Tornare da oriente
Inviato: mercoledì 8 luglio 2020, 23:55
Sono passati due anni, undici mesi e diciassette giorni dall'ultima volta che ho messo piede a Siviglia, la bella e caotica Siviglia. Più di due anni in mare, da quando siamo partiti da questo porto, ma alla fine eccoci qui, di ritorno. Siamo approdati da un paio d’ore e gli uomini sono tutti scesi dalla nave, stanchi di un viaggio così lungo, che ha portato loro la gloria, ma a che prezzo? Ora però non voglio pensarci. Abbiamo scaricato la Victoria delle poche vettovaglie che ci erano rimaste dopo l’infausta, infinita traversata, e ora è giunto il momento di scialacquare la paga in qualche taverna del porto. Infondo siamo a Siviglia, e di taverne e puttane c’è ne sono a bizzeffe.
Dopo un fugace sguardo ai locali del porto, mi dirigo verso quello più vicino alla nave, troppo stanco per concedermi il lusso di perder tempo nella scelta. Entro e mi siedo al tavolo in attesa che la padrona di casa mi offa da bere. E non solo…
La pigrizia mi punisce. Mi si presenta un viscido omaccione corpulento che domanda le mie desiderata. Niente donne, niente calda accoglienza, è una Siviglia diversa a darmi il benvenuto. Tuttavia, mi devo ricredere poco dopo. Non appena il locandiere scopre che sono appena sbarcato dalla Victoria mi offre da bere e grida a tutti i presenti di accorrere al mio tavolo. Il più degli uomini, tutti marinai o quasi, mi guardano come se fossi un eroe, altri come se fossi un fantasma. Non chiedo il motivo di quell'entusiasmo, lo conosco già, ma il locandiere si premura comunque di farmi partecipe delle voci che corrono in città, di strada in strada, di taverna in taverna. Mi domanda perché delle cinque navi che salparono due anni fa, ne fosse tornata solo una. Mi chiede che ne è stato dei duecentotrenta uomini che erano partiti con me da quello stesso porto. Ma quello che più gli preme, quello che preme a tutti è sapere…
«Che ne è stato del portoghese?»
Io non rispondo alle prime due domande, vado dritto alla terza, perché quello che gli interessa ora è la sorte del Capitano. Sul momento quasi mi inebria l’idea di narrare il fatto, come se fossi un eroe di guerra, ma nel riportare alla mente le immagini dei nativi, del sangue e delle loro grida, ancora la paura mi stringe il cuore, come fossi un bambino. Mando giù un sorso del vino acetoso con cui mi hanno riempito il boccale e mi faccio forza, così inizio a raccontare.
«Dopo aver passato le Indie d'occidente, eravamo rimasti quasi tre mesi in mare, senza toccare terra. Ci erano rimaste solo la Trinidad, la Victoria e la Santiago, quando infine approdammo su un’isola di un arcipelago delle Indie ad Oriente, l’isola di Zebu. Eravamo ridotti alla fame e prossimi alla morte, ma per fortuna ci rimaneva quel tanto di prestanza da intimorire il popolo locale, così da farcelo amico e alleato.
Ci rifocillammo, ci riposammo, rinascemmo. Sembrava quello un segno divino del buon esito futuro della nostra spedizione. Il re locale, un tale Humabon, si convertì addirittura alla nostra santa fede, lui e il suo popolo. Stringemmo alleanza con quei nativi e il Capitano assicurò al re il suo appoggio e quello della Spagna in qualunque difficoltà, come segno della sincerità della nostra alleanza. Non l’avesse mai fatto, povero diavolo…»
Tracanno l’intero boccale per darmi forza e inumidirmi la lingua. Ne chiedo un altro, approfitto di quell'inattesa disponibilità, poi riprendo il racconto.
«Ora, capitava proprio che a Mactan, un’isola vicina, ci fosse qualche testa calda che aveva mal preso i buoni rapporti che re Humabon aveva instaurato con la nostra Corona e il nostro Dio, così scoppiò la rivolta. Cilapulapu era il nome del capo locale. No, no. Non ridete, perché quell'uomo non era un uomo ma un demonio. E il nostro Capitano pensò bene di affrontarlo. Era l’occasione giusta per mostrare a quei selvaggi seminudi quanto fosse stato saggio affidarsi alla nostra protezione. Accompagnammo così un contingente locale sulle coste di Mactan, ma il Capitano volle prima offrire una possibilità di resa al capo Cilapulapu. Così gli mandò un messaggero, che, tra l’altro, era anche il nostro interprete».
«E cosa disse il selvaggio?» mi chiede uno, tanto ingenuo da non prevedere la risposta.
«Quell'animale rifiutò l’offerta. Il Capitano, deciso a far tacere l’arroganza di quel selvaggio, prese con sé un drappello di uomini, pochi a dire il vero, una cinquantina circa, ma credeva sarebbero stati sufficienti a sbaragliare i nativi armati di fionde e bastoni».
«E voi eravate là?»
«Sì…»
Bevo un altro sorso. La parte difficile, quella più dura, la più truculenta, arriva.
«Cinquanta eravamo, armati di balestre, schioppette e spade d’acciaio, protetti da elmi e armature, ma eravamo pur sempre cinquanta».
«Quanti i selvaggi?»
«Molti, a centinaia, più di mille, di questo ne sono sicuro e ne ebbi conferma da chi rimase sulle barche a guardare. Noi fummo così presuntuosi da sperare di avere una possibilità solo per la superiorità delle nostre armi. Così iniziammo a sparare, con le schioppette e le balestre, ma quelli si erano nascosti dietro baluardi di legno, e rimanemmo per un tempo infinito a colpire a vuoto. Quando poi le case retrostanti all'armata di nativi presero a bruciare, quelli sollevarono un grido di rabbia e si lanciarono contro di noi, incuranti del pericolo che rappresentavamo.
Non ho mai visto una furia simile in nessun popolo selvaggio, e ne ho visti, statene certi. Anche armati di bastoni, quelli riuscivano a tenerci testa, a colpirci, a stordirci. Altri addirittura usavano semplicemente il loro corpo per disarmarci, approfittando della lentezza per le pesanti corazze che portavamo.
Io staccai la testa di netto a uno, poi ne infilzai un altro. Cadevano come galline al macello, seminudi e facili da abbattere, quando riuscivo a raggiungerli con la lama. Ma erano tanti, e noi solo cinquanta. Alcuni di loro impugnavano persino delle spade, grosse scimitarre orientali che, nel mio caso, per poco non mi aprirono il cranio in due. Sapevamo che avremmo perso, lo sapevamo fin da quando quel fiume di guerrieri sbraitanti ci si era fiondato addosso. Poi lo vidi, il grande capo, la causa di quello scempio che si compiva sotto i miei occhi.
Cilapulapu apparve nelle retrovie, col capo cinto da un lino rosso decorato, una collana di conchiglie che gli scendeva sul petto, e una cintura di tessuto prezioso intorno ai fianchi. Era venuto in pompa magna per finirci. Gridai al Capitano di ritirarci sulla costa, dove ci aspettavano rinforzi con le spingarde pronte a far fuoco, ma non riusciva a sentirmi. Mi voltai nuovamente verso Cilapulapu, per capire che intenzioni avesse, se voleva portare quella schermaglia ad un massacro o mostrarsi clemente. Né l’una né l’altra cosa. Lo vidi incoccare una freccia al suo arco, lo sguardo fisso su un punto preciso della battaglia, proprio dove il Capitano combatteva, tradito dall'eccessiva pomposità della sua tenuta. Io gridai nuovamente il suo nome, ma anche quella volta la mia voce si perse tra le grida forsennate dei selvaggi e le urla disperate dei miei compagni.
Cilapulapu quindi tese l’arco, si assicurò il bersaglio correggendo la mira, poi scoccò la freccia. Il Capitano cadde a terra, urlando di dolore, stringendo con la mano la gamba trafitta. Quel demonio aveva la vista di un falco e l’abilità d’un soldato addestrato. A ben pensarci però, quel colpo ci salvò la vita, obbligandoci tutti alla ritirata».
«Lui morì? Lo lasciaste sul campo in balia dei selvaggi?» mi domanda il locandiere.
«No, era pur sempre il nostro Capitano. Fui io stesso, insieme ad un compagno, a recuperarlo e trarlo in salvo dai nativi, portandolo via dalla mischia a costo della vita di molti dei nostri uomini. Quando ci videro arrivare, sporchi di sangue, sconfitti, con il nostro comandante ferito a morte, il re Humabon e i suoi ci lasciarono, disgustati e delusi. Inutile dire che ritornarono alle loro vecchie superstizioni, apostasiando la fede da poco abbracciata. L’imprudenza e l’impudenza del Capitano ci costò uomini e credibilità, per noi, per la Corona e per la nostra fede».
«Ma i vostri medici non riuscirono a fare nulla per lui? Per il portoghese intendo» mi chiede di nuovo.
«Quella serpe di Cilapulapu aveva avvelenato la freccia. Il Capitano aveva poco da vivere ormai. Riuscimmo comunque a dargli una degna sepoltura. Non avremmo potuto trasportarne la salma per quel viaggio di cui non si scorgeva la fine. Il señor Elcano prese il suo posto al comando, e grazie a lui ora siamo qui».
Finisco il mio secondo boccale, tiro un sospiro come ad indicare che la storia è finita. Ora che l’ho raccontata non mi pare neppure così terribile, non più, ora che sono a casa.
«Partire per l'occidente e tornare da oriente, che idea strampalata. E pensare che sarà uno spagnolo a prendersi tutto il merito alla fine! Il primo capitano a fare il giro del globo. Povero portoghese, Dio gli ha proprio remato contro» fa notare uno dei clienti, tutti un po’ brilli. Infatti scoppiano a ridere, dimentichi della tragedia che gli ho appena raccontato.
Per quanto possa essere irritante quella loro leggerezza però, non è per collera che mi trovo in disaccordo con quell'affermazione, no. È perché sono fermamente convinto del contrario, e glielo faccio notare.
«Forse, è così. È vero che il señor Elcano ha concluso il viaggio e vinto la corsa, ma il Capitano è morto con la spada in mano e un sogno nel cuore, il sogno di un viaggio intorno al globo, un sogno che nessun altro ha osato sognare. Per diventare una leggenda l’importante non è vincere o concludere la corsa, signori miei. L’importante è lo spirito con cui la si intraprende, e credetemi se vi dico che questo viaggio non sarà ricordato come quello del señor Elcano, ma come la grande impresa del capitano Magellano».
Dopo un fugace sguardo ai locali del porto, mi dirigo verso quello più vicino alla nave, troppo stanco per concedermi il lusso di perder tempo nella scelta. Entro e mi siedo al tavolo in attesa che la padrona di casa mi offa da bere. E non solo…
La pigrizia mi punisce. Mi si presenta un viscido omaccione corpulento che domanda le mie desiderata. Niente donne, niente calda accoglienza, è una Siviglia diversa a darmi il benvenuto. Tuttavia, mi devo ricredere poco dopo. Non appena il locandiere scopre che sono appena sbarcato dalla Victoria mi offre da bere e grida a tutti i presenti di accorrere al mio tavolo. Il più degli uomini, tutti marinai o quasi, mi guardano come se fossi un eroe, altri come se fossi un fantasma. Non chiedo il motivo di quell'entusiasmo, lo conosco già, ma il locandiere si premura comunque di farmi partecipe delle voci che corrono in città, di strada in strada, di taverna in taverna. Mi domanda perché delle cinque navi che salparono due anni fa, ne fosse tornata solo una. Mi chiede che ne è stato dei duecentotrenta uomini che erano partiti con me da quello stesso porto. Ma quello che più gli preme, quello che preme a tutti è sapere…
«Che ne è stato del portoghese?»
Io non rispondo alle prime due domande, vado dritto alla terza, perché quello che gli interessa ora è la sorte del Capitano. Sul momento quasi mi inebria l’idea di narrare il fatto, come se fossi un eroe di guerra, ma nel riportare alla mente le immagini dei nativi, del sangue e delle loro grida, ancora la paura mi stringe il cuore, come fossi un bambino. Mando giù un sorso del vino acetoso con cui mi hanno riempito il boccale e mi faccio forza, così inizio a raccontare.
«Dopo aver passato le Indie d'occidente, eravamo rimasti quasi tre mesi in mare, senza toccare terra. Ci erano rimaste solo la Trinidad, la Victoria e la Santiago, quando infine approdammo su un’isola di un arcipelago delle Indie ad Oriente, l’isola di Zebu. Eravamo ridotti alla fame e prossimi alla morte, ma per fortuna ci rimaneva quel tanto di prestanza da intimorire il popolo locale, così da farcelo amico e alleato.
Ci rifocillammo, ci riposammo, rinascemmo. Sembrava quello un segno divino del buon esito futuro della nostra spedizione. Il re locale, un tale Humabon, si convertì addirittura alla nostra santa fede, lui e il suo popolo. Stringemmo alleanza con quei nativi e il Capitano assicurò al re il suo appoggio e quello della Spagna in qualunque difficoltà, come segno della sincerità della nostra alleanza. Non l’avesse mai fatto, povero diavolo…»
Tracanno l’intero boccale per darmi forza e inumidirmi la lingua. Ne chiedo un altro, approfitto di quell'inattesa disponibilità, poi riprendo il racconto.
«Ora, capitava proprio che a Mactan, un’isola vicina, ci fosse qualche testa calda che aveva mal preso i buoni rapporti che re Humabon aveva instaurato con la nostra Corona e il nostro Dio, così scoppiò la rivolta. Cilapulapu era il nome del capo locale. No, no. Non ridete, perché quell'uomo non era un uomo ma un demonio. E il nostro Capitano pensò bene di affrontarlo. Era l’occasione giusta per mostrare a quei selvaggi seminudi quanto fosse stato saggio affidarsi alla nostra protezione. Accompagnammo così un contingente locale sulle coste di Mactan, ma il Capitano volle prima offrire una possibilità di resa al capo Cilapulapu. Così gli mandò un messaggero, che, tra l’altro, era anche il nostro interprete».
«E cosa disse il selvaggio?» mi chiede uno, tanto ingenuo da non prevedere la risposta.
«Quell'animale rifiutò l’offerta. Il Capitano, deciso a far tacere l’arroganza di quel selvaggio, prese con sé un drappello di uomini, pochi a dire il vero, una cinquantina circa, ma credeva sarebbero stati sufficienti a sbaragliare i nativi armati di fionde e bastoni».
«E voi eravate là?»
«Sì…»
Bevo un altro sorso. La parte difficile, quella più dura, la più truculenta, arriva.
«Cinquanta eravamo, armati di balestre, schioppette e spade d’acciaio, protetti da elmi e armature, ma eravamo pur sempre cinquanta».
«Quanti i selvaggi?»
«Molti, a centinaia, più di mille, di questo ne sono sicuro e ne ebbi conferma da chi rimase sulle barche a guardare. Noi fummo così presuntuosi da sperare di avere una possibilità solo per la superiorità delle nostre armi. Così iniziammo a sparare, con le schioppette e le balestre, ma quelli si erano nascosti dietro baluardi di legno, e rimanemmo per un tempo infinito a colpire a vuoto. Quando poi le case retrostanti all'armata di nativi presero a bruciare, quelli sollevarono un grido di rabbia e si lanciarono contro di noi, incuranti del pericolo che rappresentavamo.
Non ho mai visto una furia simile in nessun popolo selvaggio, e ne ho visti, statene certi. Anche armati di bastoni, quelli riuscivano a tenerci testa, a colpirci, a stordirci. Altri addirittura usavano semplicemente il loro corpo per disarmarci, approfittando della lentezza per le pesanti corazze che portavamo.
Io staccai la testa di netto a uno, poi ne infilzai un altro. Cadevano come galline al macello, seminudi e facili da abbattere, quando riuscivo a raggiungerli con la lama. Ma erano tanti, e noi solo cinquanta. Alcuni di loro impugnavano persino delle spade, grosse scimitarre orientali che, nel mio caso, per poco non mi aprirono il cranio in due. Sapevamo che avremmo perso, lo sapevamo fin da quando quel fiume di guerrieri sbraitanti ci si era fiondato addosso. Poi lo vidi, il grande capo, la causa di quello scempio che si compiva sotto i miei occhi.
Cilapulapu apparve nelle retrovie, col capo cinto da un lino rosso decorato, una collana di conchiglie che gli scendeva sul petto, e una cintura di tessuto prezioso intorno ai fianchi. Era venuto in pompa magna per finirci. Gridai al Capitano di ritirarci sulla costa, dove ci aspettavano rinforzi con le spingarde pronte a far fuoco, ma non riusciva a sentirmi. Mi voltai nuovamente verso Cilapulapu, per capire che intenzioni avesse, se voleva portare quella schermaglia ad un massacro o mostrarsi clemente. Né l’una né l’altra cosa. Lo vidi incoccare una freccia al suo arco, lo sguardo fisso su un punto preciso della battaglia, proprio dove il Capitano combatteva, tradito dall'eccessiva pomposità della sua tenuta. Io gridai nuovamente il suo nome, ma anche quella volta la mia voce si perse tra le grida forsennate dei selvaggi e le urla disperate dei miei compagni.
Cilapulapu quindi tese l’arco, si assicurò il bersaglio correggendo la mira, poi scoccò la freccia. Il Capitano cadde a terra, urlando di dolore, stringendo con la mano la gamba trafitta. Quel demonio aveva la vista di un falco e l’abilità d’un soldato addestrato. A ben pensarci però, quel colpo ci salvò la vita, obbligandoci tutti alla ritirata».
«Lui morì? Lo lasciaste sul campo in balia dei selvaggi?» mi domanda il locandiere.
«No, era pur sempre il nostro Capitano. Fui io stesso, insieme ad un compagno, a recuperarlo e trarlo in salvo dai nativi, portandolo via dalla mischia a costo della vita di molti dei nostri uomini. Quando ci videro arrivare, sporchi di sangue, sconfitti, con il nostro comandante ferito a morte, il re Humabon e i suoi ci lasciarono, disgustati e delusi. Inutile dire che ritornarono alle loro vecchie superstizioni, apostasiando la fede da poco abbracciata. L’imprudenza e l’impudenza del Capitano ci costò uomini e credibilità, per noi, per la Corona e per la nostra fede».
«Ma i vostri medici non riuscirono a fare nulla per lui? Per il portoghese intendo» mi chiede di nuovo.
«Quella serpe di Cilapulapu aveva avvelenato la freccia. Il Capitano aveva poco da vivere ormai. Riuscimmo comunque a dargli una degna sepoltura. Non avremmo potuto trasportarne la salma per quel viaggio di cui non si scorgeva la fine. Il señor Elcano prese il suo posto al comando, e grazie a lui ora siamo qui».
Finisco il mio secondo boccale, tiro un sospiro come ad indicare che la storia è finita. Ora che l’ho raccontata non mi pare neppure così terribile, non più, ora che sono a casa.
«Partire per l'occidente e tornare da oriente, che idea strampalata. E pensare che sarà uno spagnolo a prendersi tutto il merito alla fine! Il primo capitano a fare il giro del globo. Povero portoghese, Dio gli ha proprio remato contro» fa notare uno dei clienti, tutti un po’ brilli. Infatti scoppiano a ridere, dimentichi della tragedia che gli ho appena raccontato.
Per quanto possa essere irritante quella loro leggerezza però, non è per collera che mi trovo in disaccordo con quell'affermazione, no. È perché sono fermamente convinto del contrario, e glielo faccio notare.
«Forse, è così. È vero che il señor Elcano ha concluso il viaggio e vinto la corsa, ma il Capitano è morto con la spada in mano e un sogno nel cuore, il sogno di un viaggio intorno al globo, un sogno che nessun altro ha osato sognare. Per diventare una leggenda l’importante non è vincere o concludere la corsa, signori miei. L’importante è lo spirito con cui la si intraprende, e credetemi se vi dico che questo viaggio non sarà ricordato come quello del señor Elcano, ma come la grande impresa del capitano Magellano».