sciolta da giorni, rimaneva solo una fanghiglia grigia e nera ai bordi delle vie. Qualche mucchio ancora gelato, appiccicato ai muri o ai pali più grossi delle recinzioni.
Alla baracca, Johann, ci arrivò sulle sue gambe ma non riuscì a raggiungere la branda. Karl gli corse incontro e lo prese sotto le ascelle, lo trascinò fino al letto e lo aiutò a coricarsi. «Quanto pensi di andare avanti così?»
«Ancora un po’...» Sorrise, scoprendo una fossetta piena di sangue, al posto del premolare superiore. «Non sono mai stato un buon incassatore.» Sputò un guizzo porpora, che si raggrumò sulla polvere del pavimento.
Karl tirò fuori da sotto alla branda una scodella piena. «Ce la fai a mangiare? L’abbiamo tenuta per te.»
«Magari tra un po’.» Sussurrò con gli occhi socchiusi.
«Tra un po’ sarà l’alba.» Gli sfilò la casacca madida, il fianco destro era livido, come la clavicola e il collo. «Ti ammazzeranno così. Vogliono vederti perdere, da settimane ormai, e allora perdi per Dio!»
«Sono quasi finiti, quanti cazzo di pugili falliti ci potranno mai essere in questo campo?»
Lo aiutò a sedersi, passandosi il suo braccio dietro al collo. Sopra il numero identificativo altre due lettere tatuate, un po’ più distanti: “O R”. «E questo che diavolo è?»
Il campione le sfiorò con due dita. Sorrise e si appoggiò sulla sua spalla. «Questo è il mio cuore, mia moglie e mia figlia.»
«Certo capisco: sono morte?»
«Morte? No, no tutt’altro. Sono riuscito a divorziare appena in tempo perché lei potesse riprendere il nome da nubile e darlo anche alla bambina. Sono partite, sono in salvo.»
«E tu che cazzo ci facevi ancora qui, se avevi capito cosa sarebbe successo?»
«Non sono stato abbastanza veloce.» Chiuse gli occhi di nuovo. «Ironico eh?»
«No, per niente.» Lo aiutò a indossare una casacca asciutta. «Devi stare attento ragazzo, il Kapò Cornelius sono giorni che lo dice a tutti, che è stato una promessa del pugilato, che le tue vittorie sono solo una farsa e che vuole combattere contro di te.» Lo scrollò pretendendone l’attenzione, gli occhi ghiaccio fissi in quelli scuri e profondi del pugile. «E quindi vuole vincere.»
Lui gli diede un colpetto sulla spalla, un gesto affettuoso, increspò appena il labbro superiore nello sforzo di sorridere. «Voglio rimanere vivo quanto te, nessun alzata di testa, te lo prometto.»
«Allora dormi, domani esci al lavoro con noi, poi troveremo il modo di nasconderti. Così potrai riposare, almeno un po’.»
Per un paio di notti consecutive non venne nessuno a cercare Rukeli, nella sua baracca, per un paio di notti gli lasciarono l’illusione che avessero trovato un nuovo diversivo. Una nuova vittima, aveva anche sperato, pentendosene un momento più tardi. Ma non era così.
Raggiunse il ring passando tra decine di soldati, ufficiali anche e per la prima volta, le loro signore. Non vedeva tanta gente ben vestita da un paio d’anni almeno, né tanti sorrisi. Sembrava una serata di festa, era anche caldo, tanto, per essere primavera solo da qualche giorno. Superò la coltre di fumo che avevano prodotto le decine di sigarette consumate nell’attesa e si portò al centro del quadrato. Il kapò Cornelius era già lì, trionfante nel suo accappatoio verde chiaro, sorrideva alle signore nelle prime file, quasi fossero lì per lui.
Volevano vederlo perdere. Sarebbe bastato poco e forse, lo avrebbero lasciato in pace. Il campanello del primo round risuonò nelle orecchie e nel petto, si scosse, strizzò gli occhi e si portò al centro del quadrato. Abbassò un po’ la guardia, i piedi veloci, piantati a terra come radici sicure.
Il primo diretto lo prese al fianco. La spalla, l’osso iliaco, ancora il fianco. Un paio di insulti coloriti dalle prime file, qualche risata, poi un gancio. E lui rimaneva lì, in piedi, a fare da sacco. Era già successo, un paio d’anni prima, quando l’avevano obbligato a perdere e aveva accettato, pur di mantenere la licenza da professionista. Un destro abbastanza forte da farlo barcollare gli arrivò alla mascella. Portò la gamba indietro, una donna lanciò un gridolino da una fila più lontana.
«Non sembri tanto forte!» Gridò Cornelius e spargendo saliva e sudore lo colpì ancora, e ancora, alternando i colpi maldestri alle imprecazioni. Continuò ad affondare in quel corpo immobile anche dopo la campana che annunciava la fine del round.
Ora era davvero Rukeli, l’albero. Arrivò al proprio angolo e si versò l’acqua del secchio in faccia. Sotto di lui decine di persone ridevano, si davano gomitate, finalmente fiere di essere dalla parte vincente.
Tornò al proprio massacro, sarebbe stato veloce, avrebbe preso un paio di ganci e sarebbe andato giù, più per stanchezza che per volontà. Era una farfalla con le ali strappate in mezzo alla pioggia.
«Vai giù zingaro bastardo!» Gli urlò in faccia l’avversario e sembrava più stanco di lui, più disperato.
Johann, abbassò la guardia, socchiuse gli occhi in una strana sensazione di galleggiamento, di oblio. Una ragazza dalla prima fila tolse la mano da quelle del proprio accompagnatore e strinse un fazzoletto. Occhi azzurri, grandi, impauriti. Preoccupati, come quelli della sua bellissima Olga prima di ogni incontro.
«Sei ancora in piedi, zingaro?»
Gli risuonò in testa come un gong, e come se l’incontro fosse appena iniziato, si lanciò contro l’avversario. Scartò un paio di colpi, lenti e mal portati, e saltellando si portò a sinistra in diagonale, la sequenza veloce di uno-due sbilanciò Cornelius che tento una reazione, ma Johann non era più lì. Era balzato dalla parte opposta e aveva continuato a picchiare. Prima che il campanello suonasse la fine del secondo round, Cornelius era a terra, privo di sensi, in un coro di risa.
Era una notte particolarmente silenziosa quella in cui sfondarono la porta di una delle baracche vicino al fiume. I soldati entrarono di corsa, non cercarono, non chiesero. Si diressero verso una specifica branda nel precario castello di letti incolonnati. Afferrarono Johann “Rukeli” Trollmann per le braccia e lo trascinarono fuori, nel cortile. I mitra spianati. Il kapò Cornelius aveva una benda sull’occhio, la mascella annerita e le labbra gonfie. «Hai alzato la testa una volta di troppo, zingaro!» Roteò il badile sopra la testa e lo sprofondò su quel viso che era stato così bello: una volta, due, finché del volto del campione non rimase che poltiglia cremisi sulla ghiaia.
L’archiviazione del decesso del prigioniero 721/1943 creò qualche problema di carattere amministrativo, nulla di complicato da risolvere, quando il soldato semplice incaricato di compilare i moduli decise di ignorare quelle due lettere fuori posto: “O R”.