Capodanno 1968
Inviato: domenica 12 luglio 2020, 16:37
«Ed è per questo che mi sono arruolato. Era la cosa giusta da fare.» concluse Darren sciacquandosi la bocca dall'insipida sbobba di riso e manzo con un sorso dalla borraccia.
«Sei proprio un idiota, Bricker.» La voce di Julian Lackwood era più roca del solito, dopo l'intenso allenamento mattutino. «Una bella casa in Tennessee e uno sponsor pronto a ingaggiarti... e tu molli tutto per venire in questa fogna. Bah... »
«Anche tu sei volontario, o sbaglio?» chiese Darren raschiando gli ultimi rimasugli di cibo dalla scodella.
«Amico, io qui guadagno il triplo di quello che mi davano per imballare fieno in Nebraska. Tu invece ti sei fatto fregare dalle cazzate della propaganda, credimi.»
Erano in molti come Lackwood, a sentirsi dei mercenari più che dei veri soldati. Tanti si divertivano anche a fare i duri. La maggior parte proveniva dalle campagne, o dai sobborghi di qualche metropoli, dove i dibattiti sulla politica passavano in secondo piano rispetto al dover arrivare a fine mese. Da quelle parti arrivavano soltanto gli slogan mal interpretati di qualche giornalista fazioso.
La mano di Darren scattò meccanicamente sul braccio per schiacciare una zanzara. Non avrebbe dovuto farlo, solo i novellini si lasciano infastidire dagli insetti, ma gli veniva dannatamente istintivo. Avrebbe imparato a ignorarli, entro qualche giorno.
«Portala in cucina, Bricker» disse quel tizio alto dell'Illinois di cui non ricordava mai il nome «così avremo il rancio anche domani.»
Una risata serpeggiò per il tavolo affollato.
I ragazzi del 108 fanteria erano simpatici, e l'ora di pranzo trascorreva piacevole come sempre.
Anche i sei mesi di addestramento a Fort Benning, che tanti gli avevano descritto come una tortura infinita non erano stati così insopportabili. Gli istruttori erano severi perche il compito che li attendeva era difficile e importante, e dovevano essere preparati. Lui si era guadagnato un certo rispetto grazie ai suoi ottimi risultati e quindi aveva evitato il peggio, bullismo di camerata compreso.
Una voce sovrastò il chiasso della mensa afosa.
«108 fanteria! A rapporto, caserma 3!»
La panca strusciò sul terriccio quando metà della tavolata si alzò. I ritardatari trangugiarono frettolosamente gli ultimi bocconi del pasto nel trambusto di zaini, elmetti, e giberne, per poi incamminarsi verso gli alloggi degli ufficiali.
«Non dovrebbe essere gennaio?» chiese qualcuno.
L'accecante sole del Vietnam fece strizzare gli occhi a tutti, una volta fuori dal tendone ombreggiato. Darren sistemò il suo M14 sulla spalla e controllò di non aver lasciato nulla indietro. Le cose incustodite tendevano a sparire molto in fretta, da quelle parti.
Le cabine di legno degli ufficiali abbracciavano a semicerchio un piazzale di terra battuta, a lato del quale Jeep e camion erano parcheggiati ordinatamente fino al cancello d'ingresso della base.
Darren prese posto tra i compagni in riga mentre Lackwood bussava alla porta mezza scassata della caserma 3. Caserma. Una baracca di legno di quindici metri quadri, con un tetto di foglie di palma e due ombrine al posto dei vetri. Una scritta in vernice bianca in un angolo recitava "Grand Hotel Zio Sam".
Ne uscì un tizio sulla quarantina, e non servivano le mostrine per capire che si trattava di un ufficiale. Il disordine della barba bionda confermava che aveva superato la fase in cui un superiore ti fa una sfuriata per una cosa del genere.
«Riposo, signorine» disse quando una dozzina di mani scattarono verso altrettanti fronti sudate.
«Sono il tenente Giller, il vostro nuovo grande capo. La vostra unità è stata divisa in cinque squadre sotto il mio diretto comando.» Parlava in fretta, passeggiando con le mani dietro la schiena. «Abbiamo l'ordine di presidiare il quartiere del mercato est durante i festeggiamenti per il capodanno. Voi sarete alla stazione radio-telegrafica sulla DuongCho Road. Resterete lì fino a domani alle 12.00, quando la 10° motorizzata verrà a darvi il cambio. Tutto chiaro?»
Un "sissignore" riecheggiò nel piazzale.
«Chi è il caposquadra?» chiese seccamente saettando gli occhi su ognuno di loro.
Lackwood avanzò di un passo identificandosi come caporale.
«Armamenti di squadra?» chiese l'ufficiale ispezionando la fila.
Darren face un passo avanti.
«Bricker, signore. Tiratore scelto.» Schiena dritta. Mento in alto.
Il tenente lo guardò incuriosito.
«Darren Bricker del Tennessee? Quello che ha rinunciato alle olimpiadi di tiro per arruolarsi?»
«Sono io, signore!» Confermò Darren senza permettersi di voltarsi. «Ma non ho rinunciato, le olimpiadi si terranno a ottobre.»
«Avrai tempo di fare pratica anche qui, puoi scommetterci.» Rispose quello, senza troppo entusiasmo.
Il tenente consegnò una busta a Lackwood, poi li congedò indicando loro il punto di raccolta.
Nella tenda dei briefing il tempo non passava mai. Due noiosissime ore a fissare una mappa appesa a una lavagna, tra insetti e calura. Gli impronunciabili nomi delle strade sfuggivano alla memoria, i discorsi degli ufficiali si perdevano nella sonnolenza del pomeriggio.
Avrebbero sorvegliato un piccolo centro comunicazioni vicino alla piazza. Un casotto di mattoni con una radio, un telegrafo e un'antenna, incastrato tra le catapecchie della periferia di Saigon. Niente di speciale, come prima missione.
Il camion che li avrebbe portati a destinazione li attendeva vicino all'armeria.
Citius! Altius! Fortius!
Così recitava lo striscione che sei ragazzi reggevano all'altezza della vita. Un Darren Bricker appena maggiorenne sorrideva da una fotografia scattata quattro anni prima.
Non era cambiato molto dalle olimpiadi di Tokyo del '64. Era in Asia, aveva un fucile, faceva parte di una squadra di gente vestita tutta uguale. Rappresentava il suo paese. C'erano anche tizi più anziani che dicevano cosa fare. Un sorriso gli increspò le labbra quando si accorse che Chris Gram, anche lui del Tennessee, reggeva lo striscione proprio dove c'era scritto "altius", che latino significava "più in alto". Aveva sentito che anche Chris si era arruolato, nei paracadutisti. Più in alto di così... Chissà, magari l'avrebbe rivisto a Città del Messico a ottobre.
«Bricker» lo chiamò qualcuno «vieni ad assaggiare questa roba».
Ripose il portafogli nella tasca interna e si voltò verso la stanzetta del telegrafo. Una lampadina penzolava sospesa sopra un tavolo di legno coperto di carte da gioco, banconote di piccolo taglio e mozziconi. Sul bancone lungo la parete, una serie di dispositivi di comunicazione, tanto vecchi quanto malandati, se ne stava in silenzio a prendere polvere.
Lackwood gli pose una ciotola di legno contenente dell'acqua dall'odore pungente.
«Che cos'è?» chiese Darren.
«Intruglio vietnamita. Non male.»
Di fianco, i due ragazzetti addetti al telegrafo sorridevano eccessivamente, mostrando il pollice. "America amici" ripetevano. "Fanculo Ho Chi Minh!"
Un sapore amaro ma piacevole gli invase il palato. Erbe fermentate, spezie... niente male davvero.
«Al diavolo» sbuffò il gigante dell'Illinois lanciando due pessime carte lontano da se. «Qualcuno mi dia una sigaretta.»
«Ne ho un paio nello zaino» disse Darren tornando al suo punto d'osservazione alla finestra.
Non aveva mai amato particolarmente il tabacco, ma fumare in compagnia era un ottimo modo per socializzare e le sigarette che distribuivano fureria potevano sempre essere scambiate o vendute.
L'energumeno gli si sedette di fianco appoggiando il fucile al muro, e insieme stesero lo sguardo sul mercato sottostante.
Fiaccole e lanterne colorate illuminavano la piazzetta, il groviglio di bancarelle era circondato da rozzissimi edifici di mattoni, alti uno o due piani.
La musica della festa si mescolava con le risate e il vociare dei venditori che per quella notte avrebbero fatto affari d'oro. I ragazzi dell'altra metà della squadra, al piano terra, apostrofarono una ragazza di passaggio con complimenti che rasentavano l'offesa.
Il sapore acre del tabacco si sposava perfettamente con quello del liquore appena sorseggiato.
Non era molto diverso da una qualsiasi festa di paese nella campagna di Nashville.
«Certo che sanno divertirsi da queste parti» gli disse il compagno indicando un fuoco d'artificio che brillava in lontananza nel cielo.
La serata scorreva tra le chiacchiere più banali, quando uno scatto secco arrivò dal telegrafo.
Tutti si voltarono verso l'accozzaglia d'ingranaggi e levette nell'angolo della stanza.
«Dove sono finiti quei musi gialli?» chiese Meyer avvicinandosi al banco. Il click metallico strozzato si ripeté due, tre, quattro volte.
«Ma che cazzo...» Meyer sventolò due cavi tagliati. «La centralina è scollegata...»
Sguardi preoccupati rimbalzarono tra i presenti.
«Ok, vedi se riesci a rimetterla a posto» disse Lackwood imbracciando l'M16. «Di Roma, vai di sotto, prendi la nostra radio e contatta il comando. Gli altri, occhi aperti.»
Darren prese posto alla finestra.
Mentre lo spettacolo dei fuochi d'artificio giungeva all'apice, con botti in lontananza e bagliori che illuminavano i tetti delle case nel buio, la gente si disperdeva frettolosamente nei vicoli.
La musica era cessata.
«La porta è bloccata, caporale!»
«Che cosa?»
«È chiusa a chiave!» disse Di Roma sferrandole un calcio.
Un botto fece abbassare la testa a tutti, seguito da un grido. Una fumata scura che puzzava di esplosivo artigianale si propagò dall'angolo della stanza dove prima c'era la radio. Il banco di comunicazione era a pezzi, come la mano destra di Meyer.
Il Gigante dell'Illinois si precipitò a soccorrere il compagno.
«Stai fermo! Stai fermo!» Continuava a gridare, mentre quello si contorceva dal dolore stringendo la poltiglia sanguinante che usciva dalla manica.
«Bricker!» urlò il caposquadra. «Guarda fuori, cazzo!»
«Sì... Sissignore...».
Darren inserì il colpo in canna e si inginocchiò, sporgendosi quanto bastava per puntare il fucile.
La piazza era deserta.
Un fischio lontano si fece sempre più intenso. I lamenti di Meyer e i calci di Di Roma furono sovrastati da un fragoroso boato proveniente da fuori. Una ventata di aria calda sulla testa gli ricordò di indossare l'elmetto. Mortai. Un'altra esplosione mandò in pezzi il ristorante due edifici più in la, staccando pezzi di intonaco dai muri e dal soffitto. La lampadina tremolava.
Il ringhio degli AK-47 gli fece abbassare la testa. Dal piano di sotto arrivavano grida incomprensibili, coperte dagli spari di risposta.
«Spara, Bricker» sbraitò Lackwood spargendo proiettili verso i vicoli di fronte alla stazione radio.
Sparare? A cosa? Non si vedeva niente.
Finalmente il bagliore di un kalashnikov illuminò la sagoma di qualcuno dentro una finestra dell'edificio di fronte.
Darren puntò, in attesa di vederlo di nuovo, ma non fu così.
Un'altra sagoma, nel vicolo a sinistra. Puntò il fucile. Inutile, sicuramente il bersaglio si era già spostato. Erano più veloci dei piattelli. Le orecchie gli fischiavano.
Un altro boato, altra pioggia di intonaco. Le raffiche si sovrapponevano senza sosta, mescolandosi ad un urlo di quando in quando. Il gigante dell'Illinois smise per un istante di svuotare caricatori fuori dalla finestra, voltandosi e sbracciando verso un punto al lato opposto della stanza.
Cosa voleva dirgli? Lui era alla sua postazione. Le finestre dall'altra parte? Lì c'era... Di Roma!
Anthony Di Roma giaceva a terra scomposto, con una pozza di sangue che si espandeva dal cranio spaccato. I nervi si contraevano lentamente, accartocciandosi in modo innaturale.
Darren si gettò a terra trascinandosi sui gomiti. Le gambe erano stanche, forse era stato troppo seduto. Si sistemò all'altra finestra. Mai stare vicino ai morti, se c'e morto lui ci muori anche te, gli avevano detto all'addestramento. Si appiattì contro il muro il più possibile, ricacciando in gola il sapore acido del vomito. Il pesante fucile sbatté contro il parapetto. Di nuovo sfarfallare di kalashnikov che sparavano rapidi nell'oscurità. La canna sporgeva, si tirò un po' indietro.
Poi qualcosa si mosse dietro una bancarella a destra. Affondò bene il calcio dell'arma nella spalla, piegò il collo in avanti e aspettò.
Tra le tacche di mira dell'M14 comparve una figura esile che strisciava furtivamente tra i detriti. Aveva con se uno zaino, col quale si mise a trafficare una volta raggiunta la pila di cesti rovesciati. Ignaro di essere nel mirino di un quasi podio olimpico, il vietcong agitò un braccio. Due violente raffiche investirono la facciata, fischiando attraverso le aperture. Per fortuna i muri erano di mattoni. Avrebbero assorbito i proiettili senza farli rimbalzare a caso per la stanza, come invece avrebbe fatto il cemento.
Darren continuava a tenere gli occhi puntati sul nemico, che si era messo a correre verso di lui. Era a metà strada, nel cono d'ombra di un cartellone. Gli concesse ancora qualche passo. Ora era vicino. Così vicino da far notare come quello sguardo truce stonasse su un volto così giovane e senza barba.
Era il momento.
No, ancora un passo.
Ora si.
Il grilletto era duro, il dito rigido.
Darren si svuotò d'aria i polmoni.
Troppo tardi.
Il viet era arrivato a ridosso del muro, e con un ampio movimento ad arco, lanciò lo zaino dietro l'angolo.
Le finestre del piano terra.
Un istante dopo, uno scoppio assordante fece crollare il fragile pavimento, schizzando schegge di legno e mattoni ovunque. Darren sprofondò tra i calcinacci, mentre qualcosa di duro e ruvido gli grattugiava la faccia.
I talloni strusciavano sull'asfalto. Il gibernaggio lo impiccava. Il rudere in fiamme della stazione radio si faceva sempre più distante, e tutto quanto sapeva di ferro.
Julian Lackwood muoveva la bocca, ma la voce roca non usciva.
Il soffitto non stava fermo un secondo. Gente intorno a lui compariva e scompariva, un po' come il dolore sparso per tutto il corpo.
Quando finalmente un tizio si chinò su di lui, gli chiese cosa stava succedendo.
Forse gli aveva sputato del sangue in faccia, perche quello in tutta risposta, gli cacciò un ago in vena. Voleva mandare a fanculo quel maleducato, ma aveva tanto sonno. Magari domattina...
Il mondo riprese a esistere lentamente. Ora il soffitto era fermo, un po' sfuocato, forse. Si tirò su appoggiandosi sui gomiti, anche se qualcosa tra le costole gli diceva che sarebbe stato meglio non farlo. Intorno a lui, una ventina di barelle appoggiate a terra ospitavano altrettanti soldati, o ciò che ne restava.
Meyer dormiva, con una flebo che spuntava dal braccio rimasto. Non sarebbe più tornato nella sua amata palestra di boxe a New York, se non da spettatore.
Un po' più avanti, due soldati con la fascia della croce rossa erano chini su un tizio grosso e insanguinato. Uno gli passò la mano sul viso, l'altro gli ricompose le braccia lungo i fianchi. Coprirono con un telo quella sagoma imponente. Johnson. Ecco come si chiamava, Johnson. Era così facile da ricordare. Non se lo sarebbe più scordato.
Non era come a Tokyo. Non era come il capodanno a Nashville.
«Voglio tornare a casa.»
«Sei proprio un idiota, Bricker.» La voce di Julian Lackwood era più roca del solito, dopo l'intenso allenamento mattutino. «Una bella casa in Tennessee e uno sponsor pronto a ingaggiarti... e tu molli tutto per venire in questa fogna. Bah... »
«Anche tu sei volontario, o sbaglio?» chiese Darren raschiando gli ultimi rimasugli di cibo dalla scodella.
«Amico, io qui guadagno il triplo di quello che mi davano per imballare fieno in Nebraska. Tu invece ti sei fatto fregare dalle cazzate della propaganda, credimi.»
Erano in molti come Lackwood, a sentirsi dei mercenari più che dei veri soldati. Tanti si divertivano anche a fare i duri. La maggior parte proveniva dalle campagne, o dai sobborghi di qualche metropoli, dove i dibattiti sulla politica passavano in secondo piano rispetto al dover arrivare a fine mese. Da quelle parti arrivavano soltanto gli slogan mal interpretati di qualche giornalista fazioso.
La mano di Darren scattò meccanicamente sul braccio per schiacciare una zanzara. Non avrebbe dovuto farlo, solo i novellini si lasciano infastidire dagli insetti, ma gli veniva dannatamente istintivo. Avrebbe imparato a ignorarli, entro qualche giorno.
«Portala in cucina, Bricker» disse quel tizio alto dell'Illinois di cui non ricordava mai il nome «così avremo il rancio anche domani.»
Una risata serpeggiò per il tavolo affollato.
I ragazzi del 108 fanteria erano simpatici, e l'ora di pranzo trascorreva piacevole come sempre.
Anche i sei mesi di addestramento a Fort Benning, che tanti gli avevano descritto come una tortura infinita non erano stati così insopportabili. Gli istruttori erano severi perche il compito che li attendeva era difficile e importante, e dovevano essere preparati. Lui si era guadagnato un certo rispetto grazie ai suoi ottimi risultati e quindi aveva evitato il peggio, bullismo di camerata compreso.
Una voce sovrastò il chiasso della mensa afosa.
«108 fanteria! A rapporto, caserma 3!»
La panca strusciò sul terriccio quando metà della tavolata si alzò. I ritardatari trangugiarono frettolosamente gli ultimi bocconi del pasto nel trambusto di zaini, elmetti, e giberne, per poi incamminarsi verso gli alloggi degli ufficiali.
«Non dovrebbe essere gennaio?» chiese qualcuno.
L'accecante sole del Vietnam fece strizzare gli occhi a tutti, una volta fuori dal tendone ombreggiato. Darren sistemò il suo M14 sulla spalla e controllò di non aver lasciato nulla indietro. Le cose incustodite tendevano a sparire molto in fretta, da quelle parti.
Le cabine di legno degli ufficiali abbracciavano a semicerchio un piazzale di terra battuta, a lato del quale Jeep e camion erano parcheggiati ordinatamente fino al cancello d'ingresso della base.
Darren prese posto tra i compagni in riga mentre Lackwood bussava alla porta mezza scassata della caserma 3. Caserma. Una baracca di legno di quindici metri quadri, con un tetto di foglie di palma e due ombrine al posto dei vetri. Una scritta in vernice bianca in un angolo recitava "Grand Hotel Zio Sam".
Ne uscì un tizio sulla quarantina, e non servivano le mostrine per capire che si trattava di un ufficiale. Il disordine della barba bionda confermava che aveva superato la fase in cui un superiore ti fa una sfuriata per una cosa del genere.
«Riposo, signorine» disse quando una dozzina di mani scattarono verso altrettanti fronti sudate.
«Sono il tenente Giller, il vostro nuovo grande capo. La vostra unità è stata divisa in cinque squadre sotto il mio diretto comando.» Parlava in fretta, passeggiando con le mani dietro la schiena. «Abbiamo l'ordine di presidiare il quartiere del mercato est durante i festeggiamenti per il capodanno. Voi sarete alla stazione radio-telegrafica sulla DuongCho Road. Resterete lì fino a domani alle 12.00, quando la 10° motorizzata verrà a darvi il cambio. Tutto chiaro?»
Un "sissignore" riecheggiò nel piazzale.
«Chi è il caposquadra?» chiese seccamente saettando gli occhi su ognuno di loro.
Lackwood avanzò di un passo identificandosi come caporale.
«Armamenti di squadra?» chiese l'ufficiale ispezionando la fila.
Darren face un passo avanti.
«Bricker, signore. Tiratore scelto.» Schiena dritta. Mento in alto.
Il tenente lo guardò incuriosito.
«Darren Bricker del Tennessee? Quello che ha rinunciato alle olimpiadi di tiro per arruolarsi?»
«Sono io, signore!» Confermò Darren senza permettersi di voltarsi. «Ma non ho rinunciato, le olimpiadi si terranno a ottobre.»
«Avrai tempo di fare pratica anche qui, puoi scommetterci.» Rispose quello, senza troppo entusiasmo.
Il tenente consegnò una busta a Lackwood, poi li congedò indicando loro il punto di raccolta.
Nella tenda dei briefing il tempo non passava mai. Due noiosissime ore a fissare una mappa appesa a una lavagna, tra insetti e calura. Gli impronunciabili nomi delle strade sfuggivano alla memoria, i discorsi degli ufficiali si perdevano nella sonnolenza del pomeriggio.
Avrebbero sorvegliato un piccolo centro comunicazioni vicino alla piazza. Un casotto di mattoni con una radio, un telegrafo e un'antenna, incastrato tra le catapecchie della periferia di Saigon. Niente di speciale, come prima missione.
Il camion che li avrebbe portati a destinazione li attendeva vicino all'armeria.
Citius! Altius! Fortius!
Così recitava lo striscione che sei ragazzi reggevano all'altezza della vita. Un Darren Bricker appena maggiorenne sorrideva da una fotografia scattata quattro anni prima.
Non era cambiato molto dalle olimpiadi di Tokyo del '64. Era in Asia, aveva un fucile, faceva parte di una squadra di gente vestita tutta uguale. Rappresentava il suo paese. C'erano anche tizi più anziani che dicevano cosa fare. Un sorriso gli increspò le labbra quando si accorse che Chris Gram, anche lui del Tennessee, reggeva lo striscione proprio dove c'era scritto "altius", che latino significava "più in alto". Aveva sentito che anche Chris si era arruolato, nei paracadutisti. Più in alto di così... Chissà, magari l'avrebbe rivisto a Città del Messico a ottobre.
«Bricker» lo chiamò qualcuno «vieni ad assaggiare questa roba».
Ripose il portafogli nella tasca interna e si voltò verso la stanzetta del telegrafo. Una lampadina penzolava sospesa sopra un tavolo di legno coperto di carte da gioco, banconote di piccolo taglio e mozziconi. Sul bancone lungo la parete, una serie di dispositivi di comunicazione, tanto vecchi quanto malandati, se ne stava in silenzio a prendere polvere.
Lackwood gli pose una ciotola di legno contenente dell'acqua dall'odore pungente.
«Che cos'è?» chiese Darren.
«Intruglio vietnamita. Non male.»
Di fianco, i due ragazzetti addetti al telegrafo sorridevano eccessivamente, mostrando il pollice. "America amici" ripetevano. "Fanculo Ho Chi Minh!"
Un sapore amaro ma piacevole gli invase il palato. Erbe fermentate, spezie... niente male davvero.
«Al diavolo» sbuffò il gigante dell'Illinois lanciando due pessime carte lontano da se. «Qualcuno mi dia una sigaretta.»
«Ne ho un paio nello zaino» disse Darren tornando al suo punto d'osservazione alla finestra.
Non aveva mai amato particolarmente il tabacco, ma fumare in compagnia era un ottimo modo per socializzare e le sigarette che distribuivano fureria potevano sempre essere scambiate o vendute.
L'energumeno gli si sedette di fianco appoggiando il fucile al muro, e insieme stesero lo sguardo sul mercato sottostante.
Fiaccole e lanterne colorate illuminavano la piazzetta, il groviglio di bancarelle era circondato da rozzissimi edifici di mattoni, alti uno o due piani.
La musica della festa si mescolava con le risate e il vociare dei venditori che per quella notte avrebbero fatto affari d'oro. I ragazzi dell'altra metà della squadra, al piano terra, apostrofarono una ragazza di passaggio con complimenti che rasentavano l'offesa.
Il sapore acre del tabacco si sposava perfettamente con quello del liquore appena sorseggiato.
Non era molto diverso da una qualsiasi festa di paese nella campagna di Nashville.
«Certo che sanno divertirsi da queste parti» gli disse il compagno indicando un fuoco d'artificio che brillava in lontananza nel cielo.
La serata scorreva tra le chiacchiere più banali, quando uno scatto secco arrivò dal telegrafo.
Tutti si voltarono verso l'accozzaglia d'ingranaggi e levette nell'angolo della stanza.
«Dove sono finiti quei musi gialli?» chiese Meyer avvicinandosi al banco. Il click metallico strozzato si ripeté due, tre, quattro volte.
«Ma che cazzo...» Meyer sventolò due cavi tagliati. «La centralina è scollegata...»
Sguardi preoccupati rimbalzarono tra i presenti.
«Ok, vedi se riesci a rimetterla a posto» disse Lackwood imbracciando l'M16. «Di Roma, vai di sotto, prendi la nostra radio e contatta il comando. Gli altri, occhi aperti.»
Darren prese posto alla finestra.
Mentre lo spettacolo dei fuochi d'artificio giungeva all'apice, con botti in lontananza e bagliori che illuminavano i tetti delle case nel buio, la gente si disperdeva frettolosamente nei vicoli.
La musica era cessata.
«La porta è bloccata, caporale!»
«Che cosa?»
«È chiusa a chiave!» disse Di Roma sferrandole un calcio.
Un botto fece abbassare la testa a tutti, seguito da un grido. Una fumata scura che puzzava di esplosivo artigianale si propagò dall'angolo della stanza dove prima c'era la radio. Il banco di comunicazione era a pezzi, come la mano destra di Meyer.
Il Gigante dell'Illinois si precipitò a soccorrere il compagno.
«Stai fermo! Stai fermo!» Continuava a gridare, mentre quello si contorceva dal dolore stringendo la poltiglia sanguinante che usciva dalla manica.
«Bricker!» urlò il caposquadra. «Guarda fuori, cazzo!»
«Sì... Sissignore...».
Darren inserì il colpo in canna e si inginocchiò, sporgendosi quanto bastava per puntare il fucile.
La piazza era deserta.
Un fischio lontano si fece sempre più intenso. I lamenti di Meyer e i calci di Di Roma furono sovrastati da un fragoroso boato proveniente da fuori. Una ventata di aria calda sulla testa gli ricordò di indossare l'elmetto. Mortai. Un'altra esplosione mandò in pezzi il ristorante due edifici più in la, staccando pezzi di intonaco dai muri e dal soffitto. La lampadina tremolava.
Il ringhio degli AK-47 gli fece abbassare la testa. Dal piano di sotto arrivavano grida incomprensibili, coperte dagli spari di risposta.
«Spara, Bricker» sbraitò Lackwood spargendo proiettili verso i vicoli di fronte alla stazione radio.
Sparare? A cosa? Non si vedeva niente.
Finalmente il bagliore di un kalashnikov illuminò la sagoma di qualcuno dentro una finestra dell'edificio di fronte.
Darren puntò, in attesa di vederlo di nuovo, ma non fu così.
Un'altra sagoma, nel vicolo a sinistra. Puntò il fucile. Inutile, sicuramente il bersaglio si era già spostato. Erano più veloci dei piattelli. Le orecchie gli fischiavano.
Un altro boato, altra pioggia di intonaco. Le raffiche si sovrapponevano senza sosta, mescolandosi ad un urlo di quando in quando. Il gigante dell'Illinois smise per un istante di svuotare caricatori fuori dalla finestra, voltandosi e sbracciando verso un punto al lato opposto della stanza.
Cosa voleva dirgli? Lui era alla sua postazione. Le finestre dall'altra parte? Lì c'era... Di Roma!
Anthony Di Roma giaceva a terra scomposto, con una pozza di sangue che si espandeva dal cranio spaccato. I nervi si contraevano lentamente, accartocciandosi in modo innaturale.
Darren si gettò a terra trascinandosi sui gomiti. Le gambe erano stanche, forse era stato troppo seduto. Si sistemò all'altra finestra. Mai stare vicino ai morti, se c'e morto lui ci muori anche te, gli avevano detto all'addestramento. Si appiattì contro il muro il più possibile, ricacciando in gola il sapore acido del vomito. Il pesante fucile sbatté contro il parapetto. Di nuovo sfarfallare di kalashnikov che sparavano rapidi nell'oscurità. La canna sporgeva, si tirò un po' indietro.
Poi qualcosa si mosse dietro una bancarella a destra. Affondò bene il calcio dell'arma nella spalla, piegò il collo in avanti e aspettò.
Tra le tacche di mira dell'M14 comparve una figura esile che strisciava furtivamente tra i detriti. Aveva con se uno zaino, col quale si mise a trafficare una volta raggiunta la pila di cesti rovesciati. Ignaro di essere nel mirino di un quasi podio olimpico, il vietcong agitò un braccio. Due violente raffiche investirono la facciata, fischiando attraverso le aperture. Per fortuna i muri erano di mattoni. Avrebbero assorbito i proiettili senza farli rimbalzare a caso per la stanza, come invece avrebbe fatto il cemento.
Darren continuava a tenere gli occhi puntati sul nemico, che si era messo a correre verso di lui. Era a metà strada, nel cono d'ombra di un cartellone. Gli concesse ancora qualche passo. Ora era vicino. Così vicino da far notare come quello sguardo truce stonasse su un volto così giovane e senza barba.
Era il momento.
No, ancora un passo.
Ora si.
Il grilletto era duro, il dito rigido.
Darren si svuotò d'aria i polmoni.
Troppo tardi.
Il viet era arrivato a ridosso del muro, e con un ampio movimento ad arco, lanciò lo zaino dietro l'angolo.
Le finestre del piano terra.
Un istante dopo, uno scoppio assordante fece crollare il fragile pavimento, schizzando schegge di legno e mattoni ovunque. Darren sprofondò tra i calcinacci, mentre qualcosa di duro e ruvido gli grattugiava la faccia.
I talloni strusciavano sull'asfalto. Il gibernaggio lo impiccava. Il rudere in fiamme della stazione radio si faceva sempre più distante, e tutto quanto sapeva di ferro.
Julian Lackwood muoveva la bocca, ma la voce roca non usciva.
Il soffitto non stava fermo un secondo. Gente intorno a lui compariva e scompariva, un po' come il dolore sparso per tutto il corpo.
Quando finalmente un tizio si chinò su di lui, gli chiese cosa stava succedendo.
Forse gli aveva sputato del sangue in faccia, perche quello in tutta risposta, gli cacciò un ago in vena. Voleva mandare a fanculo quel maleducato, ma aveva tanto sonno. Magari domattina...
Il mondo riprese a esistere lentamente. Ora il soffitto era fermo, un po' sfuocato, forse. Si tirò su appoggiandosi sui gomiti, anche se qualcosa tra le costole gli diceva che sarebbe stato meglio non farlo. Intorno a lui, una ventina di barelle appoggiate a terra ospitavano altrettanti soldati, o ciò che ne restava.
Meyer dormiva, con una flebo che spuntava dal braccio rimasto. Non sarebbe più tornato nella sua amata palestra di boxe a New York, se non da spettatore.
Un po' più avanti, due soldati con la fascia della croce rossa erano chini su un tizio grosso e insanguinato. Uno gli passò la mano sul viso, l'altro gli ricompose le braccia lungo i fianchi. Coprirono con un telo quella sagoma imponente. Johnson. Ecco come si chiamava, Johnson. Era così facile da ricordare. Non se lo sarebbe più scordato.
Non era come a Tokyo. Non era come il capodanno a Nashville.
«Voglio tornare a casa.»